Cultura

Effetto Natale, tutti (o quasi) sembrano rimuovere i problemi gravi delle industrie culturali e creative italiane

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Stage & Indies denuncia la decisione di Spotify di non pagare sotto la soglia dei 1.000 “stream”, per eliminare gli “ascolti taroccati”, strozzando gli autori emergenti. E nasce la Fieco, Federazione Italiana Editori e Creatori Online.

È un periodo di rituale alienazione, quello del Natale, una festa che ha perso quasi completamente il suo significato religioso e spirituale, trasformandosi in un banale rito consumista: in questa drogata effervescenza di acquisti materialistici e di auguri stereotipati, chi cura questa rubrica – eterodossa per vocazione e per denominazione – vuole proporre ai propri affezionati lettori (pochi, nell’ordine di due o tremila per edizione; cifre certamente irrisorie nell’economia dei “social media”, ma un target ben mirato e d’élite) alcune considerazioni in parte “sganciate” da quelle numerologie che pure spesso ci appassionano su queste colonne.

Non andremo a proporre un presuntuoso “bilancio di fine anno”, ma più semplicemente alcune considerazioni – come dire?! – “d’atmosfera”, e certamente ben lontane dalla ipocrisia del “a Natale, ci si vuole più bene” (anzi, per carattere tendiamo a simpatizzare per il Grinch!).

Lo scenario del cinema e della televisione mostra criticità gravi in Italia, ma pochi sembrano averne coscienza, ubriacati da effimeri entusiasmi: come commentare l’ennesima sortita della Sottosegretaria sempre sorridente delegata al cinema e all’audiovisivo, che esulta per una pre-nomination del film di Matteo GarroneIo Capitano” verso l’Oscar, facendo finta di ignorare che si tratta di un semplice primo passo su un percorso accidentato ed in salita?

E non spende una parola, la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, rispetto alla quota di mercato del cinema italiano in sala, che resta bassa assai, nonostante la grancassa del successo eccezionale del film di Paola CortellesiC’è ancora domani”. Si esulta perché forse tra qualche settimana il “box office” sancirà che il film di Cortellesi avrà forse superato l’incasso in Italia di “Barbie”: bene, ne siamo tutti lieti, ma – ripetiamo – una rondine non è sintomatica di una primavera, e… che dire di tutto il resto del cinema italiano?!

Che dire di una assurda sovrapproduzione di titoli, determinata dalla manna delle sovvenzioni statali, che non vengono accolti dal mercato? Molti di questi film non escono nemmeno in sala, e, quando escono, registrano incassi modesti, se non penosi… Vengono ignorati dalle emittenti televisive e dalle piattaforme.

Si attendono ancora le novelle prospettive che dovrebbero essere determinate dalla più volte annunciata riforma del “tax credit”, ovvero da una qualche limitazione all’accesso alla “droga” che ha sì determinato la “piena occupazione” dei lavoratori del settore (con incosciente gioia anche dei sindacati), ma senza rendersi conto che, se lo Stato staccasse la spina, si assisterebbe al crollo di un grande “castello di carte” (alcune di queste “carte” sono peraltro simpaticamente artefatte e manipolate, come si spera verrà prima o poi dimostrato dalla Guardia di Finanza e dalla Magistratura).

L’attuale sistema di sostegno pubblico al cinema e all’audiovisivo non ha rafforzato la struttura industriale del settore: modesta la vocazione al rischio, marginale il capitale di rischio delle imprese

Il sostegno pubblico al cinema ed all’audiovisivo non ha realmente rafforzato la struttura del sistema italiano, perché è ancora insignificante la vocazione al rischio degli imprenditori.

E non è forse casuale – come abbiamo denunciato tante volte (anche su queste colonne) – che il Ministero della Cultura non abbia il coraggio di rivelare a quanto ammonta il capitale proprio che i produttori investono nella produzione: il dato sul capitale di rischio non appare nella pubblicazione retoricamente denominata “Tutti i numeri del cinema e audiovisivo”, curata a cadenza annuale dalla Direzione guidata da Nicola Borrelli (vedi “Key4biz” del 10 ottobre 2023, “Il cinema italiano va davvero benissimo”)…

Le due principali associazioni dei produttori di cinema e audiovisivo (rispettivamente l’Anica presieduta da Francesco Rutelli e l’Apa presieduta da Chiara Sbarigia – che è anche Presidente di Cinecittà, senza che questa evidente incompatibilità venga sanata dal Ministero, che pure è l’azionista unico degli “studios” di Via Tuscolana) presentano ricerche che vorrebbero dimostrare come sia cresciuta la capacità di “export” del cinema e dell’audiovisivo italiano, ma fanno finta – anche loro – di ignorare come la quota di mercato dei film italiani nei maggiori Paesi del mondo sia assolutamente insignificante…

Anche a livello di distribuzione televisiva e sulle piattaforme, la situazione evidenzia la miseria della penetrazione del “made in Italy” audiovisivo nel mondo.

Ma ci si esalta invece perché “Il Capitano” corre per gli Oscar!

Abbiamo notato, martedì scorso su queste colonne (vedi “Key4biz” del 19 dicembre “Da Netflix a Cinetel: quando i numeri producono qualche confusione”), come sia penosa la quota di “audience” di film cinematografici e di fiction televisiva prodotti in Italia sul totale delle “ore viste” sulla piattaforma Netflix: lo 0,3 % sul totale del monte ore di fruizione (rispetto ai primi 1.000 titoli per quantità di ore, nel primo semestre del 2023).

Un dato del genere dovrebbe stimolare una riflessione critica nel Ministro Gennaro Sangiuliano, nella Sottosegretaria Lucia Borgonzoni, nel Direttore Generale Nicola Borrelli: e basti pensare che l’Italia non ha ancora una agenzia specializzata per la promozione del “made in Italy” audiovisivo, allorquando UniFrance opera da decenni… D’altronde la struttura che governa l’intervento pubblico nel settore nel Paese d’Oltralpe – il Centre national du Cinéma et de l’Image animée (Cnc) – ha un organico di circa 400 dipendenti, a fronte dei meno 100 dipendenti della italica Direzione Cinema e Audiovisivo (Dgca), e ci si stupisce quindi che – tra l’altro – “le pratiche” ministeriali procedano a rilento, nel nostro Paese?!

La Rai alla deriva, nel disinteresse dei più… Quando verrà pubblicato in Gazzetta Ufficiale il nuovo “contratto di servizio”?

E della Rai, che dire? Si assiste, nel silenzio dei più (tra i pochi dissidenti il prezioso “BloggoRai”), ad una deriva incredibile.

Gli ascolti vanno complessivamente male… le nuove trasmissioni arrancano… il “Contratto di Servizio” – pur benedetto dalla Commissione bicamerale di Vigilanza oltre due mesi fa – non è stato ancora perfezionato (e chissà quando verrà pubblicato in Gazzetta Ufficiale, divenendo operativo pur nella sua accresciuta evanescenza)… permane incertezza sulle conseguenze della riduzione del canone… ma non ci sembra sia emerso un grido di allarme da parte del Direttore Generale Giampaolo Rossi, in sede di audizione a San Macuto due giorno fa… Strane dinamiche.

Nessuno (o quasi) denuncia queste dinamiche, ed invece fiumi di inchiostro sulla penosa vicenda di Chiara Ferragni e le sue pratiche di (basso) marketing: lo “scandalo” dei panettoni riempe le pagine dei quotidiani, finendo per paradossalmente aumentare le quotazioni della abile “influencer”, in una spirale perversa di promozione… L’amplificazione mediatica della brutta vicenda alimenta il successo della coppia Ferragni & Fedez, e nessuno sembra rendersi conto di essersi trasformato in portatore d’acqua di questi due abili “imprenditori digitali”…

Va ricordato che in questi giorni, “Babbo Natale” ha portato ad una parte dei lavoratori del settore – dai doppiatori agli attori – un regalo tanto atteso: il contratto nazionale di lavoro. Senza dubbio una bella notizia, in qualche modo determinata sia dalle lotte intraprese dai lavoratori (per quanto assai lontane dallo scontro registratosi negli Stati Uniti) sia da quella situazione di discreta opulenza nella quale versano le imprese italiche, a causa della succitata iniezione di manna ovvero droga da sovvenzione pubblica.

Anche rispetto al cenno alla Intelligenza Artificiale contenuto nei nuovi contratti, va osservato che è senza dubbio una apprezzabile “conquista” dei lavoratori, anche se ci sembra in fondo ancora poca cosa, e risultato assai inadeguato per contrastare le conseguenze di questo fenomeno che sta sconvolgendo paradigmi storici delle industrie culturali e creative.

Manca ancora una sana e lungimirante vocazione dello Stato italiano ad entrare in modo organico, trasversale, intersettoriale, strategico, nel “governo degli algoritmi”: un governo che dovrebbe essere pubblico e non gestito autocraticamente da un manipolo di multinazionali che non brillano certo per trasparenza e democraticità.

Chiudiamo questa edizione “natalizia” della rubrica “ilprincipenudo” con due notizie che non sono state rilanciate dai media, e che invece ci sembrano sintomatiche di quella “distrazione” della “mano pubblica” nel governo del sistema culturale nazionale.

Stage & Indies denuncia la decisione di Spotify di non pagare sotto la soglia dei 1.000 “stream”, per eliminare gli “ascolti taroccati”: idea in sé valida, ma così strozza gli autori emergenti

Il Coordinamento Stage & Indies ieri l’altro mercoledì 20 dicembre 2023 ha denunciato un fenomeno preoccupante, ovvero la decisione di Spotify a non pagare sotto la soglia dei 1.000 “stream”.

La piattaforma leader nell’offerta digitale di musica sta sviluppando una battaglia per limitare pratiche di “ascolti taroccati”, ma al tempo stesso finisce per ridurre i flussi di ricavi di autori emergenti.

Spiega Fabrizio Galassi, del Coordinamento: “siamo in una situazione abbastanza bizzarra e anche importante, oserei dire grave. Sia Spotify, sia Believe Digital stanno attuando dei forti provvedimenti contro gli ascolti fraudolenti, ossia contro gli ascolti taroccati bottati finti fake. È una cosa giusta, per carità. Tuttavia, la questione sorge quando ci si chiede se tali misure siano corrette e se rispettino un equilibrio nei confronti degli artisti e delle etichette coinvolte; ma sarebbe il caso di prendere provvedimenti anche nei confronti delle ‘stream farm’. Entrambe le piattaforme hanno il potere di rimuovere ascolti, demonetizzare quelli sospetti e, in alcuni casi, addirittura eseguire un takedown (cancellare l’uscita da tutti gli store di streaming)”.

Parrebbe però che in alcuni casi questa autocrazia delle piattaforme sia eccessiva, ed emerga uno strapotere: un esempio recente proviene da una comunicazione da parte del Meeting delle Etichette Indipendenti (Mei), datata 16 dicembre 2023, in cui emerge che Believe Digitale sta minacciando di eseguire il ‘takedown’ su intere discografie di etichette che utilizzano gli ascolti in modo fraudolento.

Il problema centrale è l’onere della prova.

Spiega Galassi: “Believe Digitale deve dimostrare attivamente che un’etichetta ha acquistato ascolti fraudolenti. E questa è una sfida considerevole. Perché, ad esempio, io posso comprare ascolti fake e farli atterrare su un artista mio concorrente, per cercare di delegittimare il suo operato, di metterlo in cattiva luce con Spotify o con Believe e spingere le due piattaforme a fare il ‘takedown’ del brano. Si chiama concorrenza sleale”.

È difficile dimostrare che un’etichetta musicale abbia effettivamente pagato per ascolti fraudolenti, perché ciò richiederebbe una tracciabilità dei pagamenti. Tuttavia, molti di questi ascolti falsi vengono acquistati in nero, attraverso PayPal e altre forme di pagamento anonime, rendendo arduo il processo di dimostrazione.

L’industria musicale deve riflettere su come affrontare questa sfida, sviluppando meccanismi più trasparenti e sicuri per monitorare gli ascolti, e proteggere gli artisti da pratiche ingannevoli.

In questo intricato scenario, la chiarezza, la tracciabilità e una collaborazione aperta tra piattaforme digitali, etichette e artisti potrebbero essere la chiave per garantire un ambiente equo e sostenibile per tutti. Ma questa collaborazione non emerge “in natura”, ovvero non scaturisce dal “libero mercato”: deve essere stimolata (se non imposta) dall’intervento della mano pubblica.

Va segnalato che anche Impala, l’associazione europea delle etichette indipendenti (Independent Music Company Association, alla cui presidenza è stata chiamata dal settembre scorso Francesca Trainini, Vice Presidente dell’italica Pmi, l’associazione dei Produttori Musicali Indipendenti), sta sviluppando una serie di azioni per convincere Spotify a fermare la “policy” sulla soglia delle 1.000 plays.

I punti fondamentali delle proposte di Impala sono:

– non demonetizzare le tracce sotto le 1.000 “plays” (a vantaggio di quelle più popolari);

– chiedere piani più concreti per la diversità, per gli artisti locali e le etichette indipendenti;

– demonetizzare i brani non musicali, come “rumore rosa” o suoni ambientali;

– sanzionare le attività fraudolenti (“fake plays”) ma attraverso controlli adeguati…

Questa “piccola” battaglia è sintomatica di come stiano cambiando le economie “basic” di alcune industrie culturali e creative.

Non ci sembra che lo Stato italiano stia prestando adeguata attenzione alle conseguenze di questi processi, che determinano un crescente strapotere delle multinazionali digitali (da YouTube a Spotify, da Netflix ad Amazon), arrecando danno alla creatività nazionale e agli autori ed imprenditori indipendenti.

Per tutelare i diritti dei “creators” indipendenti sul web, nasce la Federazione Italiana Editori e Creatori Online (Fieco)

E non si dimentichino i diritti dei “creators”, degli autori indipendenti, dei piccoli produttori di contenuto: il 7 dicembre scorso, il mediologo ed attivista Glauco Benigni (che è peraltro tra i contributori di “Key4biz”) ha promosso il manifesto fondativo della Fieco, acronimo che sta per Federazione Italiana Editori e Creatori Online.

Scrive Benigni “in rete abbiamo raggiunto un certo grado di libertà ma su un territorio controllato da Altri. Se diventi scomodo sparisci con un click”. Queste le ragioni fondative: “all’inizio del III Millennio è cominciata, in rete Internet, una lenta ma inesorabile rivoluzione che sta cambiando radicalmente il modo di fare informazione e intrattenimento, con tutto ciò che ne consegue. Grazie alle opportunità fornite soprattutto dai Social Network, milioni di umani hanno iniziato ad esprimere liberamente le proprie opinioni e a manifestare i propri talenti, senza alcuna mediazione ma direttamente ai loro pubblici potenziali”.

E fin qui l’aspetto positivo, ma si alimentavano insidie: “nei primi anni le élites Mondiali hanno assistito al fenomeno, che è stato definito ‘User Generated Content – Contenuti Generati dagli Utenti’, con un interesse apparentemente ‘neutro’ che celava però la illecita raccolta dati di massa e una ossessiva imposizione della pubblicità. In seguito, le stesse Elites che avevano promosso il fenomeno si sono rese conto che quella valanga di opinioni organizza e diffonde forme pensiero e iniziative che sfuggono alla sorveglianza”.

E la situazione è andata degenerando: “a quel punto, con una determinazione ottusa e una arroganza senza precedenti, quelle stesse élites hanno cominciato a vessare i Produttori di Contenuti: a censurarli, a costringerli in ‘shadow banning’ (limitazioni senza avviso), a sottrarre le risorse economiche che avevano precedentemente promesso e sbandierate. Questa forma persecutoria, in primis adottata dai Social Network, è stata adattata negli ultimi tempi anche dalle Istituzioni Europee che nel 2023 hanno promulgato una Legge liberticida quale il ‘Digital Service Act’, e ha coinvolto nella repressione anche le Magistrature Nazionali di diverse Nazioni”…

I toni appaiono forse eccessivi, l’approccio un po’… “complottista”, ma la critica alla deriva in atto – provocata dall’evoluzione del turbocapitalismo digitale – è condivisibile.

E di questi problemi riteniamo dovrebbe interessarsi, e seriamente, il Governo.

Per “seriamente”, intendiamo questo: quando martedì della scorsa settimana Netflix ha deciso di rivelare una (minima) parte del suo dataset di “ascolti” ovvero di “ore fruite”, la Sottosegretaria Lucia Borgonzoni ha immediatamente diramato un comunicato stampa di esaltato apprezzamento verso la piattaforma… “trasparente”! Enfatizzando orgogliosamente che c’era un qualche titolo italico nelle classifiche di fruizione, ma non osservando che la quota del “made in Italy” audiovisivo nel totale dei consumi di Netflix è assolutamente… ridicola. Non sarebbe meglio preoccuparsi di questo fenomeno italico, prima di apprezzare la “generosità” della piattaforma (che ben stretti si tiene i dati più preziosi)?!

Già in passato sia Glauco Benigni sia altri intellettuali eterodossi come il compianto Giulietto Chiesa hanno tentato di organizzare i “creativi” italiani del web, autori e artisti indipendenti sganciati dalle regole oppressive del marketing, senza però riuscire a stimolare una coalizione realmente significativa, ed in grado di sedersi ai “tavoli” che sono attualmente gestiti autocraticamente dai manager apicali delle multinazionali digitali…

Sarà questa la volta buona?! È evidente che questi creativi, intellettuali, artisti non trarranno grande beneficio dai “contratti nazionali collettivi” siglati dalla triade sindacale Cgil, Uil, Cisl, la quale, su queste tematiche (che sono radicali e strategiche al tempo stesso), appare in grande ritardo (come in generale rispetto al lavoro precario ed intermittente, quello non regolato dai ccnl).

Scrivono i promotori della Fieco: “per molti Creatori di Contenuti l’aspettativa lecita di creare informazione e intrattenimento, diffondere e ricavare anche da tali attività un compenso in progress, rischia di diventare un boomerang e di mutare il sogno in incubo. La Fieco, che si ispira a grandi figure della libera informazione internazionale quali Julian Assange, nasce per difendere i liberi produttori di contenuti che hanno capito di trovarsi nel bel mezzo di una battaglia epocale. Oggi il Valore delle società postindustriali si produce in gran parte nella rete internet, pertanto presidiarla e difendere le posizioni acquisite equivale all’azione svolta in passato dai produttori di merci e servizi che presidiavano e difendevano i loro diritti e interessi nei luoghi di lavoro”.

Seguiremo lo sviluppo di questa ardita intrapresa indipendente, eterodossa e controcorrente.

Anche questa coraggiosa iniziativa conferma comunque l’esigenza di un “governo pubblico degli algoritmi”.

A livello istituzionale (né al Governo né in Parlamento), in Italia, non ci sembra ci stia lavorando nessuno…

E Babbo Natale è distratto dalle sue simpatiche ritualità…

E c’è chi al Ministero della Cultura continua a sognare Hollywood ed il “red carpet” degli Oscar

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.