Il punto

Democrazia Futura. L’eccezione atlantica. Ad  Ovest, tutta!

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

La disinvolta e naturale collocazione atlantica di Mario Draghi.

Michele Mezza
Michele Mezza

Riprendendo l’analisi di Giampiero Gramaglia sul recente summit della Nato, Michele Mezza analizza per i lettori di Democrazia futura e Key4biz, quella che definisce, riferita alla collocazione di Mario Draghi, “L’eccezione atlantica. Ad Ovest tutta”,  “Tanto più che la comunità occidentale, proprio a Madrid […] ha avuto una secca torsione anti Russia. Mosca è il nemico principale e Pechino un contendente che deve dare conto delle sue mosse. Una opzione chiaramente venuta da Washington, che ha avuto gioco facile ad  imporre, dato il carattere sempre più aggressivo e provocatorio del regime moscovita”.

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L’ormai iconica istantanea del presidente del consiglio Mario Draghi, seduto, da solo, con il telefonino all’orecchio, nel museo di Madrid, mentre alle sue spalle chiacchierano i vertici del G7, potrebbe illustrare bene la diversità del premier italiano rispetto ai suoi colleghi europei. Più che solitudine o stanchezza, come lo stesso Draghi ha accreditato, quella foto segnala forse disinvoltura, quasi superiorità.

La torsione antirussa della comunità occidentale. Un solco incolmabile

Indubbiamente il capo dell’esecutivo italiano oggi è forse il membro comunitario della Nato meno costretto a cercare una via per collocarsi nella nuova linea atlantica. Giusto o sbagliato lo vedremo, in questa sede valutiamo l’eccezione atlantica di Draghi. Tanto più che la comunità occidentale, proprio a Madrid, come ha spiegato su queste pagine Giampiero Gramaglia[1] ha avuto una secca torsione anti Russia. Mosca è il nemico principale e Pechino un contendente che deve dare conto delle sue mosse. Una opzione chiaramente venuta da Washington, che ha avuto gioco facile ad imporre, dato il carattere sempre più aggressivo e provocatorio del regime moscovita.

La strategia ha scavato in pochi giorni un solco che rimarrà incolmabile per molti anni.

Se dinanzi al primo conflitto mondiale Antonio Gramsci, scrivendo, novello giornalista, sul settimanale il Grido del popolo le sue note in cui giudicava il peso di quei cinque anni della prima guerra globale come cinque secoli, oggi possiamo dire che i circa 150 giorni di combattimento che abbiamo alle spalle hanno bruciato tanto storia quanto solo in lunghi decenni se ne poteva consumare.

Una storia fosca, e densa che disorienta chi cerca di comprenderla e soprattutto scoraggia chi ne cerca un bandolo razionale.

In questo gorgo ogni leader, ogni cultura politica, ogni partito, ha stentato a trovare una linea di navigazione lineare. Tutti hanno scarrocciato, o sul versante di una radicalizzazione del conflitto, o su quello di un intermittente tentativo di abboccamento con il Cremlino. Sbandamenti o reali tentativi di rendere più governabile il quadro che hanno portato i principali paesi occidentali a rettificare più volte la propria bussola. Draghi è sembrato il meno incerto e oscillante, il meno fragile, quello che meno sembrava disorientato dagli eventi.

Lo scrivo senza dare a questo mio giudizio, di pura cronaca politica, un valore di merito, o, ancora di più, il sostegno di un’adesione a questo comportamento.

Mi si è chiesto di aggiungermi con una mia valutazione ad un ragionamento collettivo del gruppo di Democrazia Futura, dopo aver scritto in passato considerazioni critiche sia sulla gestione che sulla filosofia politica dell’inquilino di Palazzo Chigi.

Ora mi trovo meno impacciato a valutare il ruolo del capo del governo italiano .

Un ruolo che appare di disinvolta e naturale collocazione atlantica . dal 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’invasione russa, Draghi è apparso  rispetto ai suoi colleghi il più freddamente indignato.

Ripetutamente Draghi ha ribadito, senza spirali polemiche o ripensamenti tattici che Vladimir Putin non poteva essere in alcun modo giustificato per la sua azione e che doveva inevitabilmente essere contrastato e sconfitto.

Dalle prime dichiarazioni ad oggi possiamo dire che l’elettrocardiogramma dell’uomo scelto da Sergio Mattarella per il suo governo di unità nazionale ha mantenuto un profilo stabile, senza impennate né sbalzi, né in su né in giù.

Il discorso in Parlamento. Tenere ferma la barra su Kiev

Esemplari le sue dichiarazioni in parlamento, dove era atteso per il giudizio estremo. Anche dinanzi all’irrequieta platea di parlamentari che avevano un occhio alle prossime elezioni e un altro agli equilibri interni dei rispettivi partiti, il premier è sembrato pacatamente fermo: con un eloquio senza squilli ha tenuto la barra su Kiev, pur rimanendo interessato ad ogni possibile spirale di negoziato.

Ancora in questi primi giorni estivi, con le convulsioni dei grillini che, pur tuttavia, rimanevano il gruppo parlamentare di maggioranza relativa, che si arrovellavano proprio sulla linea di politica internazionale che Draghi aveva concordato con quel Luigi Di Maio che da ministro degli esteri ha poi promosso la scissione, Palazzo Chigi non ha concesso niente sul versante atlantico. E’ arrivato persino ha mascherare la sua congenita ripulsa per il reddito di cittadinanza, pur di non considerare la politica estera materia trattabile.

L’iper-atlantismo WASP di Draghi, un’eccezione in Italia al di fuori di ogni mischia

Da dove viene questa inossidabile tenuta? E soprattutto dove potrà mai portare ?

Draghi non sembra nemmeno essersi mai posto il problema dell’esistenza di un’altra opzione: per lui l’atlantismo è la placenta in cui è nato e ha poi maturato tutte le tappe della sua carriera. Lui è un amerikano come non ne abbiamo mai conosciuti al vertice del governo italiano, nemmeno in piena guerra fredda. Nessun democristiano, dai cavalli di razza Aldo Moro e Amintore Fanfani, ai dorotei Mariano Rumor ed Emilio Colombo, perfino al sornione ed enigmatico Giulio Andreotti, si è mostrato così naturalmente incline ad aderire alle scelte della Nato. Forse solo il repubblicano Giovanni Spadolini aveva un’intima ed esclusiva matrice americana che lo rendeva estraneo a qualsiasi problematizzazione della politica estera. Ma Draghi aggiunge alla sua istintiva e genetica cultura protestate anglosassone delle élite bianche WASP, la lucida visione della necessità di ancorare, in questo momento di completo disorientamento sia politico che istituzionale il paese ad una certezza, ad una identità che lo ponga fuori dalla mischia, almeno per questa vocazione atlantica.

L’allegra tecnocratica adesione del Pd e l’opportunistica convergenza dall’opposizione di Fratelli d’Italia

Chiave di volta di questa sua scelta è l’adesione del PD di Enrico Letta e l’opportunistica convergenza dall’opposizione del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia.

Il partito erede del terzomondismo della sinistra cattolica e del neutralismo di matrice comunista oggi galleggia  in un plancton:  missione europeista e fiancheggiamento ai democratici americani ne determinano  un volto da riformismo tecnocratico dolce, alla De Rita e Saraceno, per citare due emblemi del riformismo dall’alto[2]. Mentre gli ex missini si collocano sul versante di un trumpismo senza Donald Trump per usare la galassia atlantica come lavatrice per un riciclaggio ideologico che li renda presentabili per un’eventuale maggioranza di centro destra.

Una chiamata al Paese in vista di elezioni trasformate in referendum sull’Occidente

Draghi diventa così ambasciatore di sé stesso, bandiera di un’Italia affidabile e sincera nella sua alleanza con l’attuale amministrazione americana, talmente coerente con le strategie a stelle e strisce da diventare un eventuale commissario permanente della democrazia italica, perfino in presenza di ulteriori capriole alle prossime elezioni.

Un mandato da segretario generale della Nato, in sostituzione di un logorato e certo non magico nel tocco Jens Stoltenberg, permetterebbe a Draghi di essere un tutor di un paese che  da mascotte atlantica potrebbe diventare chiave della logistica militare e pedina essenziale della strategia diplomatica. A quel punto quella telefonata iniziata al Museo di Madrid potrebbe anche diventare il simbolo di una chiamata al paese, in vista delle prossime elezioni politiche che si trasformeranno  in un referendum sull’Occidente. Come in quelle del 18 aprile 1948, ma a ruoli invertiti.


[1] Giampiero Gramaglia “Di Vertice in Vertice, l’Occidente mostra i muscoli alla Russia”, Democrazia futura, II (6) aprile-giugno 2022. Vedine l’anticipazione uscita su Key4biz il 4 luglio 2022:   https://www.key4biz.it/democrazia-futura-di-vertice-in-vertice-loccidente-mostra-i-muscoli-alla-russia/409053/.

[2] Ovvero Giuseppe De Rita e Pasquale Saraceno.