Il Piano

Gas, UE pronta al razionamento. Il Nord Stream 1 potrebbe non ripartire

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Dalla prima bozza di piano UE per “Risparmiare gas per un inverno sicuro” si evince che la strategia sia una sola: risparmiare sui consumi e fare ricorso a carbone e nucleare. Invece di sfruttare a pieno l’innovazione tecnologica e le fonti rinnovabili, si preferisce tornare indietro. Gazprom mette le mani avanti sul futuro.

La bozza di piano europeo per risparmiare gas e chiudere con Mosca

La bozza di piano dell’Unione europea (Ue) per far fronte alla crisi energetica legata alle forniture russe di gas naturale non rassicura affatto sulla capacità degli Stati di far fronte a quello che è già stato ribattezzato “l’inverno energetico europeo”.

D’altronde, se l’unica arma a disposizione dell’Europa è il razionamento delle risorse, è molto probabile che questo prossimo inverno sarà tra i più duri degli ultimi 70 anni. Il problema non è abbassare di un grado o due i termosifoni in casa, o utilizzare in maniera più ponderata (non sotto i 25°C) il condizionatore in questi mesi estivi già di per sé molto caldi, ma la mancanza di prospettive serie.

Se gli obiettivi sono alla portata di mano famiglie, imprese e industrie saranno sicuramente pronte a fare il proprio per favorire una transizione energetica, senza dimenticare però quella ecologica.

Nella bozza di piano chiamato “Risparmiare gas per un inverno sicuro“, che sarà presentata dalla Commissione il 20 luglio, si parla di “campagne di risparmio di gas mirate alle famiglie per l’abbassamento del termostato di un grado, ma anche imponendo, laddove tecnicamente fattibile e applicabile, la riduzione del riscaldamento di edifici pubblici, uffici, edifici commerciali (in particolare grandi edifici) a 19 gradi”, secondo quanto riportato da Teleborsa.

Gazprom minaccia i rubinetti chiusi dopo il 21 luglio

Il fine ultimo è sostanzialmente evitare il peggio e cioè in caso di forte riduzione delle forniture di gas russo almeno essere in grado di ridurne l’impatto negativo su famiglie e soprattutto imprese e industrie.

E purtroppo da Gazprom non arrivano buone notizie. Dopo lo stop al Nord Stream 1 fino al 21 luglio, ufficialmente per motivi tecnici, con manutenzione in corso, il Gruppo controllato da Mosca ha fatto sapere agli Stati europei che “al momento non è garantito il buon funzionamento dell’infrastruttura dopo quella data”.

Insomma, i peggiori incubi energetici europei sembrano concretizzarsi. La chiusura dei rubinetti mette a rischio la campagna di riempimento degli stoccaggi per l’inverno 2022/2023, che invece dell’80% previsto per la fine di ottobre potrebbe assestarsi attorno al 65-70%. Un livello insufficiente per i nostri standard energetici.

Tutto si dovrebbe giocare, si legge su La Repubblica, nell’arrivo in tempo della turbina in riparazione in Canada. La Siemens si è detta pronta a trasportare rapidamente la macchina da Ottawa in Europa per accelerare i lavori al Nord Stream 1. Gazprom però non ci crede, dice che non ci sono ancora i documenti.

Tutelare industrie strategiche e famiglie, anche a costo di far saltare la transizione ecologica

Una strategia per uscire dalla crisi e dalla dipendenza dalle forniture russe non sembra ci sia ancora, ma l’idea è che bisogna tenere duro, provvedere alla ridistribuzione delle risorse energetiche sul principio di solidarietà (chi ha di più dia a chi ha di meno), riempiendo al massimo gli stoccaggi per l’inverno, trasportando più gas possibile da Ovest verso Est, riducendo ogni eccesso e combattendo gli sprechi.

L’obiettivo principale, si legge nella bozza, “è attutire di almeno un terzo l’impatto che l’interruzione totale del gas russo potrebbe avere sull’economia europea”, ma anche “proteggere non solo le famiglie e le utenze essenziali come gli ospedali, ma anche le industrie, che sono decisive per le catene di approvvigionamento dell’Ue, la competitività e la fornitura di prodotti e servizi essenziali per l’economia”.

È chiaro a tutti che dal momento in cui si riaprono le centrali a carbone e si tenta di equiparare il nucleare ad una fonte green quasi rinnovabile, significa che, dopo anni di annunci e promesse roboanti, di green c’è poco nell’aria e questo nel momento in cui la stragrande maggioranza dei cittadini europei vede nei cambiamenti climatici una minaccia molto seria alla propria incolumità, all’economia e all’ambiente.

La siccità, le ondate di calore estremo che si susseguono senza sosta (siamo alla vigilia della quarta), con temperature regolarmente oltre i 40°C, i fenomeni meteo estremi che ne derivano, i danni all’industria e all’agricoltura (per la mancanza di acqua o per l’improvvisa troppa acqua che cade dal cielo), sono tutte emergenze che già stiamo vivendo e che nei prossimi mesi potrebbero aggravare il cumulo delle perdite.

C’era tutto il tempo (e ce n’è ancora) di sfruttare le fonti rinnovabili

Bisognava insistere con maggiore decisione sulle fonti energetiche rinnovabili, che vengono agitate come una grande bandiera ad ogni summit, incontro o conferenza stampa, da parte dei vertici della Commissione europea, ma anche dei singoli Stati membri dell’Unione, per poi dover parlare concretamente solo di gas, petrolio e carbone.

Il tempo c’era. Parliamo di problemi energetici dal 2021, poi la guerra in Ucraina li ha trasformati in emergenza energetica. La realtà che si profila è che le rendite garantite nel settore energetico, legate ai combustibili fossili, hanno sempre rallentato ogni transizione possibile.

In realtà di tempo ne abbiamo ancora molto a disposizione e le soluzioni tecnologiche sono già disponibili, se davvero si vuole investire in fonti rinnovabili.

Il problema è che manca la volontà e ogni volta si punta il dito sui problemi burocratici che ostacolano le opportunità reali di sfruttare il sole (di cui ne abbiamo a volontà) e di abbassare i costi generali (sta qui la vera indipendenza energetica dall’estero, o comunque una buona parte).

A quanto pare si preferisce il carbone, il nucleare, il petrolio e il gas liquido che paghiamo il 50% in più tramite le forniture d’emergenza americane .

Più in generale la diversificazione degli approvvigionamenti da più Stati farà aumentare il costo delle risorse importate del 30% circa, soprattutto per i trasporti e le nuove infrastrutture necessarie.