La crisi

Democrazia Futura. La necessità di un approccio critico interdipendente e interdisciplinare

di Pieraugusto Pozzi, ingegnere, neo segretario generale di Infocivica - Gruppo di Amalfi |

Note di lettura sulle crisi ucraina. In questa seconda parte, Il neo segretario di Infocivica, Pieraugusto Pozzi, ripercorre i rapporti economici fra la Russia e l'Europa e in particolare l'Italia "Dalla guerra fredda alle partnership commerciali, industriali, energetiche" chiedendosi infine: "E' possibile prescindere dalle fonti fossili?".

Pieraugusto Pozzi

Proseguono per Democrazia futura le “Note di lettura sulla crisi ucraina” per la comprensione della quale, il neo segretario di Infocivica, Pieraugusto Pozzi, sottolinea “La necessità di un approccio critico interdipendente e interdisciplinare”. In questa seconda parte, Pozzi ripercorre i rapporti economici fra la Russia e l’Europa e in particolare l’Italia “Dalla guerra fredda alle partnership commerciali, industriali, energetiche” chiedendosi infine: “E’ possibile prescindere dalle fonti fossili?”.

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Parte seconda. Dalla Guerra Fredda alle partnership commerciali, industriali, energetiche. E’ possibile prescindere dalle fonti fossili?

Già nel mondo bipolare della Guerra Fredda, diviso semplicisticamente in due dall’appartenenza ideologica fra mondo capitalista e socialismo reale, prima il petrolio e poi il gas, furono un canale di cooperazione tra Est e Ovest. Il mondo era ostaggio della deterrenza nucleare e le scelte di politica interna dei singoli paesi erano limitate dalla loro appartenenza alle reciproche sfere di influenza (in Europa, si ricordano le strategie di contenimento nei paesi Nato e gli “aiuti fraterni” portati dai carri armati del Patto di Varsavia in Ungheria e in Cecoslovacchia). Dopo la fine dell’Unione Sovietica, le materie prime e, in particolare, le fonti fossili sono diventate elemento fondamentale dell’economia russa e, particolarmente, della partnership con l’Europa. Ma, nell’epoca della globalizzazione, la Russia è diventata una sorta di “miniera del mondo”. La scheda pubblicata online da RaiNews[1] descrive il commercio estero della Russia (che ha un PIL, quantitativamente inferiore a quello dell’Italia e di poco superiore a quello della Spagna, pari a circa 1500 miliardi di dollari, dei quali circa 240 sono l’export di fonti fossili, capace di finanziare interamente l’import russo):

L’export dalla Russia è un mercato che vale circa 400 miliardi di dollari. Più della metà arriva dalle materie prima energetiche […] Contrariamente a quello che si possa pensare, ben l’87 per cento si poggia su Paesi che non fanno parte dell’ex Unione Sovietica.

Il partner commerciale più importante è la Cina, con un valore dell’interscambio pari a 112,4 miliardi di dollari. Sul podio salgono anche Germania (46,1 miliardi) e Paesi Bassi (37 miliardi). Gli Stati Uniti sono quarti con 28,8 miliardi, l’Italia settima con 23,7 miliardi, preceduta anche da Turchia (25,7 miliardi) e Corea del Sud (24,4 miliardi). Il restante 13 per cento dell’interscambio si rivolge invece a Paesi ex Urss, soprattutto a Bielorussia (13,4 miliardi) e Kazakistan (11,4 miliardi).

Il 53,8 per cento dell’export russo è legato all’energia. In particolare, Mosca è il primo esportatore globale di petrolio, con 7,8 milioni di barili al giorno a dicembre scorso, di cui 5 milioni di greggio e condensato e 2,85 milioni di prodotti petroliferi raffinati. Inoltre, la Russia è il quinto produttore al mondo di acciaio, preceduta soltanto da Cina, Giappone, India e Stati Uniti. Sul totale delle esportazioni russe, il valore di quelle di metalli e prodotti in metallo si attesta all’11,2 per cento. Tra gennaio e ottobre 2021 il valore delle esportazioni di metalli era risultato in crescita dell’87 per cento. Un risultato eccellente tenuto conto della frenata dell’export di rame e nichel, dopo la decisione della Cina di puntare maggiormente sulle proprie riserve.

La Russia è il secondo Paese al mondo per la produzione di concimi azotati e fosfati. Ed è seconda anche nella produzione di potassio, che arriva a 7,2 milioni di tonnellate. In totale i prodotti dell’industria chimica hanno contato per il 7,6 per cento dell’export russo nei primi 10 mesi del 2021. Ma uno dei settori più rilevanti anche per il nostro mercato è quello del grano. […] La Russia infatti è il primo esportatore mondiale di grano. Da Russia e Ucraina arriva quasi un terzo delle forniture mondiali di cereali. In totale le vendite di prodotti alimentari e materie prime per la loro produzione rappresentano il 7,2 per cento delle vendite all’estero.

Un settore che colpisce è quello che la stessa Russia definisce come “merci secretate”. Oltre 8 miliardi di dollari. Si tratta di armi, aerei, materiali nucleari. La prima acquirente è risultata sia nel 2020 che nel 2021 l’Algeria e tradizionalmente sono stabilmente nella top ten Cina e India. Tuttavia figurano nella lista anche molti Paesi Nato, dagli Usa alla Germania, dalla Gran Bretagna all’Estonia.

Se questa è una sintesi efficace dell’import-export russo, il sito beyond-coal.eu (un’iniziativa di Climate Action Network Europe, che è un’alleanza di organizzazioni non governative europee che contrastano il cambiamento climatico) riporta in tempo reale (https://beyond-coal.eu/russian-fossil-fuel-tracker/) l’ammontare della spesa dei 27 paesi dell’Unione europea per l’acquisto di combustibili fossili dalla Russia a partire dal 24 febbraio 2022.

La spesa è in continua crescita e avanza ad ogni secondo. Il 7 aprile 2022 alle ore 18, la cifra complessiva superava i 27,34 miliardi di euro: 17,12 miliardi per il gas, 9,46 miliardi per il petrolio e 750 milioni per il carbone.

Dati che sembrano smentire alla radice qualsiasi tesi di “accerchiamento” occidentale e confermare, semmai, il corto respiro delle scelte strategiche fatte dai paesi europei.

Per quanto riguarda l’Italia, per ricostruire il quadro storico di tali scelte e delle relazioni commerciali e industriali tra Italia e Russia, il documento del 2018 elaborato per il Parlamento italiano dall’Istituto Affari Internazionali[2] è davvero prezioso:

Se durante la Guerra fredda la cooperazione economica italo-sovietica ruotava intorno a grandi colossi energetici e industriali come Eni e Fiat, dopo il crollo dell’Urss – e in particolare con la ripresa economica russa degli anni 2000 – i due paesi hanno cominciato a sfruttare meglio la complementarità delle loro economie […] l’export dell’Italia verso la Russia è andato progressivamente aumentando dai primi anni 2000, in particolare nel 2007 e nel 2013. I dati sull’interscambio commerciale tra Italia e Russia aggiornati alla fine del 2017 indicano un valore pari a 20,3 miliardi di euro. […] Se la Russia è ricca di idrocarburi ma carente nella diversificazione del settore manifatturiero, l’Italia presenta caratteristiche opposte e ciò rende i due paesi naturali partner commerciali. L’export italiano verso la Russia abbraccia una serie di settori, tra cui i più importanti sono i macchinari e gli apparecchi meccanici, il tessile, l’arredamento, le materie plastiche e i prodotti farmaceutici. La Federazione Russa si è dotata di Zone economiche speciali (Zes) a livello federale, dove è possibile usufruire di incentivi fiscali, doganali e amministrativi per le imprese, che mirano ad attirare gli investimenti esteri. Molte aziende italiane hanno già colto con successo gli incentivi offerti dalle Zes, puntando sia sul costo basso della manodopera qualificata, sia sul vantaggio immateriale del grande apprezzamento dei prodotti italiani da parte russa.

Il Made in Italy è molto richiesto non solo nelle tradizionali “tre A” (abbigliamento, alimentare, arredamento) ma anche per ciò che riguarda macchinari ad alta tecnologia e know-how. Basti pensare che il flusso degli investimenti esteri diretti (Ide) italiani in Russia è passato da 550 milioni di euro a 1.120 milioni del 2014, per assestarsi a 812 milioni di euro nel 2015. L’andamento storico al 2015 evidenzia uno stock netto di Ide (Investimenti diretti esteri) dell’Italia in Russia di oltre 8 miliardi di euro. In Russia sono attualmente presenti oltre 400 imprese italiane, di cui 70 con impianti produttivi, cui si aggiungono otto banche e alcuni studi legali. I settori in cui sono attive le aziende italiane sono i seguenti: agro-alimentare (tra cui InalcaCremonini, Parmalat, Ferrero, Zuegg, Perfetti, Colussi, De Cecco), automobilistico (tra cui Fiat-Iveco, Pirelli), elettrodomestici (tra cui Indesit, Candy, Ariston, de Longhi), edilizia-infrastrutture-trasporti (tra cui Mapei, Marazzi, Buzzi Unicem, Astaldi, Rizzani De Eccher, Salini, Merloni progetti), energetico (Eni-Saipem, Enel, Coeclerici), metallurgico (Techint, Danieli, Marcegaglia), petrolchimico (Technimont), farmaceutico (Menarini) ma anche aerospaziale-difesa-telecomunicazioni e dell’alta tecnologia (Leonardo e le sue ex controllate, Italtel, Technosystem). Un caso riguarda l’italiana Alenia Aermacchi (oggi Divisione Velivoli di Leonardo) e la russa Sukhoi, che lavorano insieme al Superjet 100, mentre nel 2012 Fiat si è accordata con Sberbank per la produzione della Jeep a San Pietroburgo. Un altro esempio è la fabbrica per la produzione di lavatrici a Lipeck, costruita dall’italiana Indesit nel 2004, la produzione di piastrelle in ceramica a Stupino (regione di Mosca) costruito dalla Marazzi.

Molto interessante il fatto che la cooperazione industriale ed economica non temesse di realizzarsi nel settore delle alte tecnologie militari.

Al riguardo, visto il dibattito in corso sulla fornitura di armi all’Ucraina, va ricordata la vendita dei blindati Lince dell’italiana Iveco, un modello di grande successo, venduto anche all’esercito britannico. Scrive Gianluca Di Feo:

La vendita a Mosca di questi veicoli militari risale al 2011, quando i rapporti con l’Occidente erano ottimi e il premier Silvio Berlusconi vantava l’amicizia con Vladimir Putin. L’armata di Mosca stava avviando il programma di modernizzazione, scegliendo per la prima volta nella storia equipaggiamenti stranieri. Così dopo una lunga selezione è stato firmato un contratto da un miliardo di dollari, che prevedeva la consegna di 358 Lince e la costruzione in Russia di altri 1300, affidata al gruppo statale Kamaz. Ma le fabbriche locali sono insorte, aggiornando velocemente i loro cataloghi e offrendo mezzi simili come il Tigr. Le pressioni sono state tali da spingere il Cremlino a rinunciare alla produzione in patria del blindato Made in Italy. La Lince però è molto apprezzata dai generali russi. Dal 2012 è stata esibita nelle parate sulla Piazza Rossa. Oggi gli oltre trecento esemplari in servizio sono in dotazione alla polizia militare e agli incursori del Gru, il servizio segreto militare. Nei giorni precedenti l’invasione alcune di queste camionette sono state fotografate proprio in una colonna delle truppe d’assalto. Che evidentemente adesso le stanno impiegando in prima linea[3].

Riguardo al regime sanzionatorio intervenuto dopo l’invasione della Crimea nel 2014 l’Osservatorio IAI aggiunge:

Sarebbe riduttivo ascrivere le perdite dell’export soltanto al regime sanzionatorio, senza considerare altri fattori. Il collasso del prezzo del petrolio del 2015 (-30 percento rispetto al picco di giugno 2014) ha avuto un impatto molto forte sull’economia russa – ampiamente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio – contribuendo a un significativo calo del PIL (-4,6 percento nel 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014). La decisione della Banca centrale russa di svalutare il rublo ha aumentato l’inflazione (+11,36 percento rispetto al dicembre 2013), che a sua volta ha contratto significativamente il potere di acquisto dei russi. La contrazione economica ha ridotto la domanda russa di beni esteri, peraltro divenuti più cari a causa della svalutazione del rublo. I dati dell’Istituto del Commercio Estero precisano che solo l’1,8 percento dell’export di prodotti nel mirino delle contro-sanzioni russe (che nel 2013 ammontava a 202,7 milioni di euro) era destinato a Mosca, e che la flessione è stata intorno ai 151 milioni di euro per il biennio 2014-2015 (di gran lunga inferiore a quanto perso da altri paesi europei come Paesi Bassi e Francia). Nel 2017 si è comunque avuta una svolta, con l’export italiano verso la Russia che ha registrato un +19,3 percento e gli investimenti italiani in Russia cresciuti da 27 a 36 miliardi di euro. Questa tendenza positiva – insieme al record delle esportazioni agroalimentari italiane del 2015 – fa pensare che le compagnie italiane si siano adattate al contesto sanzionatorio. Alcune esportano verso paesi come Serbia o Bielorussia, che poi rivendono i loro prodotti in Russia; altre producono direttamente in Russia, approfittando delle agevolazioni fiscali a sostegno delle industrie locali. La Lombardia si conferma la regione leader per l’export verso la Russia: nei primi tre trimestri del 2017 le vendite hanno raggiunto 1,7 miliardi di euro (+30,4 percento), principalmente nei settori manifatturiero, farmaceutico, dei macchinari e tessile. Sebbene lontano dai numeri del 2013, il commercio tra Italia e Russia negli ultimi anni è migliorato in maniera significativa e le cifre del 2018 indicano un +6,6 percento rispetto allo stesso periodo del 2017. Se è naturale pensare che la revoca delle sanzioni aiuterebbe ad aumentare l’export italiano, è anche vero che l’impatto sull’economia italiana è stato probabilmente assorbito, seppure in maniera diseguale a seconda dei settori produttivi.

Pur nel rispetto del regime sanzionatorio, l’Italia ha favorito l’intensificarsi delle relazioni commerciali con la Russia. Durante il Forum di San Pietroburgo del 2016, l’Italia ha firmato accordi per oltre un miliardo di euro. Nel 2017 la cooperazione nel campo dell’energia elettrica si è tradotta in intese tra Enel e Rosseti su soluzioni innovative per le reti elettriche ad alta tecnologia. Nel 2018 sono stati concluse convenzioni importanti nel settore energetico, delle infrastrutture per l’energia eolica (tra Eni e la regione di Stavropol), della ricerca (tra Eni e le ferrovie russe, tra Rosneft e il Policlinico di Torino) e dello sviluppo tecnologico (tra l’Associazione presieduta da Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia, e l’agenzia federale russa per lo sviluppo tecnologico per la fornitura di tecnologie alla Russia da parte di imprese italiane ed europee). Di recente, durante la sua visita a Mosca, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi si è fatto portavoce della posizione dell’Italia sulle sanzioni, sottolineando che le misure sanzionatorie possono essere eliminate e che l’Italia sta lavorando in tal senso”. Nella sua recentissima visita a Mosca dove ha incontrato Putin, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha insistito sul fatto che per l’Italia le sanzioni non sono un fine ma uno strumento, e che è importante incrementare la cooperazione economica con la Russia. In quest’occasione sono stati firmati ben 13 tra accordi e intese per un valore stimato di circa 1,5 miliardi di euro. Tra i principali ricordiamo un il prolungamento dell’accordo da parte di Enel per la fornitura di energia elettrica alle Ferrovie Russe (Rzd); intesa tra Barilla e la Regione di Mosca per l’acquisizione di un terreno per realizzare un nuovo mulino, uno stabilimento produttivo, un magazzino, e un raccordo ferroviario a esso collegato; l’accordo di cooperazione tra Pietro Fiorentini e Rosneft per la produzione di impianti «Hipps» (impianti meccanici che evitano sovraccarichi di pressione nelle tubature utilizzate dall’industria di idrocarburi); e infine l’accordo tra Pirelli e Rostec per il raddoppio dello stabilimento di Voronezh.

Come è noto, quello energetico è un settore chiave per capire l’importanza delle relazioni bilaterali tra Italia e Russia, sia nel suo andamento storico che nel momento attuale. Si legge ancora nell’Osservatorio IAI:

I primi interscambi nel settore energetico risalgono al 1958, con la conclusione del contratto di fornitura di greggio tra Eni e governo sovietico – quantitativi tutto sommato modesti, circa 80 mila tonnellate di greggio destinate al mercato italiano, in cambio di 10 mila tonnellate di gomma sintetica per alimentare la macchina industriale dell’Unione Sovietica. Dopo questi approcci interlocutori, il primo momento di svolta coincide con il grande contratto siglato da Eni e Soyuzneftexport nel 1960. L’intesa, che prevedeva la fornitura all’Italia di 12 milioni di tonnellate di greggio russo tra il 1961 e il 1965, fu rinnovata ed estesa nel 1963 (prima quindi della sua naturale scadenza), grazie a nuovo accordo che ampliava a 25 milioni di tonnellate il valore delle

forniture per un periodo di ulteriori cinque anni, dal 1965 al 1970. Nel 1969, grazie a un altro accordo concluso dall’Eni, è stata posta la seconda pietra miliare della storica partnership energetica tra Russia e Italia, quella relativa al gas, ancor oggi elemento che fa da collante alla relazione bilaterale tra i due paesi. Il contratto prevedeva l’approvvigionamento ventennale di 6 miliardi di metri cubi (billions of cube metres, bcm) di gas sovietico al nostro paese, gettando le basi per la realizzazione del gasdotto Urengoy-Pomary-Uzhgorod (conosciuto anche come Fratellanza), ancor oggi una delle pietre angolari dell’infrastruttura energetica europea.

Nel corso dei decenni – prima e dopo la fine della Guerra fredda – gli approvvigionamenti energetici russi diretti verso il mercato italiano sono progressivamente aumentati, fino a raggiungere i picchi storici di 18 milioni di tonnellate di greggio nel 2003 e i 30 bcm di gas nel 2013. In termini assoluti, la Russia è oggi il quarto fornitore di petrolio e il primo di gas naturale, ed è proprio quest’ultimo il principale filo conduttore dell’asse energetico Roma-Mosca. E se nel caso del petrolio, grazie anche a un mercato più liquido e a un’offerta più ampia, la quota delle importazioni dalla Russia si è livellata verso il basso, nel settore gas – nel quale i fornitori sono storicamente più concentrati – gli approvvigionamenti provenienti da Mosca continuano a rappresentare un’ampia fetta delle importazioni totali italiane, pari al 43 percento nel 2017. Nell’ultimo anno, dopo un periodo di leggera flessione, le forniture di gas russo sono aumentate in termini assoluti, passando da 20 a 30 bcm e avvicinandosi al picco del 2013.

Quella italo-russa è dunque una partnership energetica solida e duratura, che nonostante momenti di crisi dovuti a fattori esogeni – in primis le dispute russo-ucraine sul gas del 2006 e del 2009 – si è mantenuta tale fino ai giorni nostri. Anzi, proprio per far fronte alla prima crisi del gas tra Russia e Ucraina, nel gennaio 2006, il nostro paese si è fatto promotore di iniziative per rendere più sicuro il flusso delle forniture russe verso l’Europa. Il gasdotto South Stream, una condotta sottomarina posata sui fondali del Mar Nero in grado di collegare direttamente il territorio russo a quello dell’Ue (in Bulgaria) evitando il transito per l’Ucraina, ne è l’esempio principale. Lanciato da Eni e Gazprom nell’ambito di un partenariato strategico siglato nel novembre 2006, il progetto ha immediatamente ottenuto il supporto governativo, come testimoniato dal Memorandum d’Intesa firmato nel 2007 dalle due aziende alla presenza dell’allora ministro dello sviluppo economico Pierluigi Bersani (Governo Prodi II) e del ministro russo dell’industria e dell’energia Viktor Khristenko. Anche il governo Berlusconi IV, insediatosi nel 2008, non ha mai fatto mancare il proprio sostegno all’iniziativa, e anzi ne ha promosso e ratificato l’espansione da 31 a 64 Bcm durante il vertice italo-russo tenutosi nel maggio 2009 tra Sochi e Mosca.

Sin dagli albori del progetto, fino alla sua definitiva cancellazione da parte del presidente russo Putin nel dicembre 2014 (in seguito alla crisi ucraina), i governi italiani hanno appoggiato la realizzazione del progetto sia a livello bilaterale che in ambito Ue, dove la Commissione ha ripetutamente espresso le proprie perplessità sulla legalità di South Stream rispetto al quadro regolamentare europeo sulle infrastrutture per il trasporto di gas. In particolare, South Stream fu giudicato essere in violazione del Terzo Pacchetto Energia, adottato nel 2009, che prevede la separazione proprietaria tra chi produce e chi gestisce le infrastrutture di trasporto del gas. […].

Proprio i veti europei nei confronti di South Stream, e il contemporaneo via libera di Bruxelles al gasdotto ‘gemello’ Nord Stream (condotta sottomarina che collega la Russia alla Germania attraversando il Mar Baltico), hanno alimentato tensioni tra il governo italiano e le istituzioni europee, accusate di aver adottato pesi e misure differenti nei confronti dei due progetti.

A maggior ragione, l’annuncio da parte del Cremlino di voler sospendere il passaggio del gas attraverso l’Ucraina dopo il 2019, anno di scadenza dei contratti di transito con il governo di Kiev, e l’accelerazione russo-tedesca per la realizzazione di Nord Stream 2 (estensione del gasdotto già in essere, in grado di raddoppiarne la capacità da 55 a 110 bcm annui), hanno riportato il tema degli approvvigionamenti di gas russo all’Italia al centro del dibattito politico nazionale, proiettandolo anche nel contesto europeo. La presa di posizione dell’ex primo ministro Matteo Renzi, che durante il vertice Ue del dicembre 2015 ha sottolineato con fermezza l’incoerenza tra il supporto tedesco a Nord Stream 2 e le scelte europee in materia di sanzioni, testimonia la sensibilità italiana su un tema che rischia di minare la sicurezza (e competitività) dei flussi di gas russo verso il nostro paese, e più in generale il futuro della ‘relazione speciale’ con Mosca alla luce delle nuove infrastrutture in programma.

In caso di sospensione della rotta ucraina, attraverso la quale oggi transitano tutti i 30 bcm di gas russo all’Italia, la realizzazione di Nord Stream 2 garantirebbe alla Germania il monopolio sulle esportazioni di gas dalla Russia verso l’Ue, con un impatto negativo sulla liquidità del mercato in Europa. In questa situazione, tutte le importazioni di gas russo dell’Italia transiterebbero attraverso il territorio tedesco, con la possibilità che la competitività economico-industriale del nostro paese venga danneggiata da prezzi dell’energia più alti, per di più a vantaggio del principale concorrente manifatturiero europeo.

Per scongiurare il materializzarsi di questa situazione, o quantomeno riequilibrare i rapporti di forza nell’ambito della partnership energetica con Mosca, le istituzioni italiane e l’industria nazionale hanno lavorato sia a livello bilaterale che europeo. In ambito europeo, i governi italiani hanno più volte sottolineato – con il sostegno dei paesi dell’Europa centro-orientale – le implicazioni negative della realizzazione di Nord Stream 2. Oltre al già citato intervento di Renzi al Consiglio europeo di dicembre 2015, anche l’ex premier Paolo Gentiloni, durante il Consiglio europeo di giugno 2017, ha chiesto una ‘par condicio’ nella valutazione di tali progetti. A ciò si aggiungono le iniziative sul piano bilaterale, che seppur meno roboanti rispetto a quelle del periodo precedente alla crisi ucraina (si pensi al vertice bilaterale e al Forum Italia-Russia del novembre 2013, sotto il governo Letta, nell’ambito del quale sono stati firmati 28 accordi commerciali di cui molti nel settore energetico), hanno sancito il ruolo chiave dell’energia per il rapporto italo-russo. La partecipazione dell’ex premier Renzi al Forum di San Pietroburgo nel giugno 2016 e l’incontro del luglio 2017 tra l’ex ministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda e il vice primo ministro russo Arkady Dvorkovic hanno confermato questo approccio.

Sul fronte industriale, le iniziative per garantire al paese l’accesso diretto alle forniture di gas russo hanno puntato a rafforzare (e rendere più sostenibile) l’opzione di transito attraverso l’Ucraina e a rivitalizzare la rotta meridionale, di fatto bloccata con la sospensione di South Stream nel 2014. Oltre al tradizionale ruolo di Eni come interlocutore energetico chiave per la controparte russa, attori come Snam ed Edison si sono inseriti in modo proattivo nella partita bilaterale.

In particolare, vanno attribuiti a Snam gli sforzi per rafforzare la rete di trasmissione ucraina, per la quale – come detto – oggi transita la totalità del gas russo diretto in Italia. La firma di un Memorandum d’intesa con la slovacca Eustream e con Naftogaz e Ukrtransgaz, rispettivamente compagnia energetica nazionale e operatore dei gasdotti in Ucraina, rappresenta un concreto tentativo di mantenere intatta la rotta ucraina come componente fondamentale della relazione energetica italo-russa. Al contempo, con la proposta di realizzazione del gasdotto Poseidon, Edison e il governo italiano puntano a garantire al paese l’accesso al gas russo che sarà trasportato in Turchia dal gasdotto TurkStream, attraverso il Mar Nero. Il Memorandum d’Intesa firmato da Edison con Gazprom e la compagnia greca Depa testimonia l’interesse russo a garantire

approvvigionamenti diretti al nostro paese attraverso la rotta meridionale. Infatti, qualora (nonostante le pressioni italiane) il Cremlino decidesse di sospendere definitivamente il transito attraverso l’Ucraina dopo il 2019, la combinazione TurkStream-Poseidon diventerebbe l’opzione principale per garantire la capacità di Mosca di raggiungere direttamente il mercato italiano, aggirando il territorio tedesco.

Dalle forniture energetiche russe, oltre all’Italia, sono massimamente dipendenti ed esposte in Europa Germania e Ungheria, che però si giova di prezzi di acquisto molto vantaggiosi, legati ad accordi che risalgono all’epoca sovietica, privilegi conservati nel mutare delle epoche. Accordi e dipendenza ben illustrate da ISPI[4], che spiegano forse, insieme all’appoggio alla minoranza ungherese in Ucraina, le posizioni molto caute di Viktor Orban nella crisi.

In particolare, il nostro paese sembra avere effettuato scelte costantemente rivolte ad assecondare la volontà, espressa a più riprese dalla Russia, di bypassare il pedaggio dovuto ai diritti di passaggio del gas in Ucraina (che monetizza in questo modo circa il tre per cento del proprio PIL), anziché alla ricerca di strategie di fornitura e produzione alternative.

Nell’intervista a Federico Fubini[5] del gennaio 2022, le parole di Kasparov riferite ai dirigenti dei paesi europei, sono molto aspre e rimarcano l’evidente mancanza di un disegno europeo armonizzato e coeso che avrebbe potuto limitare molto più efficacemente il potere energetico russo:

«partiamo dal discorso di Putin a Monaco nel 2007 sul progetto di ricreare la sfera d’influenza su altri Paesi ex sovietici. Da allora l’Europa ha avuto 15 anni. Cosa ha fatto per ridurre la sua dipendenza dal gas russo? Niente, assolutamente niente. Peggio, ha aumentato le forniture di gas dalla Russia. Ho parlato di Schröder, ma potrei parlare di una lunga lista di politici di alto livello che hanno cooperato con Putin e ricevuto denaro da lui. Eppure c’erano tante alternative, tanti giacimenti altrove che si potevano sviluppare. Invece si è investito in ben due gasdotti Nordstream fra la Russia e la Germania. È incredibile, quando sento dire agli europei che non possono fare niente. Per forza, hanno costruito la loro dipendenza dalla Russia con le loro stesse mani! Questi politici ne sono responsabili, Angela Merkel in primo luogo. Ma l’80% del gas della Russia è diretto all’Europa. Dunque chi avrebbe il coltello dalla parte del manico? Eppure il ceto politico europeo è così corrotto che non vuole fare niente contro Putin. Questa è la ragione: una complessiva corruzione politica e finanziaria».

Dice Romano Prodi[6] rispondendo a una domanda sul rischio, o sull’errore strategico fatto in passato, sulla dipendenza energetica europea e italiana dalla Russia:

«Quando ero al governo, dati i limiti della produzione interna, misi come obiettivo la massima diversificazione degli acquisti, posto che tutti gli Stati erano problematici. Ai tempi, per esempio, gli analisti indicavano l’Algeria come la più soggetta a rischi. La mia priorità è stata essere il più possibile indipendenti, ma il contesto generale italiano non lo permetteva. Sul nucleare c’era stato il referendum, l’idroelettrico faceva quello che poteva. Sulle energie rinnovabili si è lavorato, ma con risultati ovviamente non risolutivi. In conclusione si è continuato a dipendere dall’estero. Inoltre, da parte di tutti i paesi acquirenti, agli esistenti contratti di lungo periodo, che garantivano la sicurezza di rifornimento anche se a prezzi leggermente più elevati, si preferì la libertà di mercato. Per un po’ questo ha funzionato a nostro favore, poi il mercato è impazzito verso l’alto e lo stiamo pagando caro. Adesso abbiamo urgente bisogno di altri fornitori. Accolgo con favore l’offerta americana di aumentare l’esportazione di gas verso l’Europa, ma i produttori americani lo vendono a prezzo di mercato che ora è altissimo. Mi auguro possa essere l’occasione per ottenere energia in modo più diversificato e gestito».

Va al riguardo annotata la contrattualistica degli acquisti di gas russo da parte dell’Italia. Gli accordi siglati da ENI e Gazprom all’inizio degli anni Dieci, in continuità con il regime precedente e per un arco temporale che avrà termine nel 2035, seguono la formula take or pay.

Con questa clausola, l’acquirente è tenuto a pagare comunque una quantità minima di materia prima, anche nell’eventualità che non la ritiri effettivamente nell’arco dell’anno, potendolo fare negli anni successivi.

È una clausola tipica dei contratti di fornitura di lungo periodo che, introdotta a partire dagli anni Settanta, era pensata per tutelare soprattutto i produttori negli investimenti in capacità produttiva e di trasporto. All’epoca i mercati interni europei erano monopolistici e il take or pay non poneva grandi rischi alle compagnie acquirenti pubbliche che potevano gestirne i costi caricandoli sui clienti finali o sulla fiscalità generale.

Nei contratti più recenti è stata introdotta una nuova formula di prezzo, indicizzata al prezzo del gas sul mercato virtuale dei Paesi Bassi (TTF, punto di scambio virtuale per il gas naturale). Indicizzazione che risente delle oscillazioni speculative che sul mercato possono tipicamente esercitarsi: per questa ragione ENI ha pagato il gas russo a prezzo più alto di quello di mercato.

Misteriosi intrecci russo-ucraini

Storicamente, fenomeni distruttivi come guerra e criminalità organizzata si sono alimentati reciprocamente, specie laddove fossero esistenti e radicate organizzazioni criminali poiché attorno ai conflitti, specie a quelli più recenti, prosperano corruzione, riciclaggio, traffico di armi, commercio di esseri umani, mercato nero. Oltre alle relazioni storiche, politiche, culturali e religiose esistenti tra Russia e Ucraina, possono perciò avere un ruolo anche gli intrecci criminali e affaristici, veramente difficili da interpretare, che la transizione post-sovietica ha generato. Scrive Roberto Saviano attingendo a varie fonti e diversi pareri [7]:

«La criminalità organizzata russa e ucraina da sempre sono state gemelle. La più importante organizzazione mafiosa russa, la Solncevskaja bratva, è governata da una diarchia: il russo Sergej Michajlov, detto «Michas», e l’ucraino Semyon Mogilevich, detto «The Brain».

Per comprendere la loro potenza economica riporto alcuni dati da studi condotti fra il 1996 e il 2011 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine: 1 miliardo di dollari è il guadagno annuale dall’esportazione di eroina in Cina, 8 miliardi i proventi della mediazione della vendita dell’eroina afghana, 620 milioni di dollari il profitto ricavato dal legname russo tagliato illegalmente per il mercato cinese delle costruzioni.

Cos’è che ha permesso nei decenni passati che si creasse la grande alleanza politica russo-ucraina delegandola alle mafie? La risposta unica è: il gas.

La società di intermediazione di gas, RosUkrEnergo (che ha sede in Svizzera e il cui 50% delle azioni è del colosso russo Gazprom), fu creata nel 2004 dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma e da Vladimir Putin: trasportava il gas dal Turkmenistan alla Naftogaz, la società nazionale ucraina di petrolio e gas; Naftogaz doveva comprare da questa società di intermediazione russa e doveva vendere solo in Ucraina il gas. La RosUkrEnergo che vendeva gas agli ucraini lo vendeva a un prezzo più alto rispetto a quello di mercato, e obbligando tra l’altro a darlo gratuitamente alle zone filorusse di Crimea e Donbass. […]

 L’alleanza mafiosa sotto il potere della Solncevskaja bratva non garantiva solo la distribuzione dei dividendi della RosUkrEnergo ma rubando il gas in transito attraverso l’Ucraina verso altri Paesi permetteva alle varie bratva mafiose di venderlo di contrabbando alle società di importazione gas di mezzo mondo. Guadagnavano dal gas legale e dal gas rubato (a carico dei contribuenti ucraini che dovevano pagarlo).

L’Ucraina era trattata come una colonia da cui estrarre grandi rendite senza pagare le tasse; i fondi venivano depositati in paradisi fiscali offshore. […]

L’imprevisto che persino Solncevskaja bratva non poteva prevedere è stata la rivoluzione di piazza Maidan del 2014. L’inaspettata insurrezione del popolo ucraino legato al desiderio europeista fece saltare il banco dell’accordo mafioso. L’Europa, sotto il ricatto del gas russo, lasciò sola l’Ucraina in questa nuova stagione di indipendenza ma soprattutto di liberazione dal potere mafioso.

I vory (padrini) stanno approfittando della tensione al confine tra Ucraina e Russia per aumentare il proprio potere. La Crimea è il centro del contrabbando tra Europa e Russia. Il Mar Nero e Odessa sono i grandi spazi in cui circolano la benzina venduta di contrabbando, tonnellate di carbone venduto illegalmente caricato su navi pronte a dirigersi in mezzo mondo, eroina, oro. Tutto ciò che può evadere il peso del fisco in cambio di una tassa ai vory mafiosi passa per qui».

La giornalista russa Yuliya Polukhina fa una sintesi chiara:

 «I beneficiari di questa guerra sono i politici, gli oligarchi e i gangster. Carbone, oro, benzina e tabacco. Questo è ciò per cui si battono nell’Ucraina orientale».

 La conquista del Donbass e della Crimea è servita soprattutto a proteggere gli affari mafiosi. Gli affiliati hanno innescato un’insurrezione per poter creare repubbliche autonome a Donetsk e Lugansk, ma non sono altro che repubbliche di mafiosi, governate per procura da Mosca».

Sul ruolo delle organizzazioni criminali nella guerra, Federico Varese, criminologo e docente all’Università di Oxford, in due interventi pubblicati ne La Repubblica è abbastanza cauto sul ruolo delle mafie nella decisione bellica di Putin ma molto preoccupato della spinta che la guerra darà alle organizzazioni criminali nel corso del tempo. Varese nel primo pezzo del 7 marzo 2022 osserva:

«Una tesi bizzarra circolata su alcuni giornali italiani suggerisce che la decisione di invadere sia il frutto di un patto tra le mafie russe e ucraine. Si dimentica che Putin ha messo in atto una repressione draconiana della fratellanza dei vory-v-zakone (la mafia russa). Dal 2019, chi dichiara la sua appartenenza alla fratellanza rischia dagli 8 ai 15 anni di galera. il regime ha permesso che torture sistematiche avvenissero nel sistema carcerario. Le vittime sono esponenti del mondo criminale e dissidenti politici. Come altri dittatori, anche Putin non ammette che esista un potere autonomo, anche se criminale. O la mafia lavora per il regime o viene distrutta[8]. […].

Tre settimane dopo il 29 marzo 2022 lo stesso Varese arriva a prevedere che:

La crisi economica manderà sul lastrico milioni di russi che diventeranno possibili vittime della criminalità oppure, in alcuni casi, manovalanza mafiosa. La situazione in Ucraina è ancora più drammatica. Diverse organizzazioni non governative e le polizie locali hanno già lanciato l’allarme sulla tratta. Uomini e donne che si fingono volontari adescano i rifugiati e offrono loro un passaggio… Che fare? Superata la fase iniziale di slancio, bisogna assicurarsi che le vittime del conflitto vengano protette … Un aspetto cruciale dell’aiuto all’Ucraina dovrà essere il controllo delle armi e della legalità durante e dopo la guerra, per impedire che negli anni a venire le mafie rialzino la testa»[9].

Intrecci e connessioni russo-ucraine coinvolgono anche i cosiddetti oligarchi come Roman Abramovich, uno degli oligarchi russi di casa a Londra tanto da essere, fra l’altro, proprietario della squadra del Chelsea, che partecipa, per espressa richiesta ucraina, al tavolo di negoziazione nella delegazione russa e che, forse per questa ragione, pare abbia subito un tentativo di avvelenamento. Tavolo orchestrato a Istanbul dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che pure ha un genero che vende agli ucraini droni che servono a eliminare i carri armati russi, e che, diplomaticamente, accomuna Volodymyr Zelenskyj e Vladimir Putin nella categoria degli “amici preziosi”.

Il Wall Street Journal ha scritto che Zelenskyj ha chiesto agli Stati Uniti di evitare sanzioni ad Abramovich (dotato di tre cittadinanze: portoghese, israeliana e russa) in quanto l’oligarca potrebbe giocare un ruolo nel facilitare i negoziati di pace con la Russia, anche in virtù delle sue origini ucraine.

Oggi, assume interesse il riferimento ad Abramovich che Putin fece il 3 marzo 2014, durante una conferenza stampa ufficiale[10] sulla situazione in Ucraina, accusando Ihor Kolomojskyj di una frode multimiliardaria ai danni dello stesso Abramovich. Kolimojskyj, ricchissimo oligarca ucraino (dotato di cittadinanza israeliana e cipriota oltre a quella ucraina) era allora governatore della regione di Dnipropetrovs’k ed è il proprietario della catena televisiva ucraina sulla quale Zelenskyj è diventato popolare come protagonista della serie Servant of the People andata in onda nel 2015.

Anche la campagna elettorale presidenziale di Zelenskyj è stata sostenuta dai media appartenenti all’oligarca ucraino, accusato, a suo tempo, di aver costruito la sua fortuna sottraendo 5,5 miliardi di dollari alla banca ucraina Privatbank, peraltro di sua stessa proprietà.

Singolarmente, il 5 marzo 2021, Kolimojskyj è stato indicato come persona non gradita negli Stati Uniti con un provvedimento firmato dal Segretario di Stato Anthony Blinken[11]:

Today, I am announcing the public designation of oligarch and former Ukrainian public official Ihor Kolomoysky due to his involvement in significant corruption. In his official capacity as a Governor of Ukraine’s Dnipropetrovsk Oblast from 2014 to 2015, Kolomoysky was involved in corrupt acts that undermined rule of law and the Ukrainian public’s faith in their government’s democratic institutions and public processes, including using his political influence and official power for his personal benefit. While this designation is based on acts during his time in office, I also want to express concern about Kolomoysky’s current and ongoing efforts to undermine Ukraine’s democratic processes and institutions, which pose a serious threat to its future.[12].

Conclusioni. Multiverso cognitivo e fine della deterrenza nucleare

Non ci sono parole più chiare di quelle di Paolo Giordano[13] per esplicitare le novità che gli eventi dell’Ucraina ci consegnano sulla deterrenza nucleare e  dell’informazione:

«Sembra che nessuno abbia il coraggio di dire che l’invasione dell’Ucraina rappresenta il fallimento della pace basata sulla deterrenza nucleare […] Il principio della deterrenza ha funzionato per quasi ottant’anni, e ottant’anni sono un tempo breve o lungo a seconda di come lo si guarda. Ma il principio della deterrenza ha sempre funzionato “fino a prova contraria”. Ora la prova contraria è arrivata, e si chiama Ucraina. […] Da garanzia di pace, la deterrenza è quindi diventata il suo opposto: garanzia di impunità, di diritto all’aggressione, nonché della nostra impotenza al riguardo.

Ma esiste anche un’altra forma di deterrenza in cui credevamo, e che fallisce oggi, sempre in Ucraina: quella dell’informazione. L’idea, forse ingenua eppure presente in molti di noi, che sotto i riflettori accesi non si potessero commettere determinate atrocità. L’idea che lo sguardo della comunità internazionale avesse un potere dissuasivo rispetto alle ambizioni sfrenate dei singoli, perché siamo tutti legati, quanto meno da interessi economici. “Il mondo sta guardando” è un avvertimento che ci ha rassicurato a lungo, implicitamente, proprio come la “pace nucleare”. […]

Allora come si spiega Bucha? Si spiega, forse, con la consapevolezza nuova che non esiste nessun mondo che guarda. Esistono invece più mondi, almeno due, nei quali la realtà è addirittura speculare. E in uno di questi mondi, non ha alcuna importanza che gli altri stiano guardando o meno, che sappiano. Essere sotto i riflettori accesi non è più una salvezza per nessuno. Se avevamo creduto in un mondo ormai unificato, almeno dalla tecnologia, be’, ci eravamo illusi».

Questa duplicazione e moltiplicazione degli ambienti cognitivi è resa possibile, da un lato, dalla limitazione di accesso alle fonti informative, dall’altro, dalla loro infinita moltiplicazione, imitazione e falsificazione.  Mutuando il termine multiverso, che designa l’ipotesi formulata dai fisici sugli universi paralleli, potremmo dire che dall’universo informazionale, o infosfera, si originano visioni della realtà, approcci e narrazioni parallele che configurano un multiverso informazionale e cognitivo, che è l’insieme di universi coesistenti, poco o nulla comunicanti fra loro.

Di questi universi paralleli della conoscenza, dell’importanza di questo multiverso info-comunicazionale sulla democrazia, sulla geopolitica e, senza averlo immaginato così drammaticamente fino a poche settimane fa, sulla guerra, dovremo occuparci all’interno dell’Associazione Infocivica e attraverso le colonne di Democrazia futura.

Leggi anche la prima parte https://www.key4biz.it/democrazia-futura-a-100-secondi-dalla-mezzanotte-nucleare/399253/

Note al testo

  • “Le esportazioni della Russia, la scheda dei settori messi in crisi dalle sanzioni”, RaiNews, 9 marzo 2022; https://tinyurl.com/bdf5fjjr.
  • Gianluca Di Feo, “Le armi dell’invasione”, La Repubblica, 25 febbraio 2022.

 Cfr. https://www.repubblica.it/esteri/2022/02/25/news/le_armi_dellinvasione-339229683/

  • Federico Fubini, “Kasparov: L’Occidente ignora la Storia, Putin è pronto a tutto”, Corriere della Sera, 22 gennaio 2022
  • Giovanni Egidio, “Prodi: «Putin ha bisogno di venderci il suo metano. Bloccandolo si suiciderebbe»”, La Repubblica, 4 aprile 2022
  • Roberto Saviano, “Le mafie gemelle e i soldi con il gas”, Il Corriere della Sera, 28 febbraio 2022.
  • Tr. It. “Oggi annuncio la designazione pubblica dell’oligarca ed ex funzionario pubblico ucraino Ihor Kolomojskyj a causa del suo coinvolgimento in una significativa corruzione. Nella sua qualità ufficiale di governatore dell’oblast di Dnipropetrovsk in Ucraina dal 2014 al 2015, Kolomojskyj è stato coinvolto in atti di corruzione che hanno minato stato di diritto e la fiducia del pubblico ucraino nelle istituzioni democratiche e nei processi pubblici del proprio governo, compreso l’uso della sua influenza politica e del potere ufficiale a proprio vantaggio. Sebbene questa designazione sia basata su atti durante il suo mandato, desidero anche esprimere preoccupazione per gli sforzi attuali e in corso di Kolomojskyj per minare i processi e le istituzioni democratiche dell’Ucraina, che rappresentano una seria minaccia per il suo futuro”.
  • Paolo Giordano, “Oltre la nebbia”, Il Corriere della Sera, 5 aprile 2022.

  • “Le esportazioni della Russia, la scheda dei settori messi in crisi dalle sanzioni”, RaiNews, 9 marzo 2022; https://tinyurl.com/bdf5fjjr.

 

  • Federico Fubini, “Kasparov: L’Occidente ignora la Storia, Putin è pronto a tutto”, Corriere della Sera, 22 gennaio 2022

 

  • Giovanni Egidio, “Prodi: «Putin ha bisogno di venderci il suo metano. Bloccandolo si suiciderebbe»”, La Repubblica, 4 aprile 2022

 

  • Roberto Saviano, “Le mafie gemelle e i soldi con il gas”, Il Corriere della Sera, 28 febbraio 2022

 

 

 

 

  • Tr. It. “Oggi annuncio la designazione pubblica dell’oligarca ed ex funzionario pubblico ucraino Ihor Kolomojskyj a causa del suo coinvolgimento in una significativa corruzione. Nella sua qualità ufficiale di governatore dell’oblast di Dnipropetrovsk in Ucraina dal 2014 al 2015, Kolomojskyj è stato coinvolto in atti di corruzione che hanno minato stato di diritto e la fiducia del pubblico ucraino nelle istituzioni democratiche e nei processi pubblici del proprio governo, compreso l’uso della sua influenza politica e del potere ufficiale a proprio vantaggio. Sebbene questa designazione sia basata su atti durante il suo mandato, desidero anche esprimere preoccupazione per gli sforzi attuali e in corso di Kolomojskyj per minare i processi e le istituzioni democratiche dell’Ucraina, che rappresentano una seria minaccia per il suo futuro”.

 

  • Paolo Giordano, “Oltre la nebbia”, Corriere della Sera, 5 aprile 2022

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