Il manifesto

Democrazia Futura. Le ragioni di un appello

di Giacomo Mazzone, direttore responsabile Democrazia futura |

Da John Reith a Juergen Habermas e Noam Chomsky, ecco le ragioni del « Manifesto per i Media di Servizio Pubblico e per l’Internet di Servizio Pubblico”, lanciato nel 2021 da un gruppo di intellettuali e firmato da oltre 1000 persone di tutto il mondo.

Giacomo Mazzone

Giacomo Mazzone Direttore responsabile di Democrazia futura spiega “Perché abbiamo predisposto una versione in lingua italiana del Manifesto per i Media di Servizio Pubblico e per l’Internet di Servizio Pubblico, uscito ieri su Key4biz. Documento lanciato nel 2021 da un gruppo di intellettuali e firmato da oltre 1000 persone di tutto il mondo, fra cui Jurgen Habermas e Noam Chomsky.

Gli estensori del testo originale sono il professor Christian Fuchs della Westminster University e Klaus Unterberger, responsabile del Valore Pubblico presso la ORF, il media austriaco di servizio pubblico.

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Perché abbiamo predisposto una versione in lingua italiana del Manifesto

Quello che vi presentiamo è il « Manifesto per i Media di Servizio Pubblico e per l’Internet di Servizio Pubblico”[1] lanciato nel 2021 da un gruppo di intellettuali e firmato da oltre 1000 persone di tutto il mondo, fra cui Jurgen Habermas e Noam Chomsky.

Christian Fuchs

Gli estensori del testo originale sono il professor Christian Fuchs della Westminster University e Klaus Unterberger, responsabile del Valore Pubblico presso la ORF, il media austriaco di servizio pubblico.

Klaus Unterberger

Come mai un manifesto ? ha ancora un senso nell’era digitale un appello lanciato da intellettuali? E chi dovrebbe raccoglierlo ?

Per capirlo bisogna riandare con la memoria a quasi cento anni fa, quando fa un distinto manager scozzese, poi diventato Lord, John Charles Walsham Reith, scrisse un famoso appello al Re, in cui sosteneva – dopo il violentissimo sciopero generale del maggio 1926[2] con forti scontri fra polizia e sindacati – che ci fosse bisogno di un servizio pubblico radiofonico che fosse davvero indipendente, sia dal governo che dagli interessi economici.

John Charles Walsham Reith

L’appello fu raccolto e la BBC – che allora era un’azienda radiofonica privata – venne nazionalizzata, posta sotto la protezione di uno speciale “charter”- per diventare il primo gennaio del 1927 il primo servizio pubblico radiotelevisivo indipendente del mondo. Un esempio poi copiato negli anni successivi in quasi tutti i paesi sviluppati.

Anche a quell’epoca un appello sembrava aver poco senso, specie dopo uno scontro epocale fra sindacati e padronato, che aveva visto il primo (ed unico) sciopero generale della storia inglese, con il paese bloccato per dieci giorni da 1 milione e ottocento mila lavoratori in piazza. Uno sciopero conclusosi con un nulla di fatto, ma che persuase il Re che il nuovo medium di massa appena nato (la radio) era troppo potente per esser lasciato solo nelle mani di interessi privati , e perfino in quelle di un primo ministro.

Gli estensori del documento PSMI sono convinti che oggi ci ritroviamo nella stessa situazione del 1926.

Laddove allora il mezzo superpotente e ultrapersuasivo si chiamava “radio”, oggi invece si chiama “social media”, ed è ancor piu persuasivo e potente del suo lontano antesignano. Di qui la rinnovata necessità di imbrigliare questa potentissima nuova tecnologia, al fine di metterne l’uso al servizio del cittadino e di un nuovo patto sociale, anziché lasciarlo agli “animal spirits” del capitalismo globale o agli appetiti di controllo degli stati totalitari.

Di qui l’idea di elaborare un sistema di regole e di principi che riconduca questa potente innovazione al servizio del bene comune e della società, anziché del solo profitto di alcune corporation mondiali (i cosiddetti GAFAN o GAFAM *[3] che dir si voglia), riannodando il concetto di servizio pubblico a quello di “open internet” (Internet aperto) sostenuto dagli inventori della rete globale.

In estrema sintesi il manifesto sostiene che gli attuali Media di Servizio Pubblico (e cioè le varie BBC, RAI, France Télévisions) debbano evolversi verso una dimensione europea e trasformarsi in servizi pubblici digitali ed interrativi.

E preconizza in parallelo l’avvento di nuove regole del gioco del mondo digitale, che orientino lo sviluppo di internet verso il perseguimento del bene comune, assicurando il rispetto dei diritti umani fondamentali: dalla protezione dei dati dei cittadini al rispetto della diversità, delle minoranze, alla promozione della pace e della tolleranza.

Perché questo “nuovo mondo digitale” si realizzi, il manifesto auspica che si muovano simultaneamente i governi (per cambiare le regole del gioco di Internet), le imprese (adottando modelli virtuosi di uso dei dati dei cittadini), ed i media -specie quelli di servizio pubblico- che debbono convertire al mondo digitale la loro missione, adattando quanto già facevano prima nel mondo analogico.

Il documento di sole otto pagine si divide in sei capitoli, di cui primi cinque sono:

  1. Principi fondamentali del PSMI
  2. Rinnovamento del Servizio Pubblico radiotelevisivo oggi esistente
  3. La nuova via da seguire per trasformare l’Internet di oggi (smontando gli attuali monopoli globali che controllano Internet o quantomeno riducendone l’impatto negativo sulla società)
  4. Trasformazione della missione dei media di servizio pubblico per adattarli al mondo digitale
  5. Nascita di nuovi media digitali, che possono anche essere gli attuali media di servizio pubblico, a condizione che si evolvano per rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini e della società.

L’ultimo capitolo, infine, è dedicato all’“utopia” di immaginare come possa essere la missione dei Servizi pubblici fra vent’anni, in un mondo in cui l’Internet è finalmente stato riportato alla sua missione originaria di unire tutti i cittadini del mondo per il bene comune.

E’ questa forse la parte più controversa del Manifesto, visto che cerca di dimostrare quali potrebbero essere i risultati concreti di un’utopia divenuta realtà.

Come tutti gli esercizi di questo tipo, presta infatti il fianco a molte critiche e a dubbi di ogni tipo sulla sua praticabilità reale.

A partire da quelli sulle risorse necessarie per arrivare a questi risultati (ben superiori a quelli oggi disponibili per le sole televisioni pubbliche); sulla necessità di sforzi congiunti e concordati fra attori diversi (produttori di contenuti, servizi pubblici, proprietari delle reti, fornitori di servizi Internet, ecc.); sulla convergenza di intenti e di azioni fra attori oggi nazionali che dovrebbero diventare quantomeno attori continentali (europei nel nostro caso) se non addirittura globali.

L’unico punto non controverso dell’ultimo capitolo sembra esser quello che la divergenza fra l’offerta commerciale e l’offerta dei futuri PSMI sarà sempre più ampia, visto che i contenuti ed i servizi offerti da questi ultimi dovranno rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini digitali.

A cosa serve questo Manifesto?

Per tutti coloro che si occupano di Internet come bene comune e di Media di Servizio pubblico, il Manifesto è una bussola fondamentale per capire in che direzione bisogna andare. Il capitolo dei principi in particolare presenta una “summa” di quello che ogni servizio pubblico dovrebbe fare per adeguarsi all’era digitale.

Rispetto alle tre missioni del servizio pubblico del XX secolo (“Informare, educare, divertire”) –come si vede- l’accento viene spostato sul contesto e sulla relazione con la società.

Dal rapporto univoco ed unilaterale del “broadcasting” (un solo segnale radiofonico o televisivo uguale per tutti), si è passati al rapporto interattivo fra servizio pubblico e cittadini, all’interno di un triangolo composto da società (democrazia) – media di servizio pubbblico- cittadini.

Dal rapporto “pedagogico” (il broadcaster che si preoccupa di educare ed informare, ma anche divertire i cittadini del suo paese) si passa al rapporto interattivo e binario, tipico del digitale, in cui non vale più il principio “l’ha detto la televisione”, ma dove anche la “Televisione”  con la T maiuscola spiega,  approfondisce, discute e si mette in discussione, fornisce servizi, facilita l’accesso del cittadino non più e non solo alla comprensione del mondo, ma anche all’uso delle nuove opportunità che il mondo digitale offre.

E’ anche, quello descritto nel “Manifesto”, uno strumento schierato, al servizio della democrazia e di una società più egalitaria e più giusta, del dialogo e non polarizzata. Al servizio della creatività diffusa e dei cittadini, oltre che – ma non solo – di quella delle istituzioni culturali.

In cui l’uso dei dati – fenomeno che sta alla base della quarta o quinta rivoluzione (non solo) industriale – non è più caratterizzato dall’appropriazione dei dati, anche di quelli piu sensibili, da parte di poche piattaforme mondiali capaci di  monetizzarne l’uso, ma avviene all’insegna dell’uso consapevole, protetto e finalizzato ad una migliore esperienza del cittadino fruitore ed al bene comune attraverso l’uso di dati anonimizzati.

I valori del servizio pubblico – cosi come li identificava la carta dell’UER[4] approvata nel 2012 a Strasburgo nel corso di una storica assemblea generale non a caso ospitata dal Palazzo del Parlamento europeo – si erano già evoluti rispetto al 1926, ed avevano sviluppato già parecchio – oltre alla relazione col cittadino spettatore – quella con la società, tant’è che i sei valori principali dei MSP allora furono identificati in:

Universalità, Indipendenza,  Eccellenza, Diversità, Trasparenza ed Innovazione.

Quel che però mancava in quel documento, di cui quel documento UER non teneva conto era la dimensione interattiva e l’annullamento delle distanze spazio temporali comportate dall’arrivo dell’Internet globale.

Le responsabilità di cui alla missione del 2012 erano soprattutto definite verso la società, mentre nel “Manifesto” sono definite verso la società e , al tempo stesso, verso i cittadini. Che ormai vogliono esser coinvolti e contare nella definizione della propria dieta mediatica, e non sono piu disposti a subire scelte calate dall’alto.

La trilogia “Educare, informare, divertire” incrociata con le priorità sociali di “Universalità, Indipendenza,  Eccellenza, Diversità, Trasparenza ed Innovazione” dà vita ai princìpi enunciati nel Manifesto PSMI:

  • Essere risolutamente al servizio della democrazia
  • Essere sempre al servizio di una società più giusta, fatta di uguali ma diversi, e che offra pari opportunità a tutti
  • Proporre contenuti diversi e comunque presentarli in maniera distinguibile rispetto a quelli dei media commerciali o delle piattaforme
  • Trattare i dati dei cittadini garantendone in modo assoluto la privacy per render loro un miglior servizio, non per trarne profitto,
  • Promuovere rispetto, partecipazione, dialogo ed impegno civile per una società  sostenibile, rispettosa, equa e resiliente.
  • Incentivare la creazione di nuovi contenuti, nuovi formati e nuovi servizi e sperimentarli, introducendo l’innovazione tecnologica nel mondo dei media
  • Promuovere il dibattito pubblico, la partecipazione e la coesione sociale

Presupposto di questo insieme di priorità è naturalmente quello di esser finanziati dai cittadini direttamente, in modo che i cittadini ne siano i proprietari in ultima ratio, e che il finanziamento non sia condizionato dagli interessi economici, nè passi per il budget dello stato, in modo da mettere le risorse dei futuri PSMI a debita distanza dal rischio di interferenze.

Chi sale e chi scende nelle priorità delle nuove missioni di servizio pubblico digitale

Come si evince dall’analisi, la missione originale del XX secolo si è cosi arricchita di nuove priorità, mentre – com’è ovvio che sia – nel frattempo qualcuna delle precedenti perda di rilevanza.

In questo borsino delle priorità digitali sono in ascesa il rispetto di diritti (come la privacy) che prima non erano – se non in misura ridotta –  toccati dai mass media; il trattamento dei dati, che prima (al tempo del “broadcasting”) non passavano attraverso la televisione e la radio; il rispetto dei cittadini tutti;  la coesione sociale.

Un ruolo centrale naturalmente è rivestito dalla missione dell’innovazione, che è intesa ormai in molti sensi: applicata al prodotto (rendendolo multipiattaforma, interattivo, adattabile e personalizzabile ai bisogni di ogni individuo), ma anche applicata ai cittadini, che debbono essere educati al digitale e guidati per mano in un mondo dove chi digitale non è rischia di restare escluso o comunque penalizzato.

Sono, invece, in discesa in questo borsino dell’immaginario , il sostegno alla produzione nazionale (che non deve essere piu un obiettivo indistinto e generico, mero trasferimento di risorse dal settore pubblico quello privato), che deve concentrarsi sulla produzione di qualità e distintiva (cioè propria ai valori del servizio pubblico), cosi come la promozione del pluralismo che – causa il moltiplicarsi esponenziale dell’offerta informativa digitale – non è più un valore in sé, e che andrà sostituita rapidamente con l’affidabilità e la fiducia che – in un mondo dove milioni di notizie sono a portata di mano – sono valori cruciali per il cittadino smarrito.

Alla promozione del pluralismo, soprattutto, si affianca e in parte sostituisce la missione di creare un quadro di partecipazione democratica. 

“Promuovere il dibattito pubblico, la partecipazione e la coesione sociale” , dove quindi al servizio pubblico spetta il compito di animare quel dibattito che una volta era sollecitato dai partiti e dai corpi intermedi e che oggi sembra non trovare più spazio nell’agorà reale e si svolge prevalentemente nell’agorà virtuale,  oggi soprattutto nella forma rancorosa e divisiva del “noi contro loro” tipica dei social media.

Secondo la logica del Manifesto, i nuovi PSMI debbono scendere nel territorio, incalzare le istituzioni ed i poteri (internazionali, centrali e locali) e costruire le condizioni del cambiamento, praticando gli strumenti della comunicazione e mettendoli al servizio del dialogo sociale.

Senza praticare referendum in diretta internet, ma piuttosto favorendo il dibattito fra cittadini sugli scopi della convivenza civile e gli obiettivi di comune interesse da perseguire. Come, ad esempio, potrebbe essere l’azione di un monitoraggio permanente delle azioni del PNRR e del suo impatto quotidiano e di lungo termine sulla vita dei cittadini e delle comunità che vi si ritrovino coinvolte.

Ma soprattutto emerge – a fianco all’obbligo di informare in maniera corretta – anche quello di “dare un senso” e fornire chiavi di lettura ai cittadini per realtà sempre piu complesse da decifrare, dove il rischio di smarrimento è crescente e rischia PRESTO di essere totale e di fare dei cittadini “smarriti” la facile preda di campagne di disinformazione abilmente orchestrate da interessi economici o ,perfino da potenze straniere interessate ad intromettersi negli affari di altri paesi. Imperativo prioritario dei  futuri PSMI, sarà infatti arrivare a definire nelle società di riferimento cosa sia il bene comune.[5]

Si pone a partire da qui un quesito dirimente

In un contesto di così profonda trasformazione ha senso ancora parlare di riforma della governance della Rai o della sua trasformazione in Fondazione o della sua privatizzazione?

E’ evidente che la trasformazione digitale in corso è di portata tale che essa non possa risolversi con un cambiamento dei criteri di nomina del CdA RAI o nella trasformazione del Direttore Generale in Amministratore Delegato, e neppure con la trasformazione dell’attuale Società per Azioni in Fondazione o nel mettere una Fondazione in mezzo fra SpA e azionista di riferimento (il Tesoro), oppure nel vuoto proclama “Fuori i partiti dalla RAI” (che lascia senza risposta l’ovvia domanda: “per mettere cosa al loro posto ? “).

Volendo rispondere a questo interrogativo di fondo, la prima delle questioni da porsi è in che senso si vuol trasformare la società italiana.

Il valore come Road Map e l’esperienza ormai centenaria di un metodo di ascolto praticato oltre Manica.   

Tre anni prima della scadenza del suo Charter decennale, la BBC avvia un grande dibattito nazionale attraverso cui la BBC stessa interroga i corpi sociali, le istituzioni culturali del paese, i suoi fornitori, i suoi ascoltatori e spettatori, il suo personale per ascoltarne le esigenze, le aspettative, i problemi.

Da questa grande missione di ascolto, ne deriva un piano predisposto dalla stessa BBC che poi viene discusso col governo che porta al tavolo delle trattative le sue di aspettative e richieste. Il Charter che esce fuori da questo confronto di interessi e di attese, diventa quindi una road map non solo per il Servizio Pubblico (e per tutti coloro che sono stati coinvolti nella consultazione), ma anche per il Governo, per lavorare insieme al cambiamento del Paese.

Un percorso virtuoso che ha dato finora talvolta ottimi risultati, quando ,ad esempio, nel Charter degli anni Novanta venne introdotta come priorità la strategia digitale che ha reso  ventanni dopo la BBC uno dei primi player mondiali dei media on line.

Una strategia il cui successo è stato assicurato non solo dalla riorganizzazione della BBC e dal riorientamento delle sue risorse, ma anche dall’aver fatto dell’informatica una priorità dell’educazione nazionale, degli incentivi per le imprese e cosi via, in quello che costituisce un esempio virtuoso di come si debba muovere un sistema paese.

Paradossalmente oggi l’Italia si trova in una condizione eccezionale. Una sua road map nuova di zecca, chiamata PNRR e imposta dall’Europa, che segna il cammino anche per i piu riottosi, e che scrive il destino del nostro paese almeno sino al 2026 ma che produrrà i suoi effetti ben oltre quella data, almeno fino al prossimo decennio.

Nel dibattito che si è sviluppato intorno a questo piano, c’è stata una grandissima assenza: quella proprio relativa alla missione del Servizio Pubblico nazionale in questo contesto. Nel momento in cui si chiede alla società italiana nel suo complesso di cambiare pelle (di abbracciare la transizione energetica e quella digitale), alla scuola di cambiare passo per creare nuovi skills e nuove professioni, al mondo dell’industria di trasformarsi, lo stato rinuncia all’unico strumento a sua disposizione per dialogare coi cittadini e traghettarli verso il mondo nuovo ?

Le rivoluzioni annunciate avranno un impatto enorme sui cittadini, anche su quelli che sono fuori dal mondo della scuola e del lavoro, che dovranno patire le conseguenze delle due transizioni, senza avere gli strumenti per affrontarle. Come si pensa di raggiungerli, convincerli, educarli se non proprio attraverso il Servizio Pubblico ?

Purtroppo finora il dibattito sul futuro della RAI e della missione di servizio pubblico è volato bassissimo. Basti vedere la brutta fine della trasposizione della Direttiva Europea SMAV Servizi Media Audiovisivi, che ha preso la forma del TUSMA, ovvero di un regolamento di conti del passato.

Oppure leggere gli atti del dibattito in Commissione Parlamentare di Vigilanza sulla Missione del Servizio Pubblico, finito in nulla, o seguire il lavoro della VI Commissione del Senato di sintesi delle otto proposte di leggi di riforma della RAI, dove non c’è una parola di  futuro, ma tanto gusto di passato, con un messaggio nemmeno tanto sottotraccia e trasversale: “togliamo la pubblicità alla RAI”.

Dibattiti nei quali qualsiasi persona di buon senso e con un minimo di visione del futuro fa fatica a riconoscersi, e soprattutto trova impossibile appassionarsi, visto che sono inguaribilmente e risolutamente tutti con lo sguardo inchiodato al passato.

Si spera che invece questo Manifesto serva, infine, ad aprire un dibattito sul futuro e ad interrogarsi su come i PSMI possano contribuire a costruire anche in Italia la società digitale aperta, inclusiva, consapevole e rispettosa dei diritti che noi tutti vorremmo arrivasse presto.


[1] http://bit.ly/psmmanifesto

[2] https://www.historic-uk.com/HistoryUK/HistoryofBritain/General-Strike-1926/

[3] GAFAN = Google, Amazon, Facebook, Apple e Netflix

oppure GAFAM== Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft

[4] UER Unione Europea di Radiotelevisione, nata nel 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa

[5] Molti di questi nuovi obiettivi e missioni del PSMI hanno bisogno di identificare cosa sia il nuovo “bene comune” della società cui ci si rivolge. Se negli anni del Dopoguerra la crescita economica e lo sviluppo sociale erano la risposta ovvia e comune a tutti, quale è oggi il “bene comune” da perseguire in una società dove la crescita economica non è più un valore comune, che è divisa e compartimentata al suo interno come non mai ? Chi si può arrogare oggi il diritto di decidere cosa sia “bene comune” e cosa non lo sia ?

Forse bisognerebbe fare come ha fatto il Parlamento finlandese –che nel 1993 ha costituito una Commissione speciale per immaginare cosa sarà la Finlandia futura[5]. Una Commissione che non si occupa dell’oggi, nè del domani (cui pensa il resto del Parlamento) ma di ciò che accadrà (e che è bene che accada o che non accada) fra ventanni.