Il dibattito

Democrazia Futura. Riappropriarsi di uno spazio pubblico nel mondo digitale

di Francesca Bria, Consigliere di Amministrazione della Rai |

I media di servizio pubblico al centro di una politica industriale per una sovranità digitale europea. L'intervento di Francesca Bria, Consigliere di Amministrazione della Rai.

Francesca Bria

Prosegue il dibattito sul Manifesto per i media di servizio pubblico e per l’Internet di Servizio pubblico, un appello di cui Democrazia futura ha pubblicato la versione in italiano. Dopo la presentazione del Documento di Giacomo Mazzone e un primo commento di Vincenzo Vita, ospitiamo quello di Francesca Bria, membro del Consiglio di Amministrazione della Rai. Come indica il titolo del contributo l’esponente indicato dal Partito Democratico invita a “Riappropriarsi di uno spazio pubblico nel mondo digitale” considerando che – come recita l’occhiello – “I media di servizio pubblico [devono tornare] al centro di una politica industriale in grado a sua volta di agire] per una sovranità digitale europea”.

Riappropriarsi di uno spazio pubblico nel mondo digitale

Nel leggere questo Manifesto, verrebbe da dire “why so late?”, perché siamo assolutamente in ritardo nell’affrontare questioni così strategiche e così importanti e soprattutto per capire quale sia la strategia in campo per riappropriarsi in maniera chiara di uno spazio pubblico digitale, di una sfera pubblica elettronica di cui c’è assolutamente bisogno per molti dei motivi che il Manifesto (firmato tra l’altro da accademici, intellettuali, personalità e cittadini, il che già costituisce un’alleanza direi molto importante) pone in maniera molto chiara. Comincerei quindi col ringraziare Klaus Unterberger, uno dei padri di questo documento, per l’iniziativa, intorno a cui si deve sviluppare un dibattito che però non deve fermarsi al dibattito in sé, ma – se si vogliono ottenere dei risultati – dovrà tradursi in azione politica, in azione regolatoria, in investimenti.

A mio avviso la questione che vorrei porre in maniera molto forte rispetto al tipo di dibattito che stiamo avendo, è che dobbiamo cambiare  la terminologia.

Non dobbiamo rivolgerci al “pubblico della rete” tra virgolette o continuare ad evocare un internet che comunque oggi è in radicale trasformazione. Oggi parliamo di infrastrutture critiche digitali – e quindi dell’accesso ai dati dell’intelligenza artificiale ma anche delle infrastrutture tecnologiche, della connettività -. Ebbene credo che oggi più che mai, soprattutto dopo la pandemia, ci siamo resi conto di quanto queste siano infrastrutture critiche da cui dipendono tutti i servizi essenziali della società: l’accesso al lavoro con lo smart working, l’educazione a distanza, la sanità pubblica, la trasformazione delle nostre città, eccetera eccetera. Tutto ciò fa parte interamente della trasformazione delle nostre istituzioni, della nostra società e della nostra economia. ..

La sfera digitale come parte integrante della trasformazione della vita delle persone

Dobbiamo smettere di separare (…)  la sfera digitale, la sfera elettronica dalla vita delle persone. Dobbiamo cercare di capire che oggi la connettività, i dati, l’intelligenza artificiale, eccetera sono parte integrante della trasformazione delle nostre vite e quindi diventano immediatamente una questione politica che sta trasformando l’economia, il lavoro, la società.

E’ veramente importante staccarci dal dibattito storico su internet fra gli esperti della rete. 

Siamo in una fase storica dove dobbiamo allargare il discorso, dove dobbiamo creare nuove alleanze magari anche usare un nuovo linguaggio per parlare di questi temi perché dobbiamo capire veramente – visto che siamo di fronte ad un’urgenza democratica e il Manifesto lo rappresenta in maniera molto chiara – quali siano i passaggi da fare.

I due obiettivi principali del Manifesto: creare valore pubblico e ritrovare una sfera pubblica

Sono molto d’accordo con i due obiettivi principali identificati nel Manifesto (anche se poi ce ne sarebbero molti altri): la creazione di valore pubblico e il dovere di riappropriarsi di uno spazio, di una sfera pubblica elettronica per creare valore pubblico.

Big Tech: una concentrazione senza precedenti da regolare fortemente

Ciò chiaramente pone la questione della concentrazione di mercato attuale che è una concentrazione industriale mai vista in precedenza nelle rivoluzioni industriali scorse.

Abbiamo una fortissima questione posta da 5-7 big tech americane da una parte e cinesi dall’altra, che effettivamente fanno da padrone del mercato. Non del mercato digitale: del mercato, punto! 

Se guardiamo la valutazione sui mercati di queste imprese durante la pandemia arriviamo a 8-9 migliaia di miliardi di dollari, mentre tutte le altre industrie perdevano valore, hanno dovuto licenziare persone, hanno subito uno shock economico pesante. Le big tech, invece, (sia quelle americane che cinesi) hanno incrementato il loro valore di mercato, e realizzato profitti incredibili durante la pandemia. Basta vederne i profitti ma anche quanto valgono oggi gli oligarchi che sono i primi azionisti di queste multinazionali.

Servizio pubblico e sovranità tecnologica europea. Digital Market Act, riforme regole antitrust e tassazione digitale: verso una Costituzione europea della sfera digitale

L’attuale estrema concentrazione di mercato è la prima questione che ha bisogno di una forte regolazione e qui chiaramente il discorso su quello che fa il servizio pubblico si deve collegare all’agenda digitale europea e sempre di più ad una questione che diventa centrale nel dibattito politico europeo, che è quella della sovranità tecnologica europea.

Sovranità che si sostanzia in questioni regolatorie, come il digital market act e la riforma delle regole antitrust, la questione della tassazione digitale; la questione di come regolare la “gig economy” (perché abbiamo una fortissima precarizzazione del lavoro); la questione dell’intelligenza artificiale e delle regole democratiche ed etiche degli algoritmi.

Si tratta di in sistema di regole dove l’Europa sta operando bene, nel senso che sta lavorando ad un framework abbastanza olistico, ma  anche abbastanza visionario.

La data protection regulation europea chiaramente ci pone all’avanguardia: direi quasi forse vede l’Europa protagonista della proposta di una specie di “Costituzione” della sfera digitale, di una vera “costituzione” per la futura società digitale.

Le necessità per l’Europa di competere sul piano tecnologico e delle infrastrutture per disporre di propri campioni digitali.

Un fronte dove però credo siamo davvero indietro è che oggi essere il grande regolatore dell’era digitale non basta: l’Europa se vuole davvero implementare i propri principi, i propri valori e le proprie regole, deve anche essere capace di competere dal punto di vista scientifico e tecnologico. Basta guardare chi governa oggi le infrastrutture: dal cloud ai microchip di cui durante la pandemia abbiamo avuto uno shortage vista l’interruzione delle catene di approvvigionamento, tanto che la Commissione Europea ha dovuto lanciare il nuovo “European Cloud Act” in cui ha dovuto prescrivere che almeno il 20 per cento dei microprocessori dovrà essere prodotto in Europa, il Quantum computing, i dati per l’intelligenza artificiale, il software. Tutte queste infrastrutture critiche oggi sono controllate dai big stranieri. L’Europa chiaramente non ha il controllo dello “stack” tecnologico, che ci permetterebbe di riappropriarci dal punto di vista scientifico e tecnologico, delle infrastrutture critiche. Siamo anche molto indietro rispetto alla nostra capacità di innovazione perché non abbiamo i campioni digitali: i vari Google, Amazon, Facebook, Netflix, Apple, E-bay degli americani, nè i loro equivalenti cinesi : i Tencent, Alibaba, Baidoo, Huawei).  Sono questi grossi campioni digitali che governano lo spazio digitale. Quali siano invece le imprese europee si fa perfino fatica a nominarle, visto che ne abbiamo poche e che sono attive solo in settori molto specifici.

Far crescere le imprese europee anche a guida pubblica rilanciando una politica industriale. L’occasione del Piano Next Generation Eu per superare questa nuova emergenza democratica

La priorità è quindi di far crescere delle imprese europee, anche a guida pubblica (e questo è un discorso che possiamo fare), che siano in grado poi di sviluppare servizi ed applicazioni competitive, magari nel green tech, nella gestione della sanità, nella digitalizzazione delle città. In Europa abbiamo tanti livelli di servizi in cui servono nostre imprese, che siano capaci di competere mondialmente.

E’ tutta una questione di politica industriale. Manca effettivamente una politica industriale digitale che rilanci gli investimenti in intelligenza artificiale, in cloud computing, nei microchip, nella gestione/utilizzazione dei dati. Una politica che l’Europa ha smesso di fare per troppo tempo e che adesso, nel momento in cui abbiamo un’urgenza, può essere colmata grazie al Piano Next Generation EU ed ai 400 miliardi che verranno investiti dall’Europa per la transizione digitale.

La parte regolatoria e la questione della politica industriale sono un po’ la base per parlare di che cosa fa l’Europa e di quale sia il nostro obiettivo in questa emergenza democratica.

Per un altro modello di business alternativo al Capitalismo della Sorveglianza. Il legato di Stefano Rodotà

C’è poi una questione democratica importante che è quella del modello di business che è un po il cuore del Manifesto. Oggi il modello di business dell’economia digitale ha come cuore la monetizzazione e la manipolazione dei dati personali delle informazioni, un modello di business definito dalla mia amica e compagna professore di Harvard, Shoshana Zuboff, “capitalismo della sorveglianza”, che non è accettabile,  non è compatibile con la nostra costituzione, con i nostri diritti costituzionali.

Questo ci ricorda il grandissimo lavoro fatto da Stefano Rodotà, il mio mentore personale, che mi ha ispirato in tante delle cose che ho fatto finora. Bisogna fare in modo – diceva Rodotà-  che questo modello di business quantomeno non si applichi alla sfera pubblica digitale, là dove dobbiamo digitalizzare la sanità, l’educazione, rendere digitali i servizi pubblici, l’identità dei cittadini, i dati che non devono diventare una merce finanziaria da scambiare, su cui viene dato un valore finanziario su mercato opachi, dove il cittadino non ha più un controllo democratico sui propri dati. Bisogna restituire il controllo democratico sui dati dei cittadini ai cittadini stessi. Questo imperativo pone una grossa questione: qual è il modello di business che noi andiamo a cambiare dalle sue fondamenta.

I servizi pubblici all’interno di una strategia di grandi alleanze

La grande domanda posta dal Manifesto (ed è proprio questa la sua innovazione principale)  riguarda la prospettiva dei broadcasters pubblici, dei  servizi pubblici che possono essere un attore forte e importante di questa strategia, che però deve essere assai più ampia. Bisogna costruire alleanze con le nostre industrie, con i politici che fanno la regolazione fatta bene; con le start up; con i sindacati; con i lavoratori. Deve essere un’alleanza più ampia all’interno della quale il servizio pubblico può e deve giocare un ruolo molto importante.

Per poterlo fare però deve superare alcuni dei suoi limiti.

Come sapete io faccio altre cose ma chiaramente in questa fase sono nel Consiglio di Amministrazione della Rai e una delle domande su cui rifletto è la questione della riforma della governance dei servizi pubblici. Apprendere a capire che cosa significa una cultura della indipendenza, che cosa significa essere autorevoli e imparziali.

La riforma della struttura di governance e la capacità di essere indipendenti e imparziali

Probabilmente per essere un attore in campo del cambiamento auspicato dal Manifesto, bisogna prima fare una riforma reale della struttura di governance ma anche – o forse prima ancora – sviluppare la capacità di essere autorevoli indipendenti e imparziali, rispetto alle informazioni e ai contenuti che vengono prodotti. Questo io credo sia il primo punto, mentre il secondo punto è che deve intervenire una grossa trasformazione della cultura del pubblico, dobbiamo essere capaci di valorizzare le risorse umane, esser capaci di avere un forte turn over rispetto alle competenze.

Non ce lo possiamo nascondere: oggi il servizio pubblico non è tutto allo stesso livello, non si può dire che sia omogeneo. Anche se può essere un’alleanza molto importante, il confronto farà apparire i problemi che affrontiamo nel far emergere un bel cambio generazionale, come d’altronde andrebbe fatto in tutto il settore pubblico.

Un cambio generazionale con talenti e competenze capaci di innovare lo spazio pubblico digitale

Bisogna far emergere giovani con dei talenti e delle competenze che ci possono dare la possibilità di contribuire ad un pezzo di innovazione dello spazio pubblico digitale. Per ottenere questo scopo,  bisogna avviare una politica di risorse umane e di formazione del personale e di rinnovamento, ad esempio a partire dall’elemento di genere. Insomma abbiamo tante questioni che si basano sul merito, sul talento, sulla competenza, eccetera, che non si possono eludere, ma anzi debbono essere messe al centro della politica del servizio pubblico.

Porre i PSM – e il public media broadcaster nella fattispecie – al centro di una strategia di riconquista della sovranità digitale. Algoritmi etici per il servizio pubblico al servizio del pubblico.

La questione è come aprirsi, come far aprire il servizio pubblico veramente ad una serie di alleanze che possano porre il media di servizio pubblico, il public media broadcaster, al centro di una strategia più ampia per la riconquista della sovranità digitale europea ovvero che riporti la questione centrale di come cambiare il modello di business, provando a riconquistare uno spazio pubblico digitale.

Concepire i dati come un’infrastruttura critica al servizio dei cittadini

In questo senso ho dichiarato che servono algoritmi etici per il servizio pubblico al servizio del pubblico. Bisogna iniziare a fare in modo che il servizio pubblico consideri i dati come un’infrastruttura critica al servizio dei cittadini, facendo ad esempio in modo che i dati vengano magari gestiti in un trust pubblico, con una governance trasparente e condivisa e che da questi dati si possa creare realmente valore pubblico e non solo continuare a monetizzare la pubblicità. 

Tanto più che – in questa competizione con i giganti digitali – ad un certo punto si aprirà la contraddizione per la RAI della misurazione dell’Auditel, e si porrà un grande grandissimo problema di monetizzazione della sfera pubblica. Oggi infatti avviene questo in RAI: abbiamo la parte di canone che è servizio pubblico puro e la parte di pubblicità dove si compete per il mercato dell’attenzione che noi sappiamo (è la premessa stessa del Manifesto) essere completamente stravolto dal modello di business dei giganti digitali. Quindi per andare a muoversi in una sfera pubblica al servizio dei cittadini – dove valorizziamo le competenze, dove creiamo contenuti culturali e di formazione, per le persone come per la società, e questo perché come paese, dobbiamo affrontare la transizione ecologica, la transizione digitale – bisogna farlo con equità sociale e fare in modo che venga messa al cuore della questione, l’informazione e la formazione delle persone.

Io credo che questo orizzonte sia quello giusto. Ma come arrivarci e quale sarà il ruolo del servizio pubblico, dovrà essere determinato all’interno di un contesto di una strategia più ampia che non ho dubbi quale debba essere: quella del lavoro comune per la riconquista di una sovranità digitale europea, che sia anche una sovranità politica ed economica in questa nuova fase.

Conclusioni. Affrontare tre punti essenziali: infrastrutture adatte, competenze specifiche per leggere la grande trasformazione digitale in atto, partecipazione dei cittadini “open source”

In conclusione concentrerei l’attenzione su tre punti abbastanza pragmatici di cui il Manifesto ha bisogno perché la trasformazione auspicata diventi realtà.

Il primo punto riguarda la questione se abbiamo le infrastrutture adatte per il cambiamento digitale auspicato dal Manifesto.

E la mia risposta dal punto di vista del public service media è sì, le infrastrutture esistono ma decisamente non tutte quelle che servirebbero. Quindi c’è bisogno anche di molta più consapevolezza di quella che è la capacità di fare infrastruttura del servizio pubblico,  ma c’è anche bisogno di molti più investimenti in innovazione tecnologica e soprattutto – direi che questo è per me il punto più importante- c’è bisogno della valorizzazione delle risorse umane. Bisognerebbe cioè investire nel talento delle persone, nelle competenze, assumere i nuovi ingegneri donne, assumere nuove persone che hanno competenze sulla creazione di algoritmi, dei data scientist di capacità di lettura più ampia perché come sappiamo per governare il digitale non basta solo programmare non servono solo computer scientist ma anche capacità multidisciplinari di leggere la trasformazione in atto dalla prospettiva giuridica economica, ma anche di social science, eccetera eccetera

Bisognerebbe davvero fare una campagna di investimento nelle competenze nel servizio pubblico per avere al suo interno queste persone in grado di trasformarlo e di renderlo attore centrale di questa grossa sfida che abbiamo di fronte. Una sfida che comporterà conflitto, perché è evidente che il Manifesto sta chiedendo di cambiare il cuore del nuovo modello di business delle piattaforme digitali, perché esso contiene un problema democratico, perché mette in pericolo la sfera pubblica habermasiana.

Il problema della disinformazione, le famose teorie della cospirazione sono una esternalità negativa del modello di business delle piattaforme che si basa sulla manipolazione e monetizzazione dei dati personali dell’informazione. Come democrazia non possiamo permetterci di continuare così: questo è ormai molto chiaro. Si tratta  quindi di una grossa sfida ma io mi concentrerei su cosa possiamo fare di propositivo, piuttosto che soffermarmi sul conflitto con le grosse piattaforme, che non ci porta da nessuna parte.

Meglio quindi investire dentro il contesto della politica digitale europea, e fare in modo che il futuro public service broadcast media sia un attore molto più partecipe della nuova politica digitale europea per la sovranità tecnologica. Concludo quindi ricordando come in questo processo sarà fondamentale la partecipazione dei cittadini (che come forse sapete ha guidato il mio lavoro negli ultimi anni).

L’esempio virtuoso della piattaforma open source di consultazione dei cittadini per la Conferenza sul futuro dell’Europa. Per una rivoluzione digitale al servizio delle persone e delle sfide in atto

Ci sono esempi di piattaforme di nuovo tipo, come quella che l’Europa oggi sta usando per la Conferenza sul futuro dell’Europa, che viene da Barcellona ed è “Open source”, è trasparente e lascia interamente ai cittadini la sovranità sui dati.  E’ stata creata utilizzando tecnologie etiche che preservano la privacy, rispettano i diritti e la sicurezza dei dati dei cittadini. E’stata creata con fondi pubblici di investimenti europei, ed è la piattaforma su cui oggi migliaia e migliaia di cittadini europei fanno un esercizio di democrazia partecipativa.

E’ stata creata dal basso, ed è scalabile: oggi queste tecnologie esistono e quindi diciamo che il servizio pubblico sicuramente può dare anche molta più visibilità a quella che è la capacità europea di proporre appunto queste tecnologie che mettono al centro i diritti delle persone, la democrazia, i  diritti dei lavoratori.

Soprattutto la rivoluzione digitale deve essere messa al servizio delle persone e soprattutto della transizione ecologica, delle grosse sfide che abbiamo di fronte. Sarebbe un errore considerare il digitale come qualcosa di separato. Al contrario, bisogna considerare il digitale al servizio delle grosse sfide sia sociali sia economiche e geopolitiche che la nostra società sta affrontando oggi.