Il voto

Democrazia Futura. Gran Bretagna, elezioni locali: il tramonto di Boris Johnson?

di Mario Baccianini, giornalista, saggista, curatore editoriale e traduttore |

Il rinnovo di gran parte dei consigli comunali di Sua maestà e del Parlamento dell’Irlanda del Nord.

Mario Baccianini

Mario Baccianini giornalista esperto di politica britannica analizza il voto il 5 maggio 2022 per il rinnovo di gran parte dei consigli comunali in Inghilterra, Scozia e Galles e del Parlamento dell’Irlanda del Nord a Belfast chiedendosi se in “Gran Bretagna, [le] elezioni locali [segnino] il tramonto di Boris Johnson?”.

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La primavera del nostro scontento: parafrasando John Steinbeck[1], questa è la postcard che i sudditi di Sua Maestà Britannica hanno inviato a Downing Street, la residenza del primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson.

Il messaggio è arrivato, all’inquilino di Number 10, il più noto indirizzo di Londra, sede del governo nella City of Westminster, ubicata tra il parlamento e Buckingham Palace, residenza ufficiale della regina Elisabetta.

“Penso di aver capito la lezione”, ha detto BoJo, a botta calda, già da quando erano arrivate le proiezioni del voto delle comunali del 5 maggio 2022. Un voto a vasto raggio che ha chiamato alle urne circa la metà della popolazione del Regno Unito, per il rinnovo di gran parte dei consigli comunali dell’Inghilterra, tutti quelli della Scozia e del Galles, e il parlamento locale dell’Irlanda del Nord.

Uscito sorridente, la mattina, per recarsi al seggio, in compagnia del suo cagnolino, Dilyn, a tarda sera BoJo ha appreso con preoccupazione i primi risultati delle amministrative. Un terremoto che ha scosso Number Ten: Labour al 35 per cento, Conservatori al 30 per cento, liberaldemocratici al 19 per cento.

Il successo laburista a Londra: i casi di Westminster e Barnet

Con altre clamorose sorprese: i Tory hanno ceduto ai laburisti Westminster, il municipio londinese che rappresenta il cuore del potere britannico, e quello di Wandsworth, storico feudo di Margareth Thatcher, da 44 anni in mano ai conservatori.

Il Labour ha conquistato anche Barnet, il secondo municipio di Londra per numero di abitanti, nel nord della capitale, che dal 1964 non aveva mai avuto una maggioranza laburista. Barnet è anche l’area londinese con la più alta percentuale di popolazione ebraica, che supera il 14 per cento.

Un comune famoso per il suo modello definito ironicamente Easy Council, simile a quello di Easy Jet, che offre servizi comunali “all’osso” a chi non può pagare e gli extra a pagamento. Ma chi non può pagare è anche chi ha più bisogno, come anziani e disabili, che spesso in ogni caso hanno pagato contributi per decenni… E alla fine il redde rationem è arrivato…

A Londra, dov’erano in palio tutti e 32 i Municipi circoscrizionali, il Labour ha ottenuto la maggioranza dei seggi. Comprese storiche roccaforti Tory: “Wandsworth e Westminster erano consigli di punta, perderli dovrebbe essere un campanello d’allarme per il partito conservatore”, ha dichiarato l’ex premier Theresa May.

Una completa inversione di rotta, rispetto alle elezioni politiche del 2019, quando i laburisti conquistarono soltanto Putney. Sobborgo a sud ovest di Londra, culla della democrazia con i famosi dibattiti aperti qui da Oliver Cromwell, nell’ottobre del 1647, tra le fazioni del New Model Army (il suo esercito rivoluzionario repubblicano), nel referendum del 2016 il 72 per cento dei suoi elettori votò “Remain”, per restare nell’Unione europea.

Un panorama completamente cambiato rispetto alle elezioni politiche del 2019

Sebbene il confronto fra elezioni politiche e elezioni locali non sia corretto nel metodo, dopo le consultazioni del 5 maggio 2022, il panorama politico britannico è completamente cambiato.

Alle politiche del 2019 i Tory ottennero un netto vantaggio, con 364 seggi contro i 202 del Labour. Un successo che segnò una svolta: il giorno dopo la vittoria del 12 dicembre 2019, Boris Johnson lanciò la sfida: “Il 31 dicembre fuori dall’Unione europea!”, Get Brexit done, realizziamo la Brexit, un impegno ad uscire dall’Unione, dopo tre rinvii.

Fine di un matrimonio con Bruxelles durato 47 anni. Fine dell’hung parliament, il parlamento monco, che ha tenuto la Gran Bretagna in sospeso per anni. Fine dell’era di Jeremy Corbyn, il leader laburista finito subito sotto accusa per la disfatta peggiore del suo partito dal 1935. Fine della leadership Libdem di Jo Swinson, battuta nel collegio di East Dunbartonshire da Amy Callaghan (candidata del Partito nazionale scozzese) e costretta a passare il testimone a Ed Davey, dopo il magro risultato dei liberaldemocratici (appena 11 seggi).

Lo stesso Ed Davey che oggi esulta per il rilancio del suo partito (sia in feudi Tory sia in competizione col Labour) ed evoca un “momento di svolta” per il Regno Unito, dall’alto del suo quasi 20 per cento. Un successo, quello dei Libem, che mette in luce la situazione dei due più grandi partiti inglesi. Lo sfaldamento dell’elettorato Tory (che ha ceduto a laburisti, Libdem e al Green Party, di sinistra e ambientalista, i voti perduti, fuori Londra, in importanti centri come Southhampton, nel sud, Worcester, a ovest e West Oxfordshire).

E i passi avanti, ma non ancora una landslide, una vittoria a valanga, del Labour guidato da Keir Starmer, che se ha segnato un forte progresso a Londra, nel resto del paese non ha sfondato nonostante il tentativo di capitalizzare la crisi del costo della vita e gli scandali che hanno coinvolto Johnson, il Partygate, i ritrovi organizzati a Downing Street in violazione delle restrizioni anti Covid fra il 2020 e il 2021. Uno scandalo analogo, in verità, ha visto come protagonista anche Keir Starmer…

Messo sotto pressione anche dalla ripresa dell’inflazione (comune, del resto, a tutto l’occidente) e dal caro bollette (per l’impennata dei costi dell’energia), Bojo ha finito col perdere quasi 500 consiglieri comunali (non soltanto in Inghilterra, ma anche in Galles e Scozia) , mentre  i laburisti ne hanno conquistato oltre 260, contro i 165 dei Libdem.

Il voto in Scozia – con un sistema proporzionale – e quello in Galles

Ma mentre i laburisti si affannavano a smaltire gli effetti del “long Corbyn” (ironica similitudine con il “long Covid”) ovvero dei postumi del radicalismo del loro ex segretario, in Scozia lo Scottish National Party, di centrosinistra, si è confermato il primo partito con 453 consiglieri (+ 22), seguito dal  Labour, 152 consiglieri (+20) che ha scalzato i Tory dal secondo posto ottenuto nelle elezioni precedenti. Ma il sistema proporzionale esistente non ha consentito, ancora una volta, che nella maggior parte dei 32 consigli comunali della Scozia emergesse un partito con una netta maggioranza. Con  due importanti eccezioni: come a Dundee, la quarta città più popolosa della Scozia (143 mila abitanti) dove lo Scottish National Party ha conquistato la maggioranza dei seggi, e nel West Durbartonshire dove il Partito laburista scozzese guidato dalla sua combattiva vice-segretaria, Jackie Baillie (membro del parlamento devoluto monocamerale di Edimburgo) ha ottenuto anch’esso la maggioranza.

Nel Galles i laburisti hanno tolto la maggioranza all’unica assemblea amministrativa dei Conservatori. E nel complesso hanno ottenuto  un buon risultato, su scala nazionale, guadagnando oltre 260 seggi rispetto alle ultime elezioni. Una vittoria che tuttavia  è stata in parte offuscata dal risultato altrettanto positivo del partito liberaldemocratico, che ha guadagnato quasi 200 seggi, e da quello del Green Party, che ha guadagnato 81 seggi.

Il rinnovo del Parlamento locale di Belfast in Irlanda del Nord

Debole invece il  risultato nell’Irlanda del Nord, dove il Partito Socialdemocratico e Laburista ha raccolto un modesto 9,7 per cento (- 2,9 per cento rispetto alle elezioni precedenti) piazzandosi al 5° posto, dopo i conservatori del Partito unionista dell’Ulster. Al primo posto, invece, come da tutti i pronostici, lo Sinn Fein (“Noi stessi” in gaelico, un partito di ispirazione socialdemocratica e repubblicana) che ha ottenuto, per la prima volta nella storia, la maggioranza  allo Stormont (il parlamento di Belfast) con il 29,2 per cento (+1,1) e 27 seggi, 2 in più rispetto ai 25 del Partito Unionista Democratico (protestante di destra).

Una vittoria, questa dello Sinn Fein (ex braccio politico dell’Ira) che il caso vuole sia avvenuta in coincidenza con l’anniversario della morte (5 maggio 1981) di Bobby Sand, l’irriducibile indipendentista irlandese, volontario della Provisional Irish Republican Army deceduto a seguito di uno sciopero della fame a oltranza per protesta contro il regime carcerario  cui erano sottoposti i detenuti repubblicani.

L’exploit dello Sinn Fein potrebbe preludere a una riunificazione dell’Irlanda che oggi sembra remota, ma nel prossimo futuro se ne parlerà verosimilmente sempre di più. E nell’immediato farà riemergere la questione del  protocollo Brexit per l’Irlanda del Nord.

Il protocollo per abolire i controlli doganali tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito

Alla vittoria dello Sinn Fein ha contribuito in effetti il declino del partito degli unionisti protestanti,  i più stretti alleati dei Tory britannici, che hanno appoggiato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ma negli ultimi anni è stato sempre più criticato dai suoi stessi sostenitori per avere indirettamente contribuito all’approvazione del Protocollo per l’Irlanda del Nord, firmato poco più di due anni fa all’interno dell’accordo sulla Brexit, per abolire i controlli doganali tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.

Il protocollo prevede che l’Irlanda del Nord resti sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale. In questo modo è stata evitata la costruzione di una barriera fisica fra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord – un obiettivo condiviso sia dai negoziatori europei sia da quelli britannici – ma il legame fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito si è indebolito, mentre le aziende nordirlandesi sono state costrette invece a rafforzare i propri legami commerciali con quelle irlandesi ed europee.

Il declino di Boris Johnson in un Regno sempre più (dis)Unito

Con la vittoria dello Scottish National Party e del Sinn Fein nell’Ulster, riaffiorano le crepe del Regno Unito. Nicola Sturgeon si è impegnata a riproporre un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia, un progetto che non sembra trovare ancora un consenso della maggioranza dei cittadini. Né sembra una possibilità imminente, almeno per ora, una riunificazione delle due Irlande: un’idea probabilmente accarezzata dalla sinistra nazionalista dello Sinn Fein.

Ma per Boris Johnson sembra iniziata la fase del declino.  Oggi il suo partito, in crisi,  si è lasciato alle spalle il trionfo del dicembre 2019, quando il premier si era assicurato 365 parlamentari a Westminster: il 43,6 per cento del voto popolare, la percentuale più alta per qualunque partito britannico dal 1979 quando al potere andò Margaret Thatcher. Se si votasse per il parlamento britannico, in questo momento, i Tories raccoglierebbero il 30 per cento dei voti, il punto più basso da quando alla loro guida c’è Boris Johnson, spiega il professor Mark Stuart, politologo, già docente all’Università di Nottingham:

 “Quell’alleanza tra i voti delle classi medie benestanti del sud del paese e i poveri del nord, che hanno votato conservatore perché erano per la Brexit, si è rotta perché al sud i voti conservatori sono finiti ai liberaldemocratici e ai verdi”.

Per il momento non esiste un’alternativa al premier e la difficile situazione internazionale, con la guerra e l’economia in crisi, non incoraggia altri a prendere il suo posto. Tuttavia la posizione di Boris Johnson è molto indebolita. Tra qualche settimana il premier verrà multato ancora, per i festini organizzati durante la pandemia a Downing street, e avremo il risultato dell’inchiesta su queste infrazioni completata da Sue Gray” la “sleazebuster” (la fustigatrice dei costumi) come viene soprannominata la funzionaria che conduce l’inchiesta sul Partygate.

Le elezioni suppletive di giugno 2022 un passaggio delicato per il premier britannico

“Se i Tory dovessero perdere, alle elezioni supplettive di giugno a Wakefield e di luglio a Tiverton e Honiton – è la previsione del professor Stuart – potrebbe essere la fine di Boris Johnson. Il momento migliore per sostituirlo è l’estate, in tempo per la convention del partito in autunno».

Secondo Mark Stuart la Brexit è stata ancora un fattore importante durante queste elezioni. Persino l’ex capo dello staff di Boris Johnson, Nick Boles, ha rivelato via Twitter che ha votato laburista: “È la prima volta che voto laburista da una altrettanto gloriosa mattina di maggio del 1997”. Boles, ex deputato Tory per Grantham e Stamford, è stato il capo dello staff di Johnson mentre era sindaco di Londra. E si è dimesso dal partito conservatore nel 2019 per quello che ha definito il suo “rifiuto di compromesso” sulla Brexit.

“Ormai la Brexit decide come gli elettori votano. Il paese è ancora diviso a metà. Boris Johnson non ha perso nei seggi del cosiddetto ‘Red Wall’, le roccaforti laburiste del nord di tradizione operaia, che BoJo ha conquistato alla fine del 2019, promettendo di completare la Brexit. In quelle zone – aggiunge il professor Stuart – il primo ministro si presenta come il campione del partito antieuropeo dei poveri e ruba ai laburisti quelli che dovrebbero essere i loro elettori naturali. Londra, invece, già quasi completamente laburista e pro-europea, si è spostata ancora di più a favore dell’Unione europea, votando liberaldemocratico e verde, i due partiti britannici che vogliono un ritorno della Gran Bretagna in Europa”.

Nel complesso, le elezioni amministrative del 5 maggio 2022 sono state un test influenzato da molte variabili, sullo sfondo del dopo Brexit, delle conseguenze della pandemia di Covid, dei primi effetti delle sanzioni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, e dei molti problemi interni alle varie realtà dell’isola, le cui ripercussioni mettono comunque a rischio la tenuta di Boris Johnson.


[1]John Steinbeck, The Winter of Our Discontent, New York, The Viking Press, 1961, 311 p. Traduzione italiana di Luciano Bianciardi: L’inverno del nostro scontento, Milano, Arnoldo Mondadori, 1962, 360 p.