L'intervista

Democrazia Futura. La lezione di Marc Ferro: le Annales e il rinnovamento storiografico

di Serge Cosseron, storico della Germania, editore di saggi e riviste - Bruno Somalvico, storico dei media, Direttore editoriale di Democrazia futura |

Democrazia futura propone oggi ad un anno dalla sua scomparsa due interviste realizzate negli anni Ottanta da Bruno Somalvico e Serge Cosseron allo storico francese Marc Ferro, all'epoca condirettore della celebre rivista Les Annales.

Bruno Somalvico

Democrazia futura propone oggi ad un anno dalla sua scomparsa due interviste realizzate negli anni Ottanta da Bruno Somalvico e Serge Cosseron allo storico francese Marc Ferro, all’epoca condirettore della celebre rivista Les Annales fondata a Strasburgo da Marc Bloch e Lucien Febvre, e poi a lungo diretta da Fernand Braudel. In quegli anni era esplosa la cosiddetta “Nouvelle histoire” che rompendo con la storiografia tradizionale esplorava nuovi territori e campi di indagine ricorrendo anche all’uso di nuove fonti, tra cui il cinema e la televisione.

Serge Cosseron

Per molti anni Ferro produrrà poi per la rete culturale franco tedesca Arte Histoire Parallèle analizzando i cinegiornali trasmessi nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel Novecento sino agli anni Settanta. Ma anche i cinedocumentari e le fiction dei primi decenni di quel secolo. Grazie alle immagini cercherà di sfatare alcune leggende storiografiche sulla Rivoluzione russa e sul mondo sovietico che conosceva bene e frequentava regolarmente.

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Un anno fa nell’aprile 2021, per i postumi del Corona Virus scompariva a 96 anni (era nato nel 1924) uno dei miei professori all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi, Marc Ferro, all’epoca condirettore delle Annales, la rivista fondata alla fine degli anni Venti a Strasburgo da Marc Bloch e Lucien Febvre alla quale avevo dedicato insieme a Serge Cosseron, il mio primo ciclo di trasmissioni radiofoniche da Parigi dedicato agli esponenti della cosiddetta Nouvelle Histoire francese.

Nei prossimi numeri di Democrazia futura ricorderemo questa stagione ritornando sulla figura di questi storici del secondo Novecento francese. Per ora mi limito a ripubblicare queste due prime interviste a Marc Ferro.

Marc Ferro

L’una realizzata nel marzo 1980 per la Radio della Svizzera italiana sulla storia delle Annales, l’altra per il Corriere del Ticino nel giugno 1980 dedicata ad un piccolo saggio di Ferro che raccoglieva il seminario al quale avevo assistito nel suo seminario nell’anno accademico 1978-1979 dedicato all’esperienza dei Soviet durante le due rivoluzioni russe del 1917 e alla formazione di quello che definisce come “comunismo burocratico” con l’obiettivo di sfatare tre leggende. 

1 Le Annales, e la critica della storia “évenementielle”[1] 

Serge Cosseron. Marc Ferro, Lei è uno storico contemporaneo e se non mi sbaglio si è sempre occupato dell’analisi e dello studio di fenomeni del Novecento. Pur essendo da due decenni condirettore delle Annales, come specialista dell’avvenimento, della prima guerra mondiale o della rivoluzione russa, appare un po’ “esterno” alle problematiche storiche degli attuali annalisti. Come risente dall’interno della rivista di questa singolare condizione? Quando nacquero le Annales a Strasburgo lei aveva solo cinque anni E’ giusto considerarla uno storico della terza generazione delle Annales, rispetto a quella di Marc Bloch e Lucien Febvre nel 1929, e a quella di Fernand Braudel nel dopoguerra?

Marc Ferro. E’ corretto parlare di terza generazione, ma nel senso che quel che ho potuto fare si trova un po’ all’incrocio fra l’insegnamento tradizionale di Pierre Renouvin e quello rivoluzionario di Fernand Braudel. All’inizio mi trovavo a metà strada nel senso che come specialista di storia contemporanea e come tale apparentemente non rientravo in quel campo che le Annales dell’epoca ritenevano essere quello della storia-Annales. Studiavo allora un avvenimento, ha fatto bene a ricordarlo, la guerra del 1914-‘18 o la Rivoluzione Russa appunto, e apparivo dunque a Braudel in una certa misura come un elemento estraneo per la scelta degli oggetti di ricerca, però al tempo stesso ere assolutamente integrato grazie alla mia visione diremmo oggi multidimensionale dei problemi. Grazie alle tecniche che sin da allora avevo utilizzato e all’uso di tutta una serie di documenti particolari, ho potuto fare una storia, vista dal basso. Non una storia dall’alto.

Per quanto riguarda la Rivoluzione Russa, non ho fatto il solito studio basato sulla tesi di Lenin, di Trotski o di Zinoviev, ma un lavoro partendo da un gran numero di archivi che erano emanazione degli operai stessi, dei contadini, dei soldati, degli studenti eccetera. Una storia dal basso.

D’altra parte ho fatto uno studio dell’immagine presente nei cine-documentari e nelle opere cinematografiche ambientate all’epoca della rivoluzione che mi ha permesso di confrontare Il messaggio dell’immagine con il discorso dei dirigenti e con quello dei cittadini.

Avevo insomma un metodo di approccio che era completamente nello spirito della rivista, sebbene l’argomento delle mie ricerche, un avvenimento di breve durata, apparentemente non lo fosse. Detto questo, vorrei aggiungere, avendo lavorato più di dieci anni con Braudel, che il peso del suo Insegnamento e della sua personalità hanno enormemente influito su di me: sono stato in questo modo “sospinto”, se così posso esprimermi, nel campo della storia problematica, abbandonando quello della semplice storia degli avvenimenti.

La storia è saltata in aria, come sostiene lo storico del presente Pierre Nora?

Serge Cosseron. Fra le Annales del decennio precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale e quelle di oggi Lei vede continuità, discontinuità, momenti di rottura o altro? Che cosa è cambiato sul piano metodologico? Quale elemento, quale spirito ha tenuto insieme questo gruppo di storici così diversi? E’ vero che la storia è saltata in aria?

Marc Ferro. Penso che la continuità provenga da quello che è stato l’obiettivo principale degli storici annalisti e cioè quello di erigere la storia a scienza naturale, a oggetto scientifico. Allo stesso modo in cui i medici hanno classificato le malattie per curare i loro pazienti, gli storici delle Annales hanno creato una tipologia dei problemi storici, che è stata in un certo senso, la nuova sostanza, il nuovo oggetto della storia. Questo nuovo oggetto, attraverso nuovi metodi, provenienti dalla sociologia, dalla demografia, o dalla statistica. E’ stato lo studio delle correlazioni, delle curve, dei grafici, eccetera, e anche dei modelli che costituiscono proprio l’essenza della sociologia, della demografia o della statistica. Sono stati così istituiti nuovi campi, nuovi oggetti di indagine storica.

In questo modo, quando Pierre Goubert ha studiato la regione del “Beauvasis” e ha confrontato tutti gli elementi della regione con i grafici e le curve demografiche della storia della stessa regione, egli ha scoperto un nuovo riferimento pertinente alla storia del “Beauvasis” che era anche un riferimento scientifico ai mutamenti della popolazione. Emmanuel Le Roy-Ladurie per fare un altro esempio, ha scoperto una “referenza” materiale confrontando i problemi dei dati demografici.

Per riassumere, un po’ allo stesso modo in cui i medici del diciannovesimo secolo, come Claude Bernard, facevano delle esperienze che permettevano loro di scoprire come tale prodotto causa tale malattia o come tale medicinale permette al contrario di sanare, di curare tale malattia, allo stesso modo gli storici della scuola delle Annales hanno tentato di delineare le cause specifiche d’un certo numero di fenomeni, attraverso una nuova metodologia di tipo sperimentale. E’ in questo che le Annales da sempre hanno continuato sulla stessa strada, quella che vuol fare della storia una scienza.

L’affermazione di Pierre Nora secondo il quale “l’histoire a éclaté“, la storia è saltata in aria, si è frantumata, è sì un’affermazione innovatrice e interessante in quanto mette in evidenza un certo fenomeno, ma non corrisponde alla realtà. In realtà non è vero che la storia sia saltata in aria, ma è venuta meno la centralità dell’avvenimento e i problemi che costituiscono attualmente la sostanza della storia sono oggigiorno divenuti oggetto e argomento dello studio scientifico della nostra disciplina; un po’ allo stesso modo in cui la medicina non è saltata in aria sotto il pretesto che vi sono degli specialisti del fegato da un lato, mentre invece quelli del sangue sono altrove.

Che il corpo umano sia stato scomposto in vari elementi che sono a loro volta diventati delle specializzazioni, è vero. Ciò non significa però che la medicina sia saltata in aria. Si è trattato di un percorso che la storia ha ugualmente seguito, con la sola differenza che ad oggi [1980 ndr] forse esiste solamente l’opera di Braudel, che abbia reintegrato tutti gli apporti delle varie discipline e che offra in questo modo una visione globale dei fenomeni. E durante questo lungo percorso che potremmo chiamare il deserto, in un certo senso, ogni strada, ogni pista della storia assume il suo proprio tragitto. Da qui l’impressione di uno scoppio e di una sua frantumazione.

La storia contemporanea alle prese con la “lunga durata” e la “storia immobile”

Bruno Somalvico. Parliamo un po’ della storia immobile e della lunga durata. Sinora la storia delle Annales è stata applicata prevalentemente a quel campo temporale che in Francia è rappresentato essenzialmente dalla storia moderna, vale a dire una storia che prepara la rottura rappresentata dalla Rivoluzione Francese. Dal momento che gli annalisti non hanno finora preso in considerazione, salvo eccezioni, l’Ottocento, e lo sviluppo della società capitalista e delle contraddizioni fra i vari movimenti, fra le diverse spinte, e i diversi strati sociali che ne derivano, non Le pare che abbiamo a che fare con elementi, la storia immobile e la lunga durata che al limite possono essere giudicati più ideologici che concettuali e scientifici?

Marc Ferro. E’ certo che il privilegio accordato dalle Annales alla lunga durata era un premio alle società immobili, poiché la lunga durata privilegia per definizione, quei periodi durante i quali non vi sono stati cambiamenti drastici. Dunque tende a far apparire il cambiamento o la volontà di cambiare, le rivoluzioni, le guerre eccetera, come avvenimenti secondari, non essenziali. L’errore di quest’atteggiamento è stato lo svalutare la storia contemporanea, che è un periodo di cambiamenti molteplici, rapidi e di ogni sorta.

Dunque, che ci sia stata in maniera latente un’ideologia conservatrice, conservativa, dietro al lavoro di base delle Annales, non bisogna forse escluderlo, anche se non era certamente l’obiettivo dei fondatori della rivista, ma è stato effettivamente un po’ così. Penso proprio che uno dei miei rimpianti è costituito dal fatto che al rifiuto della storia contemporanea in un certo senso si aggiunge questo “sentimento” della storia immobile che fa della rivista uno spazio che privilegia una storia nella quale non vi sono cambiamenti, in cui non esiste più un movimento se non addirittura la volontà umana nel fondo delle cose.

E qui è intervenuta la psicanalisi per aggiungere altro, dal momento che la sola volta in cui l’uomo interviene come agente, essa ci dimostra che si trattava del suo inconscio, eccetera. Ciò ha contato molto ma mi mette estremamente a disagio, ma non solo: direi che andava contro alcune mie concezioni e mie certezze che guardavano piuttosto nella direzione di una storia genealogica che cercava nel presente il risultato della stratificazione dei problemi attraverso i tempi.

Personalmente sogno la fine della suddivisione della storia in settori come la storia antica, la storia medievale, quella moderna e quella contemporanea. Ciò mi pare contrario allo spirito stesso delle Annales.

Serge Cosseron. La Sua risposta Marc Ferro mostra da una parte come la rivista non abbia mai voluto imporre in modo categorico le tesi di Fernand Braudel, sulle quali, soprattutto da parte d’uno storico del politico e del contemporaneo, possono anzi essere espresse parecchie riserve, mostrando i pericoli a cui andrebbe incontro una storia che osserva rigidamente tali principi. In realtà storia immobile e storia contemporanea, messe insieme, appaiono un controsenso. In cosa è consistito allora lo spirito delle Annales su questi problemi?

Marc Ferro. Lo spirito delle Annales consiste nello studiare un problema di oggi e trovare le radici di questo problema risalendo nel passato, seguendo gli elementi del problema vicini e lontani nel tempo. Consideriamo gli attuali problemi dei contadini nella Francia Occidentale. Alcuni dati risalgono al piano Marshall, altri alla seconda guerra mondiale, altri alla prima guerra mondiale, altri ancora alla Rivoluzione francese, altri sono invece strutturali o ancora più lontani nel tempo.

Ecco dunque come si deve scrivere la storia contemporanea non chiamandola più storia contemporanea ma associandola a stagioni procedenti. Ciò significa superare una certa spiegazione del presente sulla base del passato integrando il passato, senza però fare di esso ogni volta una storia completa. Destrutturando la storia, per giungere così all’analisi dei problemi del nostro tempo. Cosa che Braudel aveva sempre sognato di fare.

Questa maniera di considerare i problemi del presente, che troviamo nella prima serie delle Annales non è purtroppo in seguito stata perfezionata né tanto meno ripetuta.

Ma questo è legato all’istituzione storica. Che mantiene una visione dominante del tutto superata.

Quando mi si chiede un libro, mi si domanda un lavoro sulla guerra del 14-18 o su quella del 1940, non mi al chiede un libro sulla situazione del mondo attuale, a partire dalla quale stabilire le responsabilità che hanno avuto queste due guerre.

Il fatto è che, nonostante tutto, abbiamo ancora una visione dominante della storia che divide la storia in branchie, in settori, e che fa sì che la storia sia lo studio del passato mentre Invece per le Annales la storia non è lo studio del passato, ma anche la storia del passato come agente dei fenomeni del presente.

La rottura della nuova storiografia francese con lo storicismo e con la vecchia storiografia istituzionale dominante

Bruno Somalvico. In che misura vi è rottura con lo storicismo tedesco e durckheimiano?

Marc Ferro: La vecchia storia storicistica era una storia non selettiva, era una storia che mirava alla completezza.

Quando si studiava il regno di Luigi Quattordicesimo lo si studiava dal 1660 al 1715 con i suoi tre o quattro periodi, punto e basta. Successivamente dopo il regno di Luigi Quindicesimo se non vi erano i re, andavano trattate le coalizioni, se non c’erano le coalizioni occorreva esaminare altri problemi. Ma questa storiografica tradizionale non selezionava all’interno dello svolgimento storico i momenti o i tratti, o ancora i fenomeni che permettevano di giungere ad una spiegazione o a una dimostrazione. Doveva essere una storia completa, altrimenti si commetteva quel che si chiama un peccato di omissione.

Al contrario la storiografia contemporanea auspicata da Marc Bloch e Lucien Febvre è una storia e lo svizzero Albert Minder lo ha dimostrato molto bene per la Germania, che prende nel passato gli elementi di cui su ha bisogno avvicinando e confrontando certi problemi o certi periodi.

L’argomento scelto da un nuovo storico è l’analisi di un determinato problema, mentre in precedenza si proponeva di affrontare l’analisi di un regno o di un governo, secondo la visione politica tradizionale delle cose.

Dunque dal momento in cui diventa un problema, ovvero diventa un nuovo oggetto di inchiesta per lo storico, la visione del passato muta poiché fra gli avvenimenti del passato vengono selezionati solo coloro che permettono di comprendere l’evoluzione.

E’ questa la differenza fra la storia positivista di tipo classico e la storia non positivista dell’epoca di Lucien Febvre per quel che riguardava la storiografia contemporanea.

La critica della histoire évenementielle per chi si occupa di analizzare fenomeni ed eventi contemporanei

Bruno Somalvico. Nuovi compiti, nuove funzioni si pongono dunque allo storico, soprattutto a colui che si occupa dei fenomeni e degli avvenimenti politici contemporanei, come nel suo caso. La storia degli avvenimenti viene dunque messa in discussione dalle Annales sin dagli anni Trenta; la vecchia storia politica subisce sin da allora un violento attacco da parte degli storici annalisti. Come possiamo allora situare allora un avvenimento seguendo questo nuovo approccio?

Marc Ferro. Penso un tempo la storia era la cronaca dei progressi di uno Stato, era una sequela cronologica di avvenimenti e d’altro; questi avvenimenti erano sempre avvenimenti politici, definiti a loro volta attraverso le fonti che venivano allora utilizzate, a cominciare dai discorsi dei diplomatici e dei Capi di Stato. L’avvenimento si identificava con la visione che Stato e istituzioni avevano di quel che risulta importante nelle scelte della loro propria dinamica interna.

Di fronte a questo abuso, che costituiva una completa confusione fra l’avvenimento e l’avvenimento politico, e che derivava in ultima analisi dalla storia della storia, che era la storia dei principi, la cronaca dei re, dei governi o delle nazioni, la cronaca della istanza di potere, più tardi la cronaca dei congressi socialisti, ebbene a partire da questa visione della storia, la cosiddetta histoire événementielle non si perfezionava se non selezionando ulteriormente le componenti dell’avvenimento.

E’ contro questa storia che privilegiava la politica che le Annales si sono rivoltate.

Ciò detto, a mio parere, l’avvenimento è il contrario del quotidiano, e cioè quel che rompe con la quotidianità su un qualsiasi campo culturale.

Si tratti del politico, si tratti del sociale, si tratti dell’economico o di altro, lo storico non è che non deve studiare l’avvenimento. Al contrario. Ma deva vedere negli avvenimenti diciamo la “destrutturazione” di quel che era alla vigilia il quotidiano.

Mi spiego: quando studiai la rivoluzione russa, che è scoppiato un bel giorno il 25 febbraio 1917 ed è durata fino al 25 ottobre 1917, so considero questo periodo preciso come un avvenimento, in quei giorni i contadini espongono la loro rivendicazioni contro i proprietari ed enumerano un certo numero di richiesta precise, esigono un certo numero di riforme, un certo numero di cambiamenti. Ebbene tutto quel che enumerano e di cui vogliono la fine è il quotidiano, ciò che precede l’avvenimento, ossia il fatto di avere osato dirlo e aver portato a compimento una rivoluzione.

La rivoluzione rivela però lo statuto dei contadini sotto lo zarismo. A sua volta, essa mette in luce le condizioni degli operai nelle fabbriche dello zar.

Non bisogna pertanto rifiutare in blocco l’avvenimento: esso è infatti rivelatore di una struttura.

Non si deve ignorarlo dunque l’avvenimento. E’ un certo tipo di storia che si sarebbe accontentata di fare la cronaca degli avvenimenti della rivoluzione dal 23 febbraio al 25 ottobre del 1917, che va invece condannata.

Si tratta di esplorare una storia che nella rivoluzione del 1917 o nella grande guerra o in altri avvenimenti cerca al contrario il risultato di un certo numero di fenomeni quotidiani che si ripetono, ebbene questa storia nessuno la deve condannare, né tantomeno lo possono fare le Annales.

Per una storia dal basso della vita materiale. Le critiche di Ruggiero Romano alle Annales

Serge Cosseron. Marc Ferro, Lei prima parlando dei suoi lavori ha detto di voler fare una storia vista dal basso che restituisca la parola a una vasta gamma di soggetti sociali e civili. Orbene questo non le sembra un po’ in contraddizione con la scelta dei campi e degli strumenti adottati dalle Annales? Cosa ne pensa di questa critica formulata da Ruggiero Romano

Marc Ferro. Certamente – su questa sono completamente d’accordo con Romano – il privilegio accordato a questo tipo di oggetti trans sociali, a questo tipo di studi, ha avuto come funzione di non dare la parola a tutti gli elementi della storia, a tutte quelle forze storiche che miravano al cambiamento. Anche in questo caso la scelta degli oggetti materiali, come a monte la scelta dei prezzi e quella dei fitti, o in precedenza altre scelte sommate insieme, fanno sì che la bilancia abbia pesato dalla parte di una storia che precisamente non dava più la parola a coloro che provenivano da in basso. D’altra parte in questo confronto di discorsi che è perfettamente nella linea della Annales, vi è stato un uso spropositato nei generi e nelle pratiche. Ma l’accusa a mio avviso non è legittima . Vorrei aggiungere qualcosa per quanto riguarda la vita materiale. E’ certo che la moltiplicazione degli studi sulla vita materiale potrebbe a posteriori passare a torto come una maniera per fuggire i problemi sociali, ideologici. Eccetera. Penso che avrebbe potuto essere cosi, ma all’origine, non sarebbe nemmeno stato questo, poiché quale è l’origine della storia materiale?

Occorre trattare i problemi anche storicamente, occorre vedere anche che la storia della vita materiale è nata quando i polacchi la hanno inventata e i polacchi la hanno inventata all’indomani della Seconda guerra mondiale poiché tedeschi e sovietici avevano distrutto tutte le fonti della cultura polacca: biblioteche; monumenti eccetera. Per meglio poter negare alla Polonia il diritto ad essere in Posnania o in Galizia.

I polacchi pertanto per legittimare il loro diritto a vivere sul loro proprio suolo hanno dovuto trovare nel suolo e nella cultura materiale una nuova strategia storica, nuovi materiali che permettessero di definire la loro nazione.

Detto in altri termini, la vita materiale è apparsa come uno strumento per tenere un discorso storico un po’ più innovativo capace di tener testa e di controbattere ai discorsi ideologici che affermano che poiché non vi sono più fonti scritte, non vi sono più tecniche, non vi è più storia, dunque non vi esiste più una nazione [un tema tornato di attualità aggiunge l’intervistatore con il revisionismo storiografico di Putin a rivendicazione dell’invasione dell’Ucraina]

E’ dunque su questa pista che la vita materiale, come lavoro si è sviluppata nella scuola delle Annales, come un nuovo metodo un po’ come in medicina quando ci si è messi a studiare il sangue, in un certo modo questo non aveva dietro di se l’idea di sostituirsi ad una storia dal basso, si trattava di una metodologia storica che presentava dei frutti estremamente ricchi e saporiti. Penso sia dunque necessario risituare un po’ le cose al loro posto.

Cinema e storia. Un nuovo terreno di indagine e di riflessione

Bruno Somalvico. Ci può raccontare come Lei è approdato alla scoperta del cinema e del film come fonte e come campo di indagine per la storia?

Marc Ferro. All’inizio il cinema è stato una semplice circostanza. Mi avevano chiesto di fare alcuni film storici, ovvero di scrivere la storia con delle immagini anziché con delle parole. E’ dunque in veste di sceneggiatore e regista, ossia di “réalisateur de film” che ho iniziato a frequentare l’universo delle immagini. Non nutrivo nessun a priori teorico. L’a priori era piuttosto di natura metodologica. Come maneggiare sotto forma di un film una tematica come Lenin, la guerra del 1914, la decolonizzazione o altri ancora. Non vi è dunque un problema di analisi storica, bensì un problema di scrittura, il che è totalmente diverso. Cosi sono andate in un primo tempo le cose. Poi, a furia di consultare archivi, vedere film e documentari storici, poi anche lungometraggi di fiction, molto rapidamente ho capito che essi creavano una totale rimessa in causa del mestiere dello storico, poiché i discorsi sulle immagini non erano innocenti. I film documentari, i documenti – per non parlare delle opere di fiction mi hanno rivelato di alcuni fenomeni storico un’interpretazione qui non aveva nessun punto in comune con le analisi storiche tradizionali.

Serge Cosseron. Ci faccia un esempio concreto ?

Marc Ferro. Gliene potrei citare moltissimi.

E’ chiaro che i documenti sulla prima guerra mondiale rivelavano molto chiaramente come la problematica dei combattenti fosse molto grave. I soldati al fronte lungo le trincee esprimevano sui propri visi, sulle proprie facce lo scontento. Cosi appariva il loro comportamento quando giungevano in licenza ad una stazione, a Parigi, a Roma, a Berlino o a San Pietroburgo. Esprimevano sulle loro facce sgomento osservando la vita in città che andava avanti, mentre loro crepavano pendant in trincea.

Ho capito come l’antagonismo fra le retroguardie e i combattenti fosse un problema fondamentale che nessun libro sulla guerre del 1914 aveva ancora evocato e come tale antagonismo fra le retroguardie e i combattenti spiegasse in parte il comportamento poi tenuto dai fascisti che, contrariamente a quanto raccontava una leggenda sui conflitti fra soldati e ufficiali e sugli ammutinamenti, aveva agito in modo tale che, all’epoca del fascismo, in Germania, in Italia e in Francia, soldati e ufficiali, in quanto ex combattenti, fossero solidali nel manifestare contro i politici, contro le retroguardie, contro i civili, eccetera.

Sono quindi le immagini a rivelare d’un tratto come nel 1914 i tre quarti degli ufficiali fossero partiti felici sul fronte, in un clima di festa e come, sebbene migliaia di lettere testimoniassero come sia le ragazze e le mogli sia i padri fossero dispiaciuti di dover partire, apparentemente, i loro visi testimoniavano il contrario, e la controprova che l’immagine sia rivelatrice ce la offrono le medesime immagini nel 1939 qui mostrano i militi francesi in partenza al fronte salire sui treni singhiozzando pieni di disperazione, e si capisce perfettamente come i francesi nel 1939 non volessero affatto andare in guerra. Sentivano intorno la morte, avevano paura, non volevano andare al fronte, disillusi, dopo la stagione di speranze del Fronte Popolare.

Dunque l’immagine di un cine documentario rivela alcuni fenomeni massicci che appaiono improvvisamente dieci volte più importanti degli argomenti di discussione che gli storici, positivisti o no, avevano introdotto sulle pretese varie fasi della guerra del 1914, sui vari tipi di battaglie, sui conflitti nel comando delle operazioni fra Joseph Joffre e Ferdinand Foch.

Tali problemi apparivano subito del tutto derisori, di fronte ad alcune realtà che scaturivano dalla consultazione delle immagini.

Soprattutto la consultazione delle immagini consente di mostrare sotto un’altra angolatura la Rivoluzione Russa del 1917.

In questo caso vi è stata una piccola rivoluzione storiografica, se mi si consente questa espressione. Ho scoperto che la rivoluzione del 1917 è stata fatta nelle strade dai soldati e non dagli operai, mentre quando si leggono i testi sacri di Lenin, di Trotzky, eccetera.

Abbiamo avuto l’impressione che le manifestazioni nelle strade, fossero opera sempre degli operai e dei soldati. E invece le immagini ci hanno mostrato che vi erano solo i soldati. Ho quindi cercato di riflettere, di verificare le immagini con altre fonti e mi sono accorto che effettivamente gli operai non manifestavano, in quanto essi portavano a termine la rivoluzione occupando le fabbriche, facendo l’autogestione, ovvero gestendole, il che è ben diverso da quanto ci indicavano i testi sacri. Avevano pur tuttavia un comportamento rivoluzionario, ma un comportamento che tradizione bolscevica non poteva spiegare, in quanto un riconoscimento del loro ruolo avrebbe voluto dire che loro erano stati antipopolari avendo poi soppresso l’autogestione delle fabbriche come effettivamente fecero nel 1919.

Ciò avrebbe rivelato che la rivoluzione è stata compiuta dai soldati qui erano per lo più considerati vicini ai socialisti rivoluzionari, i cosiddetti SR, e non ai bolscevichi che poi li liquidarono.

Dunque i bolscevichi non avevano nessuna legittimità a prendere il potere nell’Ottobre del 1917. La tradizione scritta ha trovato un sistema di rappresentazione degli avvenimenti che nascondeva come tale la verità, anche quando la verità era rivoluzionaria. Ma si trattava di una contro-verità.

Le immagini hanno completamente rovesciato l’idea che ci si faceva del funzionamento della rivoluzione.

E’ quanto ho visto e poi dimostrato nel 1970 in un articolo apparso nelle Annales sul tema del film come fonte storica, e da allora ciò costituisce un fatto definitivamente acquisito e che prova, dimostra il valore corrosivo delle immagini come contro-analisi della società.

Questo è stato il film documentario, e insieme ad esso vi sono anche i film de fiction che per l’immaginario costituiscono una ricchezza inestimabile.

Ben inteso, nello stesso tempo ciò ha permesso di mettere in causa la prospettiva tradizionale di utilizzo delle fonti della storia, di questi tipi di informazione che in fin dei conti appaiono sempre come informazioni appartenenti a coloro che dirigono le società?

Che siano testi giuridici o politici dell’epoca tradizionale o cifre e numeri forniti dall’Ecole des Annales, essi esercitano la medesima funzione – le cifre, che si tratti di affitti, statistiche sul consumo di grano o altre, a partire dal momento in cui il Capitalismo prende in mano la società, mentre in precedenza erano le istituzioni feudali, la società gerarchica o lo Stato, la Monarchie.

L’immagine appare come un mezzo per introdurre una nuova dimensione alla storia, l’immaginario, e per mettere in discussione la natura stessa delle fonti che erano esaminate in quanto tali, che non venivano criticate come tali. Per quanto mi riguarda, il mio lavoro è consistito nel criticare i sistemi di utilizzo delle fonti degli storici, grazie all’immagine.

Improvvisamente altri da allora mi hanno seguito, fra cui Jacques Le Goff, che aveva iniziato contemporaneamente a me studiando il significato dei gesti, e negli anni settanta è poi anche apparsa la storia orale.


Serge Cosseron. Lei in qualche modo ha riabilitato nella storia i discorsi mentre la storia li aveva in qualche modo contestati sotto il profilo quantitativo a partire dagli anni Sessanta e Settanta.

Marc Ferro. Non ho riabilitato la storia dei discorsi, si tratta invece della restaurazione del diritto dell’individuo ad enunciare la propria storia. E’ il ritorno al soggetto, al protagonista, non il ritorno al discorso. Ciò significa che la parola del carpentiere di Carpentrars[2]  è dotata finalmente del medesimo peso storico di un qualsiasi decreto sul carpentiere di Carpentrars. In questo è radicalmente diversa.

La triplice funzione della storia

Serge Cosseron. Da qui – se non mi sbaglio – il Suo invito a favore di una “storia terapeutica”. Ma qual’è stata, Marc Ferro la funzione della storia, negli anni Ottanta?

Marc Ferro. Penso che la storia abbia tre funzioni:

1. ha una funzione militante, missionaria, solo che il segno della sua missione cambia seguendo il segno dell’ideologia (lo Stato, il monarca, la nazione, i partiti, eccetera);

2. ha d’altra parte una funzione scientista: è quella della l’Annales: la scienza costruisce un suo proprio oggetto.

Questa funzione scientista è la punta di diamante della storia. Lungi da me l’idea di condannarla. Ci vuole infatti una storia scientista – così come ci vogliono dei laboratori negli ospedali. Semplicemente non bisogna però che tutti i malati siano affidati ai laboratori. Vi sono delle malattie la cui origine è chiara; la moglie ha tradito, non hanno bambini, eccetera.

Le Annales sono un po’ il laboratorio della storia.

Ora, questo laboratorio Annales scopre un certo numero di correlazioni, e per parte mia vi ho già citato le opere di Emmanuel e Roy-Ladurie, di Pierre Goubert e di tanti altri che hanno avuto un ruolo un po’ simile a quello di un laboratorio nei confronti di una clinica. Ovvero come in laboratorio hanno fatto nuove scoperte.

Queste spiegazioni però non spiegano tutto. Allo stesso modo in cui il rapporto globuli bianchi globuli rossi non spiega tutte le malattie degli uomini, così le correlazioni fra il prezzo degli affitti e l’età del matrimonio delle vedove nell’Inghilterra del XVII secolo non spiega a sua volta tutto il capitalismo o a maggior ragione tutta la storia della società.

Penso dunque che questa storta di punta vada sviluppata. Essa però ha avuto sinora troppa la tendenza a non dare la parola ai vari soggetti che compongono la storia.

3. Ai nostri giorni la storia diventa terapeutica nella misura in cui certi gruppi sociali non vogliono più affidare agli storici la cura di parlare al loro posto, cosi come d’altra parte i cittadini non vogliono più delegare ai partiti politici la rappresentanza delle loro proprie e specifiche rivendicazioni.

E’ un po’ lo stesso fenomeno che avviene con la medicina quando i pazienti non vogliono più saperne di un medico che tiene nel loro confronti un linguaggio a loro incomprensibile. Preferiscono lo psicologo o lo psicanalista.

Serge Cosseron A chi rimane la funzione militante?

Marc Ferro. Rimane certamente allo storico. Gli resta una funzione militante, ma non al servizio dello Stato, è del partito o della Chiesa Cattolica, o del partito bolscevico, ma al servizio di una società che si realizza indipendentemente dai poteri che la opprimono.

Il che è ben differente da prima.

Serge Cosseron. Negli atteggiamenti degli storici delle Annales, nelle loro prese di posizione in pubblico negli anni ottanta – penso alle posizioni assunte da Emmanuel Le Roy-Ladurie – la funzione militante mi è sembrata per la verità tradizionale, non affatto quella a cui Lei si riferiva.

Marc Ferro. In generale – e non nel caso specifico di Le Roy-Ladurie – il problema è che vi è uno scarto tra la conseguenza ultima delle analisi che risulta necessariamente modesta e limitata dalla natura stessa dei campi di indagine ben precisi prescelti e il fatto che voi vi troviate sottoposti alle sollecitazioni dei mass media.

Cosi partendo da analisi settoriali in campi particolari nei quali siete competenti e sensibili, siete chiamati ad esprimervi su tutto e il contrario di tutto, senza che esista il sia pur minimo legame con il vostro sapere specifico.

E’ un po’ come se chiedeste ad un grande cardiologo, per il semplice fatto che lo conoscete personalmente o perché è un vostro lontano parente un’opinione sul vostro stato di salute generale, malgrado esso non abbia nulla a che fare con il parere del cardiologo. Ve lo darà come Le Roy-Ladurie quando gli si chiede un parere su argomenti lontani da quelli oggetto dei suoi studi e delle sue ricerche. Abbiamo a che fare con lo stesso meccanismo.

Bruno Somalvico. Ma che cosa deve dunque fare lo storico? forse egli deve autocancellarsi, deve scomparire dietro le quinte?

Mare Ferro. No, non deve cancellarsi più di quanto lo facciano il laboratorio o la medicina.

Lo sbaglio che lo storico ha sinora commesso Ë stato quello di essersi troppo allontanato dai movimenti sociali, dai cittadini, dalla gente, un po’ come i militanti dei partiti politici si stanno allontanando dalla popolazione. I loro discorsi rischiano così di apparire del tutto incomprensibili e senza legami con le aspirazioni della società.

Allo stesso modo esistono dei discorsi storici, dei libri scritti da storici che sono troppo lontani dai bisogni della società, dalle istanze da essa espresse, e che in questo modo finiscono col diventare articoli puramente scientifici.

Lo storico allora, questa è la sua funzione, deve innanzitutto raccogliere tutti i discorsi di coloro che non hanno mai avuto la parola. Michel Foucault l’ha già detto molto tempo fa’ e aveva ragione; deve confrontare le fonti della storia, siano esse in rapporto ad un’immagine o ad un testo scritto deve ricercare nuovi metodi di punta come hanno cercato di fare le Annales; deve riuscire ad immaginare e mettere a punto alcune spiegazioni di carattere globale, poiché di esse abbiamo maggiormente bisogno.

Non possiamo lasciare agli uomini politici o ad esempio ai biologi, il monopolio delle spiegazioni della società: dove andremmo a finire?

Rimangono dunque un sacco di funzioni. Anche la funzione militante, ma non al servizio dello stato, del partito o della Chiesa Cattolica, ma al servizio di una società che si sviluppa indipendentemente dai poteri che la opprimono.

Il che è completamente differente.

La reputazione delle Annales nella Francia e nell’Europa degli anni Ottanta

Bruno Somalvico. Le Annales godono di almeno di un’egemonia istituzionale?

Marc Ferro. No affatto, direi proprio che non ne beneficiano. Non sono certo più all’inizio degli anni Ottanta nella posizione di ghetto come lo erano nel 1946 o nel 1950. Hanno delle buone posizioni, delle roccaforti a destra e a sinistra, come all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, e dispongono anche di militanti – se così posso esprimermi, un po’ dappertutto. E soprattutto hanno questo grande peso all’estero, questo grande riconoscimento. Ciò ha il suo peso.

Leggevo in un settimanale di divulgazione storica del peso delle Annales in un articolo dedicato allo statuto di un certo numero di riviste in Francia. Le Annales vivono, sono vive e vegete, il che significa che altre riviste invece crepano, sono morte – mentre le Annales continuano a vivere nonostante gli anni. Questo settimanale divulgativo avrebbe dovuto aggiungere: Le Annales vivono sebbene vendano meno copie di Historia, ma rimangono peraltro la rivista francese più tradotta all’estero, ciò di cui ci scordiamo troppo spesso.

Le Annales hanno più lettori all’estero che in Francia. In Francia hanno vinto in un certo senso la battaglia della storia. Non v’è dubbio, però, non regnano: non dobbiamo credere che le Annales regnino incontrastate: sarebbe assolutamente falso.

Non sarebbe nemmeno auspicabile che le Annales regnassero poiché gli abusi ai quali abbiamo prima accennato rischierebbero di pervertire una certa visione della storia, e ancora una volta, scusatemi il paragone, un abuso di potere sarebbe il trionfo dei laboratori. Non vi sarebbero più pazienti, non vi sarebbe più il diritto alla parola.

Che esistano d’altra parte altre forme di storia e che le Annales si possano rigenerare a contatto con altre storiografie non è affatto un male, sebbene è vero che sono state al contrario sovente copiate.

Intellettualmente invece le Annales regnano.

Regnano anche nei mass-media ma penso per altre ragioni.

Vi sono state infatti alcune persone di grande talento fra gli storici dell’”histoire nouvelle”: i lavori di Emmanuel Le Roy-Ladurie hanno ad esempio segnato una convergenza fra la pratica delle Annales e gli interessi della gente.

Serge Cosseron. Rimane certamente ancora un bastione da conquistare quello di una storia tradizionale come quello della storia sociale operaia. Attraverso i suoi lavori come ha potuto partecipare ad essa e favorire una sua trasformazione soprattutto della scrittura ?

Marc Ferro. In primo luogo non ritengo che la storia sociale operaia sia un bastione della storia tradizionale. Nella misura in cui un certo numero di storici come Michelle Perrot, Madeleine Rébérioux o Georges Haupt hanno fatto parte di diverse correnti della storiografia contemporanea ferma restando la loro specializzazione nella storia operaia. Diciamo che rimane una certa forma di storia dei congressi che è una fonte della storia tradizionale. Ma Georges Haupt aveva trasformato questa stessa storiografia dei congressi.

Rimangono certo alcuni strascichi di questa vecchia storia quando vengono sottoposti alla mi attenzione alcuni lavori sulla nascita di tale tendenza in senso al partito operaio bulgaro so che ho a che fare con una storia ultra-tradizionale. Ma vanno coperti tutti i campi.  

Personalmente non sono un terrorista, non condanno nessuno a priori. Voglio dire che a me sembra che tutti i campi di indagine storica siano legittimi, semplicemente non bisogna farsi seppellire in un unico tipo di storia.

Per parte mia, seguendo la lezione datami da Fernand Braudel, ho sempre cercato di uscire da un singolo tema, da un dato periodo storico, e di allargare il mio orizzonte passando da una cosa all’altra. E forse coloro che studiano la storia operaia – ma non sono i soli – hanno tendenza come si dice da noi a succhiare lo stesso osso per tutta la loro vita. Credono che sviluppare significhi sempre approfondire. Ma non penso che per questo debbano subire una condanna particolare

Le Annales e le accuse dei comunisti francesi de La Nouvelle Critique

Bruno Somalvico. E in Italia? C’è possibilità di sviluppo di una storiografia annalista?

Marc Ferro In Italia è sicuro la storia è rimasta sino ad oggi [1980 n.d.r.] molto tradizionale poiché essa è essenzialmente uno strumento della politica. E’ uno strumento della politica e in una certa maniera è il prolungamento delle organizzazioni politiche.

Noi invece, in Francia, un po’ grazie alle Annales, siamo almeno in parte sfuggiti a questo: da qui il nostro conflitto con i comunisti, che ho potuto ben constatare all’interno della rivista. Come situare il conflitto che si è prodotto con gli storici comunisti?

Non si è trattato di problemi legati alle singole persone. Personalmente, quando Fernand Braudel mi ha affidato le Annales, ho fatto entrare alcuni storici comunisti nella rivista, mentre sino ad allora non avevano collaborato, avendo a lngo qualificato le Annales di rivista americana – era l’epoca della guerra fredda – che attingeva capitali esteri, prendendo pretesto dal fatto che aveva ricevuto un bonus di un milione di dollari corrispondevano all’1 per cento del budget, mille dollari!

Dunque vi è stata un’epoca staliniana in cui la Nouvelle Critique accusava le Annales e Fernand Braudel – in quegli anni ero ancora uno studente – di essere agenti americani, vittime di discorsi assurdi che hanno creato evidentemente rapporti freddi fra coloro che dirigevano le Annales e il PCF. A quell’epoca bastava un nulla, ci voleva davvero molto meno di oggi per generarli .

Quando dunque Braudel mi ha affidato le Annales, nel 1960-62, poiché ritenevo che l’ideologia non dovesse intervenire come fattore discriminante nella selezione degli storici, e che contasse solo la natura del loro lavoro, ovvero adottare la qualità come unico criterio, ho messo fine al periodo in cui nessun comunista scriveva nella rivista. Diversi storici comunisti hanno iniziato a scrivere.

Ciononostante, dopo un certo tempo, a causa dell’itinerario che vi ho appena descritto ovvero poiché argomenti di storia quali il pane, la vita materiale, stavano prendendo il sopravvento sulla storia generale, si è prodotto un piccolo divorzio fra i comunisti e le Annales che hanno visto nelle Annales una rivista reazionaria.

L’hanno giudicata reazionaria un po’ come l’amante che si sente tradito.

Tutti loro sapevano che era una rivista vicina ai comunisti in quanto privilegiava la dimensione economica, dunque le infrastrutture. E di fatto le Annales non privilegiarono la dimensione dell’economia in quanto infrastruttura, bensì in quanto analisi di ben più lunga durata e soggetta al controllo del “politico”, il che è cosa ben diversa.

Così come per parte mia ho utilizzato la dimensione culturale come oggetto di controllo da parte dell’”economico: e del “politico”. Ma si trattava di un punto do vista metodologico nel quale si privilegiava la dimensione dell’economico e non un punto di vista ideologico. Penso alla connessione che privilegia l’economico per legittimare il diritto di un partito a esprimere le classi subalterne degli sfruttati.

A questo punto il divorzio è apparso brutalmente nonostante le Annales sembrassero sterzare verso la sinistra, e, più tardi, verso destra, e malgrado che i comunisti si trovassero stretti fra un percorso scientifico che li avrebbe spinti a collaborare alla rivista – per quanto riguardava il metodo di lavoro essenzialmente e la loro doppia appartenenza – ovvero l’aderire ad un partito che in qualche modo riconosceva alla storia una certa visione che costituiva un’altra fonte di sapere, ossia la scienza. Il partito è la seconda istanza di uno storico comunista – se non la prima istanza secondo la propria posizione personale.

Si è così prodotto un divorzio con le Annales e per decine di anni i comunisti che collaboravano alle Annales erano privi del permesso di soggiorno nel partito o come dei condannati o comunque personalità giudicate poco affidabili.

Questo movimento è proseguito sino al 1975 quando i comunisti hanno ricominciato a collaborare alla rivista

Sulla storiografia italiana e le sue relazioni con le Annales

In Italia la doppia appartenenza mi pare essere rimasta a lungo dominante. La storia è stata troppo al servizio delle organizzazioni, essa era tipicamente ideologica e dipendeva dal Partito Comunista, non come organizzazione, ma come ideologia, o dal Partito socialista o dai trotskisti, o da altre formazioni, eccetera. E’ questo è stato decisivo quanto alla metodologia di lavoro.

A ciò si è opposta chiaramente la linea delle Annales che si erano scagliate contro questo tipo di approccio negli anni Venti e non certo per approvarlo 50, 60 o 70 anni dopo.

Bruno Somalvico. Dunque Lei non ritiene ancora possibile in Italia lo sviluppo di una storiografia che segua le orme delle Annales?

Marc Ferro Io penso che in Italia la società politica sia molto più separata dalla società civile che non lo sia in Francia. Vi è una classe dirigente estremamente chiusa, ermetica, una classe di dirigenti, di universitari e di scienziati, vi è una divisione sociale più ampia persino rispetto alla Spagna. Questo accademismo degli universitari e dei politici che appartengono ad una élite sociale molto più delimitata che non in Francia o in Inghilterra.

D’altra parte esiste il prestigio, nonostante esso sia molto contestato da tutto quel che attualmente succede in Italia, il prestigio sociale è tale che la storia come pratica continua ad essere dipendente da questo ambiente di dirigenti. Una storia che tratta i problemi con altri approcci, come la storia delle Annales, potrà avere molto successo presso un gruppo ristretto dell’intellighentsia, ma non avrà mai un successo popolare molto grande. Almeno provvisoriamente, per 20 o 30 anni, non lo so per quanto.

A mio parere molti storici in Italia apprezzano la scuola delle Annales. Nutrono nei suoi confronti stima. La storia dominante rimarrà però ancora a lungo, fintanto che i partiti godranno un gran ruolo in Italia prevarrà una storia politica tradizionale delle organizzazioni, delle organizzazioni che controllano la società, almeno secondo me.

Marc Ferro nel 1980 non poteva certo prevedere il crollo dodici anni dopo della Prima Repubblica. Ma quarantadue anni dopo possiamo veramente sostenere che la storiografia italiana abbia davvero cambiato segno?

2. Sfatare tre leggende sull’URSS[3]

Fra i pochi saggi di storia contemporanea usciti recente­mente a Parigi segnaliamo un lavoro edito nella collana Archi­ves di Gallimard, dello storico Marc Ferro, già autore di una Storia della rivoluzione russa e di una Storia della grande guerra, Marc Ferro ha pubblicato per i tipi di Gallimard nel 1980 un’interessante ricerca, Dai soviets al comunismo burocratico. Essa ripercorre l’e­voluzione dei meccanismi del potere nei primi anni post-zaristi, dalla costituzione nel febbraio dei 1917 dei soviet di Pietrogrado e di numerosi altri organismi autonomi (comitati di quartiere, di donne, di soldati, di studenti, di giovani e di operai) alla burocratizzazione di questi organismi ad opera dei cosiddetti “apparatchicki” che assicurano al partito bolscevico, al potere dal mese di ottobre dello stesso anno, il controllo su di essi.  Per arrivare poi alla definitiva istituzionalizzazione del potere bolscevico, che aprirà le porte sin dagli anni Venti al totali­tarismo e al terrore staliniano.

Il lavoro appare molto interes­sante e innovatore per il largo spazio dedicato a documenti e testi, spesso inediti e dimenticati, insabbiati dal regime dai suoi storici, ma anche spesso dai suoi oppositori: decine di documenti provenienti dalle sopra ricordate organizzazioni autonome di donne, operai, studenti, soldati o altro, so stati dimenticati, cancellati da chi ha trattato sempre la storia della rivoluzione e dei potere instauratosi in Unione Sovietica attraverso i testi esclusivamente dei grandi dirigenti dei partiti, fossero menscevichi o bolscevichi, si trattasse di Aleksandr Fedorivic Kerenskj o di Vladimir Illic Lenin, di Julij Martov o di Josif Stalin, oppure ancora dei futuri oppositori Lev Davidovic Trotski o Grigorij Evseevic Zinoviev.  Una storia dal basso invece ricostruita sulla base di questi documenti e di questi organismi destinati ad essere ben presto, come si diceva allora, “bolscevizzati”, ossia assimilati nel nuovo potere.  Di questo libro, di piacevole lettura, mai tradotto in italiano, avevamo parlato con il suo autore, anche in questo caso nel suo studio  presso la Maison des Sciences de l’Homme, a Parigi.

Sarò sempre grato a Marc Ferro per la dedica che mi fece allora di questo libro tascabile che conservo preziosamente come una reliquia nella mia biblioteca: “Au Citoyen Somalvico. En sympathie. Marc Ferro”. Perché considerava noi studenti innanzitutto come cittadini. E voleva in qualche modo ammonirci e vaccinarci contro ideologie a quei tempi assai vive e che Francois Furet denuncerà 15 anni dopo, nel 1995 nel suo Passato di una illusione. L’idea comunista nel XX secolo.

Bruno Somalvico Perché un ennesimo libro sulla Ri­voluzione sovietica?

Marc Ferro. Perché occorre porre fine e tre leg­gende che ci circondano che dobbiamo cancellare una volta per tutte. 

La prima leggenda è nota, ma intellettuali come Louis Althusser l’hanno ripresa costantemente come se niente fosse e consiste nell’affermare che il terrore risale all’epoca staliniana, mentre invece esso data del periodo di Lenin e di Trotski, e tutti i fenomeni che vengono imputati all’epoca staliniano risalgono al periodo precedente.  Questo non lo dimostro,  perché è stato fatto da chi mi ha preceduto. Lo ricordo sempli­cemente, perché si ha spesso tendenza a dimenticarlo.

La seconda leggenda, la seconda fa­vola consiste nel fatto, cosa molto più complessa, che questo terrore talvolta risale ad un periodo antecedente alla presa del potere da parte dei bolsce­vichi. Spesso si imputa, si presta al bol­scevismo più di quanto esso abbia com­messo realmente.

Voglio dire che viene bolscevizzata la storia: vi è intatti la ten­denza a fare una specie di storia bol­scevica dell’antibolscevismo.

Mi spiego meglio: il terrore e il regime sovietico so­no sempre stati presentati come l’ema­nazione di una istanza: il potere di un partito che mette le mani sullo Stato in ottobre. E` vero.

Solo che all’inizio è debole; debole poiché non ha alcune forza. Esso controlla i media, co­me diremmo oggi, cioè la pace di Brest Litovsk, l’instaurazione d’un governo, i proclami e i discorsi eccetera, ma non è inserito nella società. 

Per essere precisi, sono in effetti i soviet che prendono il potere in ottobre: vediamo dunque come il partito abbia funto da copertura al so­viet o i soviet funto da copertura al par­tito.  Il partito, è vero, poi vi ha messo le mani sopra; esiste infatti un processo di distacco dei soviet che comincia già al­lora. Ciononostante questo processo di distacco dei soviet dal potere dura molti anni; per anni il potere appartiene alle masse popolari nelle città  nelle compagne, un po’ in tutta la RussiaPotremmo in fondo definire tutta la storia dell’URSS come il tentativo da parte del partito bolscevico di togliere il potere a queste istanze di base, dai soviet ai co­mitati locali, che sono migliaia e orga­nizzati in maniera estremamente diversa, l’uno dall’altro.

Bruno Somalvico Un nuovo sguardo sul terrore?

Marc Ferro. Sì, perché normalmente il terrore vie­ne imputato al partito bolscevico e si di­ce per giustificarsi, quando si è comu­nisti: “Sì, ma è successo perché c’era l’intervento dello straniero e c’era la guerra civile“.  Orbene tutto ciò è falso; poiché, una volta scomparse l’occupa­zione e la guerra civile, il terrore continua

In primo luogo il terrore non è do­vuto dunque all’intervento straniero né alla guerra civile. Aveva iniziato prima e continuò in seguito. In secondo luogo, questo terrore emana dalla profondità ed è cominciato prima di ottobre.  Prima d’ottobre ci sono delle persone nei quar­tieri di Pietroburgo che vietano l’uscita dei giornali borghesi e persino quella di giornali socialisti contrari ai bolscevichi, senza che questo sia emanazione del partito bolscevico. E’ spontaneo se così posso esprimermi, e di questo terrore spontaneo ne ho reperite le tracce un po’ dappertutto, a Pietroburgo, a Kark­hov, a Seratov, eccetera, un po’ in tutto la Russia, non parliamo poi nelle campagne…

«Non è perché non erano bolscevichi che i contadini non hanno compiuto, non hanno portato a termine una rivoluzione più bolscevica del bolscevismo. Dire pertanto che “i bolscevichi hanno preso il potere perché erano minoritari” è assurdo: essi non erano minoritari; erano sì minoritari all’interno delle organizzazioni politiche, ma esse non erano tutta la società; questa, salvo alcuni gruppi ostili ad una rivoluzione totale sociale, era per parte sua interamente rivoluzionaria.                     

Salta dunque in aria una seconda leggenda che diceva o meglio prestava al potere dei bolscevichi una capacità a governare o ad istituire il terrore che in realtà proviene da due poli: dal basso, dal terrore popolare, e dall’alto nella misura in cui i comunisti non hanno mantenuto la tradizionale funzione dei partiti Politici; al contrario, spesso lo hanno incoraggiato e lo hanno accentuato, e non solo questo: essi se ne sono spesso serviti per sbarazzarsi dei loro nemici politici: i menscevichi, gli anar­chici e i socialisti rivoluzionari

Tutte le misure prese dal regime Fra il 1917 e il 1940 e anche più tardi saranno sempre provenienti da questi due Poli.  Solo a partire dal 1940 il regime avrà un solo nido.

Bruno Somalvico E il totalitarismo, in tutto questo, cosa c’entra?

Marc Ferro: La terza leggenda è proprio quella di immaginare il totalitarismo come un fe­nomeno nato in URSS per la sopravvi­venza di un solo partito, il partito bol­scevico.  Esso ha soppresso gli altri par­titi?  E’ vero.  Ne è responsabile?  Si. Totalmente?  Al cento per cento. Il partito è stato dunque politicamente un partito totalitario.

Ma l’assolutismo che porta all’esclu­sione di tutti i partiti, è una visione politica novecentesca; è una visio­ne falsata delle cose; il fenomeno im­portante non è questo. Il fenomeno im­portante è che i partiti si sono arrogati il diritto di dirigere la società e fra di essi uno di loro, il partito bolscevico, ha cac­ciato gli altri. 

Va ben capito che nel 1917 non vi erano solo i partiti che volevano dirigere la so­cietà; anche i sindacati avevano il loro progetto di società, le leghe religiose come i cercatori di Dio lo avevano pure, così pure le donne o le minoranze na­zionali.

Solo gradualmente il regime at­traverso dei meccanismi di burocratizza­zione dall’alto, cioè di controllo burocra­tico dal vertice, ha colonizzati queste diverse istituzioni ed in una certa misura ne ha sovvertita la funzione. Il tratto che definisce il totalitarismo sovietico con­siste appunto nel fatto che le istituzioni hanno cambiato il loro ruolo. Si dice spesso che i comunisti le hanno sop­presse.  Non è vero, non le hanno soppresse, ne hanno cambiato la natura.

Prendiamo. ad esempio, il sindacato.  Es­so ha la funzione di difendere i lavora­tori contro i datori di lavoro, siano essi privati o lo Stato. Che cos’hanno fatto i bolscevichi? Hanno fatto del sindacato il responsabile dell’economia nazionale e una specie di controllore sociale. Nell’immediato la gente sindacalizzata, o meglio i sindacalisti, non si sono certo lamentati, dal momento che hanno visto accrescere il loro potere. E’ meglio es­sere direttore dell’organizzazione delle industrie di fosfato a Baku che delegato sindacale delle stesse fabbriche di Baku per protestare contro i bassi salari. Dun­que i sindacalisti ne hanno tratto pro­fitto. Allo stesso modo un certo numero di comitati e di istituzioni come quelle dei medici, degli architetti eccetera, han­no visto la loro funzione sovvertita in maniera tale da trovare in questo sov­vertimento una specie di compensazione alla mancanza di potere, che hanno sop­portato per il fatto che, poco a poco, il partito li aveva colonizzati e controllati. Questo spiega il consenso conquistato dal regime e conferma che la società non si è affatto rivoltata contro i bolscevichi. 

Limitare pertanto l’analisi dell’assolutismo sovietico all’eliminazione dei partiti politici, è un punto di vista che dipende da quello dei partiti politici. Un socialista al giorno d’oggi dirà: “Sì, può darsi, ma i comunisti ci mangeranno”. Certo, ma interessante non è che i bolscevichi abbiano mangiato i socialisti, ma che comunisti e socialisti, insieme, avevano voluto divorare i sinda­cati, i sindacati a loro volta avevano “ingoiato” i comitati di fabbrica, e che bol­scevichi, socialisti e sindacati hanno in­sieme mangiato i comitati di fabbrica. Vi sono stati insomma dei conflitti fra or­ganizzazioni che, gradualmente, hanno portato e questo regime in cui il partito è diventato la sola espressione di legittimità.

Bruno Somalvico: Come mai persistono ancora sessant’anni dopo queste tre leggende?

Marc Ferro: Perché la storiografia generalmente è essa stessa emanazione dei partiti po­litici: dunque racconta la storia dal pun­to di vista dei partiti, sia in modo an­ti bolscevico sia pro bolscevico, sia favo­revole ai trotskisti sia favorevole agli sta­linisti

Dunque non può permettersi il lusso di affermare che già ai tempi in cui Lenin e Trotski erano al potere, i sin­dacati erano stati soppressi, o che esistesse  il terrore fin dai tempi di Trotskí o, ancora, di riconoscere che Lenin e Trotski erano in­capaci – tanto per fare un esempio – di impedire alla gente di Saratov di massacrare i borghesi. Né possiamo confermare peraltro che entrambi esprimessero aperta­mente il loro plauso, sostenendo tali  massacri per poi avere così le mani pulite e poter dire: “Non siamo noi, è il potere popolare“.

Bruno Somalvico: E prima di ottobre qual era stato l’atteggiamento dei menscevichi?

Marc Ferro: I socialisti avevano fatto prima d’ot­tobre quel che i bolscevichi hanno fatto in seguito, con la sola differenza che i menscevichi quando sorsero i soviet, i sindacati o i comitati elettorale che vo­levano anch’essi sopprimere, non hanno posto fine al sistema elettorale che avrebbe potuto metterli in minoranza, cosa che invece hanno poi fatto i bol­scevichi. C’è dunque una piccola diffe­renza.

Bruno Somalvico: Ha qualcos’altro da aggiungere, Marc Ferro?

Marc Ferro: Si. vorrei ancora dire questo: si ha ancora oggi all’inizio di questi anni Ottanta spesso tendenza a sostenere, come fa Albert Einstein, che ciò che si è prodotto in URSS non può prodursi da noi, o ad affermare come Louis Althusser.  “Sì. però si tratta di una de­viazione del potere”. 

Non è vero, non si tratta di una deviazione del potere, ma di qualche cosa che può prodursi anche da noi e che riguarda la stessa natura dei conflitti di tipo politico

In fondo quel che ho voluto fare è uno studio dei con­flitti del potere politico, più che l’enne­simo studio sull’URSS e sul bolscevismo: in questo senso il lavoro ha anche un certo valore per la storia francese o italiana. Anche da noi dobbiamo infatti ben guardarci dai meccanismi di controllo burocratico da parte dei partiti ­e dall’azione che quotidianamente eser­citano sui sindacati o sui consigli di fab­brica.

Quattro decenni dopo sarei stato curioso di capire da lui cosa rappresentino fenomeni come i “gilets jaunes” ma anche le rivolte delle banlieues, il crescere degli episodi incresciosi non solo contro gli immigrati nord africani ma anche degli atti di antisemitismo nelle scuole e del crescente numero di ebrei francesi che in questi ultimi anni sono emigrati in Israele (che suppongo lo ferissero profondamente in quanto ebreo sefardita sfuggito alle persecuzioni di Vichy che si è sempre considerato nella migliore tradizione politica della sinistra transalpina “citoyen de la République”).

Soprattutto mi chiedo come avrebbe spiegato il tracollo al primo turno delle elezioni presidenziali di qui partiti politici tradizionali verso cui era rimasto sempre diffidente.

E avrei letto con impazienza una sua “Tribune” su Le Monde o qualche altro quotidiano sulle lezioni da ricavare dall’invasione putiniana dell’Ucraina. Nei suoi seminari ricordo bene ci parlava spesso degli effetti delle politiche di russificazione tsariste, riprese in epoca staliniana e che continuano a ossessionare vecchi e nuovi zar del Cremlino.


[1] Intervista del 4 marzo 1980 realizzata a Parigi presso la Maison des Sciences de l’Homme per un programma radiofonico per la Radio della Svizzera Italiana

[2]Carpentrars nel sud ovest della Francia è una località che è stata antica capitale del Contado Venassino e prima sede del Papato avignonese per scelta di Clemente V he vi stabilì la Curia dal 1313 alla sua morte

[3]Bruno Somalvico, “Con il suo libro Marc Ferro vuole sfatare tre leggende sull’URSS. Intrervista allo storico francese  sul saggio Des soviets au communisme bureaucratique. Les mécanismes d’unse subversion, Paris, Achives Gallimerd, 1980, 266 p.)”,  Corriere del Ticino, 12 giugno 1980