Il caso

Mondadori chiude le redazioni romane. Molti dubbi sul futuro

di Francesca Cederna |

Ultimo brindisi a Roma in mezzo agli scatoloni del trasloco. Ma una volta svanite le bollicine dello spumante restano sul tavolo diversi interrogativi.

Venerdì 4 dicembre c’è stato un po’ di movimento (pacche sulla spalle, strette di mano) nella sede Mondadori di Roma: per scacciare la malinconia della fine di una storia, i giornalisti hanno invitato qualche vecchio collega a fare l’ultimo brindisi in mezzo agli scatoloni del trasloco.

Prima conseguenza della vendita della storica palazzina di via Sicilia in cui abitò il fondatore, annunciata a fine ottobre, è stata infatti la chiusura delle redazioni romane di Chi, Panorama e Tv Sorrisi e canzoni, che per metà dei giornalisti significa un non ben specificato lavoro «da casa» e per l’altra metà il trasferimento forzato a Milano.

Chi ha partecipato assicura che l’atmosfera era tranquilla e che le chiacchiere fra ex vicini di scrivania hanno tenuto a bada per un’oretta l’angoscia e la preoccupazione per il futuro.

Ma una volta svanite le bollicine dello spumante restano sul tavolo diversi interrogativi.

Il punto di partenza è ovviamente la crisi generale che investe i periodici più ancora dei quotidiani: testate immuni da cali di copie vendute e fatturato pubblicitario non ce ne sono più, ma proprio per questo occorre chiedersi se editori, sindacati e governo stiano facendo le cose giuste per affrontare i cambiamenti in atto.

A giudicare dal caso Mondadori si direbbe proprio di no, ma sappiamo che il quesito riguarda tutta l’industria editoriale italiana.

Da sei anni nella casa di Segrate si succedono stati di crisi a ripetizione, con un flusso di denaro pubblico fra prepensionamenti, solidarietà e cassa integrazione (considerando l’intervento dell’Inpgi e quello dello Stato), calcolato dalla corrente sindacale “Puntoeacapo” in ben 14 milioni di euro.

L’argomento è stato oggetto anche di alcune interrogazioni parlamentari nelle ultime settimane. E siamo ancora a metà strada, perché nel conto non è compreso l’ultimo contratto di solidarietà destinato a durare fino a giugno 2017.

A quella data la casa editrice di Segrate avrà ottenuto, approssimando per difetto, 16-17 milioni di euro di contributi, senza contare la parte toccata ai suoi dipendenti (un taglio di circa il 4-5% delle retribuzioni per 4 anni).

Nonostante tutto questo, la fine del tunnel non si vede neppure da lontano, almeno per i periodici della casa, dove ci sono da smaltire ancora almeno 20-25 esuberi rispetto ai 38 messi nero su bianco (con l’avallo del sindacato) nell’ultimo contratto di solidarietà.

A che cosa sono servite allora le risorse rese disponibili dai sacrifici di tanti?

Nel piano di riorganizzazione presentato alla Fnsi a maggio scorso, in occasione dell’ultimo stato di crisi, la Mondadori parla di una crescita percentuale degli investimenti dal 12,2 al 17,4 del fatturato nel periodo 2011-2014, equivalente in termini assoluti a un decremento da 48,7 a 41,2 milioni, che sarebbe comunque onorevole visto il calo molto maggiore dei ricavi.

Ma bisogna fidarsi a scatola chiusa, perché il piano fornisce ben pochi dettagli.

Quel che invece è sicuro è che a ottobre scorso la casa editrice ha comprato per 127,5 milioni la Rizzoli Libri e che pochi mesi prima l’amministratore delegato di Mondadori Ernesto Mauri avrebbe ricevuto un premio di risultato di 2,4 milioni di euro che avrebbe portato la sua retribuzione complessiva del 2014 alla bella cifra di 4 milioni.

Si tratta di cifre reali?

Forse per questo nei primi mesi del 2015 si è letto in varie interviste dei successi della sua gestione.

I giornalisti tirarono allora un sospiro di sollievo, pensando che, stando così le cose, nessuno avrebbe chiesto loro di rinnovare il sacrificio della solidarietà.

Neanche per sogno.

Al momento di sedersi al tavolo venne fuori che la situazione non era esattamente così brillante, per cui ancora altri esuberi, stipendi decurtati, interventi dello Stato e dell’Inpgi. E ad appena quattro mesi da quell’accordo, siglato a fine maggio, la doccia fredda della chiusura delle tre redazioni romane, con relativi trasferimenti a Milano che appaiono come il tentativo di indurre all’uscita il maggior numero di giornalisti e dipendenti amministrativi.

Dove sono dunque, si chiedono i giornalisti, i successi conseguiti dal top management che verrebbero premiati in modo così significativo?

I conti del 2015 si conosceranno fra qualche mese, ma si può dire fin d’ora che le tante sofferenze di questa storia rendono difficile qualsiasi giudizio. Se saranno buoni, come annunciato da Mauri nelle interviste dei mesi scorsi, ci si potrà chiedere come mai i contribuenti e i giornalisti italiani (tanto più vista la difficile situazione dei conti dell’Inpgi) debbano continuare a contribuirvi, e se invece saranno cattivi, come parrebbe dal numero di esuberi e dalla chiusura delle sedi, sarà lecito chiedere conto di come sono state spese le risorse economiche fornite per salvare i posti di lavoro e il valore culturale delle testate.

La verità è che ci troviamo di fronte al solito paradosso italiano: non si può esaltare il mercato con le sue regole e poi pescare tra gli aiuti pubblici, senza porsi il problema se e come cambiare il modello di business in un mercato ed in un mondo che stanno cambiando radicalmente. Parallelamente non si comprende perché i sindacati, sostengono i giornalisti del gruppo, sempre pronti a chiedere l’intervento del governo (che oggi non sembra dare loro molto ascolto) consentano a un’impresa di fare acquisizioni così impegnative e riconoscere somme così impegnative ai manager anche grazie a risorse pubbliche, mentre taglia posti di lavoro.

Logica vorrebbe che un privato cui viene concesso un beneficio pubblico accetti di rendere conto delle sue scelte fintanto che lo riceve. E gli stessi manager dovrebbero farsi carico delle scelte e delle difficoltà aziendali fino in fondo, piuttosto che prendere a volo scivoli d’oro.

Se questo non è possibile, forse è più produttivo ed equo, per quanto doloroso, fare come nel mondo anglosassone, dove sindacati e imprese si confrontano, anche duramente se necessario, e alla fine ognuno va per la sua strada. Con i propri mezzi e le proprie capacità.