Il conflitto

Democrazia Futura. La risposta europea alla mossa del cavallo e l’incognita della Cina

di Bruno Somalvico, direttore editoriale di Democrazia futura |

La crisi ucraina come grande occasione per rilanciare una politica comune europea in materia di difesa e politica estera.

Bruno Somalvico

Prosegue l’analisi avviata ieri da Democrazia futura dedicata alla crisi innescata dall’azione militare di Putin in Ucraina e alle sue conseguenze nel più ampio scacchiere delle relazioni internazionali. Ha ragione Raffaele Barberio riassumendo così i negoziati in seno al Consiglio Europeo: “Saranno due gli elementi su cui si deciderà la partita in Ucraina: Gas e SWIFT. Ovvero Energia e Finanza”. Ovvero gli interessi economici saranno decisivi per la risoluzione del conflitto e non a caso Putin ha riunito i propri industriali russi per rassicurarli di fronte alle ritorsioni occidentali. Ritorsioni che l’Europa si preoccupa di qualificare come graduali, perché la partita va vista anche nel medio e lungo termine e in un più ampio campo di battaglia rispetto a quello in cui si sta combattendo un’operazione bellica, rimasta peraltro sinora in ambito regionale: quello del mondo e della globalizzazione dove operano altri grandi protagonisti a cominciare dalla Cina che, se da un lato ha come primo obiettivo quello di costruire il più grande mercato interno del pianeta, dall’altro si candida probabilmente ad esercitare un ruolo crescente nella diplomazia e nella risoluzione dei conflitti nello scacchiere mondiale e non solo di quelli su scala regionale.

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Nell’articolo di ieri abbiamo sottolineato l’abilità di Putin come giocatore di scacchi capace, mossa dopo mossa, di conquistare o meglio riconquistare “casematte” e zone di influenza appartenenti ad altre stagioni: quella sovietica e della spartizione di Yalta, ma ancora prima quella dell’autocrazia zarista ai tempi dell’impero russo.

Putin ha agito con risolutezza, decidendo in fine dei conti da solo, da vero autocrate, ma anche procedendo per certi versi con cautela, ribadendo ancora nelle ultime ore la volontà di approdare ad un accordo con il governo ucraino purché accetti la rinuncia definitiva a richiedere l’adesione del proprio paese alla Nato. Una richiesta che come ben sappiamo è un ultimatum.

Putin sa di poter contare su un esercito fortissimo pronto a sacrificare vite umane come fece Stalin nella battaglia di Stalingrado e su un consenso patriottico interno reale. Ma Putin deve anche fare i conti con gli oppositori all’intervento in Ucraina coraggiosamente scesi ieri in piazza a Mosca e a San Pietroburgo e con la risposta per ora ferma dell’Europa nel denunciare l’operato del nuovo Zar da un quarto di secolo al Cremlino e del suo alleato Aljaksandr Lukashenka in una Bielorussia oggetto in un passato recente di crescenti manifestazioni di ostilità nei confronti del proprio dittatore considerato un vassallo del Cremlino. Per questo Putin anche in pieno intervento militare ha accettato ieri l’ennesimo  confronto diplomatico con la Francia di Emmanuel Macron non solo per tentare per l’ennesima volta di provocare divisioni in seno all’Unione europea fra i Paesi fondatori dell’Europa da un lato e quelli entrati successivamente e in particolare con i paesi confinanti con il grande fratello russo, a cominciare dalla Polonia e dai Paesi Baltici, che, sentendosi particolarmente minacciati dalle ambizioni neo sovietiche di Mosca, sembrano voler scegliere una strategia dell’arroccamento intorno ad una richiesta di intervento della Nato, nei confronti della quale – dobbiamo ricordarlo – gli Stati Uniti negli ultimi anni avevano deliberatamente ridotto il proprio impegno in linea con il disimpegno in altre regioni del pianeta.

Certo, dopo l’aggressione russa all’Ucraina il democratico Joe Biden nelle ultime ore ha annunciato – se non la rottura perlomeno il congelamento dei rapporti diplomatici di Washington con Mosca, il Pentagono decide il rafforzamento della presenza dell’Alleanza Atlantica in questi paesi con l’invio di 7 mila militari americani da parte del Dipartimento della Difesa statunitense pur confermando che gli Stati Uniti resteranno fuori dall’Ucraina. L’unità dell’Occidente sembrerebbe essersi riconfermata apparentemente dopo il disimpegno trumpista non solo in Europa. Ma è davvero così?

Tutti sappiamo che le cose in realtà non stanno in questi termini. Non solo per motivi di politica interna americana dopo rimane lo spettro di una guerra civile sfiorata almeno simbolicamente poco più di un anno fa con l’assalto a Capitol Hill. Il fatto è che il ritiro statunitense dall’Afghanistan e la riconquista del governo di Kabul da parte dei Talebani, hanno dimostrato e temo continuino a significare un’opinione pubblica interna (o quel che rimane di essa in questa fase storica) ostile all’ipotesi di sacrificare vite umane per un intervento in un paese come l’Ucraina.

Putin sicuramente nelle sue valutazioni prima di fare la mossa del cavallo ha tenuto conto che quel che rimane dell’occidente e dell’alleanza atlantica nata dopo la seconda guerra mondiale. L’Occidente e le forze atlantiste non intendono certo oggi “morire per Kiev” come l’Europa non volle 83 anni fa “morire per Danzica”. Così è se vi pare.

Peggio ancora. Alcuni osservatori temono o in ogni caso arrivano a ritenere che l’occidente, pur di evitare nuove guerre regionali e tantomeno guerre destinate a diventare mondiali qualora interessassero paesi entrati nella Nato a cominciare dai Paesi baltici, sia disposto ad accettare una finlandizzazione dell’Ucraina che è in fondo l’obiettivo minimo che si è posto il nuovo zar russo in questo momento. Pronto poi a ricominciare la partita in Moldavia, in Georgia o su altri fronti dove dichiara di sentirsi minacciato direttamente o anche qui con il pretesto di tutelare le minoranze russe presenti nei paesi limitrofi sotto la sua influenza negli anni della guerra fredda.

In questo contesto e di fronte ad uno scenario non certo favorevole alle forze democratiche nell’immediato, centrale sarà la politica estera europea. Saprà l’Ue parlare con una voce sola via sarà davvero una diplomazia e una politica estera comune? E ripartirà contemporaneamente a quest’azione diplomatica la volontà di costruire una politica europea comune nel settore della difesa?

Più particolarmente, Bruxelles sarà in grado di ottenere il sostegno di coloro che sinora la hanno osteggiata, a cominciare da governi controllati dalle destre sovraniste come quelli presenti in Polonia e in Ungheria, ma anche respingendo alcune istanze antirusse provenienti da altri paesi dell’ex Europa orientale o dell’ex Unione Sovietica come Lituania, Lettonia ed Estonia che si sentono altrettanto minacciati dal tentativo di Putin o comunque dalla tentazione da parte dell’ex loro grande fratello di volerli finlandizzare se non addirittura di farli ripiombare direttamente sotto la propria area di influenza.

Sotto questo profilo la partita che deve giocare l’Europa va al di là di quella del suo futuro come potenza regionale nel Vecchio Continente per contenere le ambizioni neo-imperiali della Russia ed impedire politiche divergenti sul proprio fronte occidentale da parte del Regno Unito e del primo fra i suoi alleati, gli Stati Uniti d’America.

La contromossa in questa partita di scacchi dell’Europa deve guardare verso la Cina.

Non solo perché è il primo grande mercato mondiale con il quale fare affari e per impedire un dominio bipolare del mondo spostatosi verso il Pacifico dove, al di là delle schermaglie diplomatiche e degli scontri verbali fra il governo degli Stati Uniti e quello della repubblica Popolare di Cina, abbiamo assistito nell’ultimo decennio a grandi intese strategiche soprattutto da parte delle grandi piattaforme tecnologiche statunitensi con partner cinesi.

Una politica estera specifica dell’Unione Europea vero la Cina dovrebbe impedire in primo luogo la saldatura di un nuovo asse fra Mosca e Pechino consentendo a due potenze regionali come l’Unione europea e il neo impero euroasiatico russo di poter interloquire di un lato fra di loro,  dall’altro con le due grandi superpotenze del Pacifico.

Sullo sfondo rimane il fatto che l’Unione europea non rappresenta oggi gli interessi dell’intero continente. La politica estera e di difesa comune sarebbero un passo decisivo ma non la fine di un percorso in attesa che si possa completare l’unione politica dell’Europa ma anche il disegno gollista di un’Europa dall’Atlantico agli Urali.

Per contenere in questo caso una Cina che altrimenti, in cambio del sostegno attuale a Putin e alla Russia che ricordiamolo è presidente di turno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, potrebbe sentirsi legittimata ad invadere Taiwan innescando ulteriori tensioni locali. Perché la grande geopolitica su scala globale si interseca con i conflitti locali.  Pensiamo al Baltico dove un Paese di soli 2,8 milioni di abitanti come la Lituania confinante, non solo a nord con la Lettonia e per soli 65 chilometri a sud con la Polonia, ma anche con la Bielorussia di Lukashenko e con l’enclave russa di Kaliningrad, ha recentemente aperto un contenzioso diplomatico con la Cina.  Consentendo l’apertura a Vilnius di una Rappresentanza di Taiwan, la Lituania ha provocato la reazione di Pechino che, a sua volta, ha declassato le relazioni diplomatiche con il piccolo Paese baltico che seppur entrato nella Nato o forse proprio per questo, potrebbe rientrare nei futuri disegni imperiali del grande fratello russo con la benedizione di Pechino.

La crisi ucraina va fermata con un compromesso onorevole senza vincitori né vinti. Altrimenti potrebbe innescare dinamiche che nemmeno un grande giocatore di scacchi come Putin saprebbe prevedere né contenere.