Il ricordo

Democrazia Futura. Giorgio Gaber a 20 anni dalla morte. Che memoria ne ha l’Italia?

di Stefano Rolando, insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio |

Prendendo spunto da un bel docufilm di Riccardo Milani, il ritratto dell'artista milanese secondo Stefano Rolando per Democrazia Futura.

Stefano Rolando

Prendendo spunto da un bel docufilm di Riccardo Milani, Stefano Rolando racconta la Milano di “Giorgio Gaber a 20 anni dalla morte” chiedendosi “Che memoria ne ha l’Italia? [1]“. “Gli artisti milanesi (prendiamo Dario Fo, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, ma questo vale anche per il circuito teatrale colto trainato dal Piccolo Teatro, anche per il cabaret satirico, anche per la svettante discografia che lancia i nuovi miti, da Mina ad Adriano Celentano) sono meno melodici dei napoletani, sono meno intimisti dei genovesi, sono meno popolareschi dei romani, sono meno folk dei siciliani. Fondamentalmente – scrive Rolando – rappresentano – dico un’opinione personale – il salto dall’Italia del neo-realismo all’Italia del neo-surrealismo. Rispetto al surrealismo filologico degli anni Venti del Novecento (l’irrazionale, il sogno, la psiche), questo nuovo impasto artistico è l’espressione “irriverente” di uno scrollone civile rispetto al conformismo borghese e alla parte del cattolicesimo più conservatore. Scrollone raccontato anche in modi paradossali. Cioè, in forme a volte un po’ grottesche, satiriche, con umorismo che talvolta rasenta il nonsense. Politicamente appare come una rappresentazione che in parte tiene conto sia di spinte borghesi progressiste (è il tempo del primo centro-sinistra e del dialogo tra cattolici e socialisti) sia anche di spinte anticonformiste laiche e, per il rilievo del voto operaio dal dopoguerra poi, comunisteggianti”.

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Sono venti anni dalla morte di Giorgio Gaber. Se ne è andato il primo dell’anno del 2003 a 64 anni.

Ed esce ora un suo ampio ritratto audiovisivo. Con molto parlato ma anche molta musica, molto spettacolo, molto teatro. Il docufilm si intitola “Io, noi e Gaber” (regia di Riccardo Milani, prodotto da Atomic Production, Rai Documentari e Luce Cinecittà, distribuito da Lucky Red, 135 minuti).

Piccola ma interessante curiosità. Riccardo Milani, regista sperimentato, è il marito di Paola Cortellesi. All’inizio di novembre del 2023 i loro due film – che intrecciano memoria, diritti civili, identità italiana – sono stati primo e terzo al box office dei cinema italiani. Magari questo vuol dire qualcosa.

Ho visto questo film a Milano. E vederlo nella città di Gaber, nato in quartiere Sempione nel 1939, sposta un po’ l’accento dalla sola storia di un artista italiano, pur simbolico, estroso, popolare, ironico, civile, multiforme (e altro ancora). Lo sposta anche su una domanda, finora con poche risposte, che riguarda una delle città più profondamente trasformate d’Italia e che riguarda in primis (ma non solo) i milanesi: come eravamo? Che è naturalmente la domanda che fanno i meno giovani. Perché quella dei più giovani è invece: come eravate?  Per valutare nel suo insieme le ragioni molteplici di questo bel film non dobbiamo ovviamente limitarci a questo aspetto. Anche se lo si leggeva negli occhi del pubblico del 7 novembre alla proiezione serale all’Eliseo in via Torino, in larga maggioranza abbastanza anziani per essere testimoni del tempo e non solo spettatori di una serata. Voglio dire, naturalmente, che per parlare della memoria che l’Italia conserva di Giorgio Gaber, non basta questo aspetto. Ma, tuttavia, partiamo pure da questo aspetto. Come da qui parte inevitabilmente anche il film.

Che Milano racconta questo lungo documentario? Diciamo che è la Milano appena uscita dall’austera, etica, tenace ricostruzione materiale e morale della città. In cui esplodono nuovi diritti e nuove libertà, credo in anticipo su tutta Italia.

Fenomeni che tra gli anni Sessanta e Settanta, vedranno tutto e il contrario di tutto: progetto, innovazione, sperimentazione; ma anche conflitti vecchi e nuovi e trasformazione economica e sociale.

Nelle fasi di transizione – e questa un po’ la forza di Milano – si esprime la società civile. Una realtà piuttosto libera di fronte alle istituzioni, che spinge su diritti e costume e in un certo senso anche poco dipendente dalla più forte economia in ascesa, quella industriale. Che, per altro, consolida in quegli anni l’immaginario collettivo.

Gli artisti milanesi (prendiamo Dario Fo, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, ma questo vale anche per il circuito teatrale colto trainato dal Piccolo Teatro, anche per il cabaret satirico, anche per la svettante discografia che lancia i nuovi miti, da Mina ad Adriano Celentano) sono meno melodici dei napoletani, sono meno intimisti dei genovesi, sono meno popolareschi dei romani, sono meno folk dei siciliani. Fondamentalmente rappresentano – dico un’opinione personale – il salto dall’Italia del neo-realismo all’Italia del neo-surrealismo.

Rispetto al surrealismo filologico degli anni Venti del Novecento (l’irrazionale, il sogno, la psiche), questo nuovo impasto artistico è l’espressione “irriverente” di uno scrollone civile rispetto al conformismo borghese e alla parte del cattolicesimo più conservatore.

Scrollone raccontato anche in modi paradossali. Cioè, in forme a volte un po’ grottesche, satiriche, con umorismo che talvolta rasenta il nonsense. Politicamente appare come una rappresentazione che in parte tiene conto sia di spinte borghesi progressiste (è il tempo del primo centro-sinistra e del dialogo tra cattolici e socialisti) sia anche di spinte anticonformiste laiche e, per il rilievo del voto operaio dal dopoguerra poi, comunisteggianti.

Prendiamo quei tre: Dario Fo, meraviglioso affabulatore popolaresco, più caratterizzato politicamente, a suo modo marxista. Enzo Jannacci, che mette in campo solitudini e dolori della povera gente con tratti fiabeschi e inverosimili ( La banda dell’Ortica, l’Armando, I scarp de tennis…), che disegnano – tra la pena e l’ilarità – il rovescio della medaglia della super-pretesa modernizzante della città e della sua classe dirigente. Giorgio Gaber parte più in sordina e più mutevole. Parte con il jazz, poi il rock&roll americaneggiante ma di rottura (Pupa ciao ti dirò è della fine degli anni Cinquanta); poi si accredita televisivamente come un sussurratore ironico ma con la cravatta (Non arrossire, Barbera e champagne, Torpedo blu, La ballata del Cerutti, eccetera). Poi – forte di una crescente popolarità (era una televisione, una rete, una prima serata) – a poco a poco esprime le nevrosi anticonsumiste e alla fine sferza l’autoreferenzialità ideologica di una generazione che giudica ambiguamente rivoluzionaria e che è, secondo lui, egocentrica.

Ho raccontato brevemente queste cose su Milano e la società civile anche per due argomenti. Primo perché questo nesso è stato una fonte creativa importante per Gaber. Secondo perché, alla fine, questo modo di raccontare anche sé stessi, anche la propria città senza troppe reverenze, ma anzi cogliendo molte contraddizioni, sarà anche una cifra per rendere importante quegli artisti ma soprattutto – i conservatori capiscono poco questo argomento – per migliorare seriamente l’accettabilità generale e quindi l’immagine di una città che ha un po’ di boria nel suo stereotipo.

La sequenza degli spettacoli di Giorgio Gaber è impressionante.

Lascia la tv, in cui ha duettato con Mina, il quartetto Cetra, Jannacci (indimenticabile Una fetta di limone). Poi sarà – e per sempre – tutto teatro. Scelta su cui Paolo Grassi in persona – nel periodo in cui è solo alla guida del Piccolo Teatro – avrà il suo peso e la sua influenza.

Arriva, con le sue contraddizioni, il Signor G (che debutta al Lirico, Gaber con Mina). Arriva – un po’ borghese, un po’ arrabbiato – Dialoghi di un impegnato e un non so. Arriva una metafora che resta la più proiettata nel futuro e tra le cose migliori di Gaber, che si intitola: Far finta di essere sani. Arrivano Libertà obbligatoria e il memorabile Le elezioni. Poi, a dieci anni dal ’68, l’invettiva: Polli di allevamento.

Sto citando per sommi capi, ovviamente.

Ma per ricordarci la cifra intuitiva del testo Far finta di essere sani occorre sentire dalla sua voce il brano di attacco.  Composto nel 1973 è stato poi molte volte rappresentato.

In una Milano che cerca sempre di far sistema, la musica e il teatro provano a rappresentare molte forme di distinzione, di riluttanza, di non allineamento dei tanti a cui il “far sistema” a volte conviene ma molte altre volte va un po’ stretto. Questa forza di Milano continua ad esprimersi, e si esprime pensando soprattutto all’Italia.

Il sodalizio artistico di Gaber con Sandro Luporini, un pittore viareggino che ha dedicato la vita ai suoi testi, ma anche a discussioni filosofiche e politiche personali, nella villa di Gaber in lucchesia, a Montemagno di Camaiore, trasferisce infatti da Milano a tutt’Italia lo sguardo inquieto dell’artista. Uno sguardo che ha in Luporini forse un carico di delusione in più, diciamo il carico della fine del sogno comunista. Qualcuno era comunista, altro pezzo famoso, un elenco di smarrimenti, ma salva lo spirito iniziale della speranza:

“Qualcuno era comunista, perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa”.

In ogni caso Giorgio Gaber comunista non lo è stato mai, né prima, né dopo l’89.

Il canto libero di Gaber durerà anche per tutti gli anni Ottanta. Negli anni Npvanta, si comincia a guardare indietro smarrito per la piega che prendono le cose (il suo spettacolo del ’94 e del ’95 è A pensare che una volta c’era il pensiero). Poi però tutto cambierà e verso la fine del secolo – questo il titolo dello spettacolo – Un’idiozia conquistata a fatica, l’ultimo album di un Novecento che lascia più spaesati che protèsi. Poteri, saperi, narrative del lungo ciclo novecentesco, stanno lasciando il posto ad una strana divaricazione: urbanisticamente la città (Come è bella la città…) assume caratteri di metropoli, marcata dalla cultura del lusso; ma politicamente essa è sempre più rappresentata dal nuovo populismo piccolo-borghese. Lo strattonamento artistico “complesso”, inquieto, critico, tendenzialmente speranzoso (tutti ricordano La libertà non è star sopra un albero…), sostanzialmente difeso dalla borghesia progressista, si esprimerà meno. Anche a causa dell’evaporazione di quel pezzo di tradizione sociale borghese diciamo così post-illuminista. Che se ne va. Come se ne sta andando la classe operaia.

Ed eccoci allora alle altre due domande generate da diversi punti di vista. Quale Italia e quale generazione a fronte di questo strano artista?

Qui dobbiamo adottare proprio il punto di vista della provocazione politica della seconda metà del Novecento. Che tra il 1968 e il 1973 ha il suo più forte ruggito. Mario Capannaleader del movimento studentesco del ‘68 e qui, nel documentario, una delle voci narranti sul filo della nostalgia – dice (lo riprendo con parole mie): noi esprimevamo (con la rappresentazione artistica che ci circondava) una risposta ribelle ed emotivamente rivoluzionaria rispetto ai tre terrorismi che il potere in Italia aveva messo in campo per cercare di fermarci e di estirparci. Il terrorismo rosso brigatista, eversivo, ideologico; il terrorismo nero fascista e assassino; il terrorismo di Stato – aggiunge – che utilizza le due eversioni polarizzate per spostare il baricentro del cambiamento sociale, civile e politico del Paese verso ambiti di controllo, interno e internazionale, di un Paese che stava scappando di mano.

Il tema su cui i testimoni nel docufilm si interrogano – e che interroga naturalmente quella parte del pubblico che ha attraversato quella stagione – riguarda la risposta dei giovani. Diciamo ventenni nel ’68. Di tutti i giovani italiani e persino europei, dunque la risposta generazionale dei ‘boomers’, in ordine all’impianto malsano che la fine della ricostruzione e quindi degli anni Cinquanta, poi gli anni Sessanta, proietta sull’intero Paese e in un certo senso in tutto l’Occidente.

Riferito alla linea civile e artistica di Giorgio Gaber questo tema mette in rilievo prima la sua fase di voler rappresentare l’impennata giovanile, movimentista, anticonformista. Poi la sua fase critica rispetto alle derive di quei movimenti, in una sorta di neo-umanesimo deluso, rabbioso e sostanzialmente sconfitto (di cui tutti ricordano che, se arriva la crisi, “quasi quasi mi faccio uno shampoo”). Nel 2001 il suo album non è una perifrasi: La mia generazione ha perso. E nel 2003, la crisi assume carattere generale: Io non mi sento italiano. Poi si chiude il sipario.

Pierluigi Bersani – una sensata voce, tra i testimoni del docufilm – su questo relativizza. Relativizza la politica, la rivoluzione, l’assolutismo generazionale, la dichiarazione di sconfitta. Accerta invece che il cambiamento c’è stato, pur evolvendo con molti irrisolti. Dunque, chi ha contribuito a dare anima al cambiamento ha dei meriti, non si deve parlare di sconfitta, perché niente si risolve nel giro di una o due generazioni.

Di fatto anche quella generazione – voglio dire i boomers – misurandosi con i processi del dopo ‘68, ha avuto dinamiche molto diversificate.

Qui introduco io, se mi è permesso, un punto di vista; che del resto aveva ispirato il bilancio generazionale che avevo tentato nel 2008, compiendo io sessant’anni e proponendo una raccolta di scritti civili dal liceo in poi (il libro si intitolava Quarantotto, edito da Bompiani).

Apparentemente tre mondi diversi.

Un segmento di quella generazione si frigge il cervello, certamente. Non rientra più dal “fallimento” della spinta rivoluzionaria e prende vie antisistema (cineserie, maoismi, brigatismi, abissi della droga, eccetera). Sbanda. Una parte non banale di ex giovani finisce insomma fuori pista, socialmente, professionalmente, valorialmente. A loro un Gaber non fa né caldo né freddo, caso mai ironizzano. Lo percepiscono come un artificioso egocentrismo dello spettacolo borghese, per giunta moralista e non a caso con una moglie, Ombretta Colli, finita in politica con Berlusconi.

Sull’altro fronte una parte più consistente della generazione in esame, sceglie di abbandonare ogni titubanza sociale, ogni perplessità filosofica sul sistema produttivo e di consumo, eccetera eccetera, mettendo energie e desiderio sostanzialmente sulla possibilità, anche se mescolata a un po’ di cinismo, di fare preferenzialmente soldi. I danée. Legittima cosa per tutti, per carità. Ma in molti di questi casi si tratta non di far convivere il lucro con valori e speranze, a loro volta in legittima evoluzione. Ma di subire adattamenti pesanti per accettare regole che parevano impossibili per quella generazione.  Anche questo fronte di “pubblico”, uniformato a costumi artistici e culturali più modaioli che critici, non riconosceva più in Gaber uno specchio adeguato, essendo costoro per nulla interessati a farsi fare la morale su consumismo, mercato, alienazione, eccetera.

Nel vasto ambito intermedio tra queste due posizioni diametralmente opposte, ci sarebbe poi un “ceto medio” – uso l’espressione in senso generalizzato – che potrebbe conservare affetto e identificazione rispetto a chi ha stimolato un pensiero critico sui valori del tempo assegnato alla propria vita e sui comportamenti invalsi fatti spesso di stereotipi e non di convincimenti meditati (primeggia un titolo: Cosa è destra e cosa è sinistra, tanto per dirne gaberianamente una).

Ma se si va a vedere in concreto che fine ha fatto quel “riformismo”, convinto di doversi misurare contro le difficoltà di organizzare il cambiamento graduale e per un miglioramento collettivo (diversa integrazione e diversa redistribuzione), beh, l’andamento elettorale degli ultimi trenta anni non offre grandi numeri e grandi appigli.

Ecco che – per stare al nostro modello di ragionamento su una figura artistica come quella di Giorgio Gaberè certo che quella vasta società intermedia, prima accennata, si riduce allora di un bel po’ quando si tratta di regolare i propri affetti, la propria memoria e la propria identificazione con figure scomode. Magari non fondate su straordinarie qualità artistiche (il caso di Mina resta indiscusso, sia per le sue doti, sia per la sua sparizione dalle scene), ma fondate soprattutto su una linea di contenuti il cui rilievo dipende molto dalla tenaglia tra il tempo che passa e le forme di rappresentare i problemi, forme che assumono altre personificazioni. Quei contenuti, sofferti, detti e contraddetti, sono stati un modo seducente di vivere i dubbi del tempo in cui molti non volevano nemmeno sentire parlare di dubbi. Seducente qui per me vuol dire: ridendo anche di noi stessi.

Tutto ciò detto, il docufilm su Giorgio Gaber a me – boomer di quella generazione, credo coerente nei rapporti abbastanza stabili tra valori civili e scelte professionali, diciamo un milanese critico, un italiano non assuefatto al peggio – è piaciuto. Anzi, se fossi stato nei panni di professioni per altro fatte a suo tempo, questo film lo avrei prodotto. Magari solo con qualche piccolo cambiamento, avrei anche usato i testimoni che il filmato propone.

Tuttavia, alla luce del ragionamento che ho provato a fare qui – credo di capire per quali ragioni produttori e distributori abbiano deciso prudentemente in prima battuta di tenere l’offerta solo per tre giorni nelle sale, con mio rammarico e anche di altri, che ben sanno che in tre giorni non si fa nemmeno in tempo a riscaldare il passa parola. Per fortuna a Milano al cinema Anteo la programmazione è stata prolungata sino al 15 novembre […].

E allora, partenendo dalle valutazioni che stanno all’interno delle testimonianze di questo documentario, ci riproponiamo la domanda: che memoria resta oggi, tra gli italiani, di questo artista che pochi classificano più solo come “cantante”, magari non sapendolo poi come definire esattamente?

A me personalmente il quesito non spaventa, rivendico il mio grato affetto a Giorgio Gaber, che ho conosciuto e frequentato soprattutto in Versilia. E sono certo che c’è un’Italia memore che è un po’ cambiata anche grazie a lui.

Tuttavia, parlando del pubblico che se lo ricorda in vita, vale la distinzione di mondi che rendono difficile, se non impossibile parlare di una generazione omogenea. Dunque, è una memoria radicata ma credo anche limitata. Che però contiene due vicende – chi dice finite, chi dice sospese, chi dice modificate – abbastanza rilevanti:

  • quella di una generazione che, con i distinguo che ho in precedenza fatto, ha dimostrato almeno nella sua parte creativa (non solo artistica) di non aver lasciato il cervello al deposito bagagli;
  • quella di una città che, almeno fino a un certo punto della sua storia, non si è limitata a magnificarsi e, anzi, ha continuato a criticarsi e a prendersi anche in giro. 

Interessante a questo punto è chiedersi come può impattare un film come questo sui giovani d’oggi.

L’impressione che ho avuto dalla sala, da qualche segnale percepito tra i ragazzi in senso ampio della mia famiglia, qualche spunto percepito in università, insomma azzardo a dire che il carattere critico ma non ideologico, sfidante ma non violento, polemico ma anche umoristico che costituisce – malgrado il sodalizio culturale con il più orientato Luporini – una posizione di artista impegnato ma strenuamente legato alla sua libertà, beh, insomma vedo segni di una certa fascinazione, di un interesse a capire meglio, a cogliere più modernità di quelle che abitualmente vengono concesse al Novecento italiano da parte dei millennial e delle generazioni successive.

Una sorta di artista un po’ liberal, un po’ radical, come è stato Jacques Brel per i francesi o forse Lenny Bruce per gli americani, o altri, non del tutto classificabili ideologicamente ma per questo campioni di una libertà di pensare che oggi appare come una sfida magari di minoranza ma, anche per gli argomenti che ho provato a ricordare, per questo anche molto appassionata.


[1] Versione audio: https://www.ilmondonuovo.club/giorgio-gaber-nella-memoria-degli-italiani/