L'analisi

Democrazia Futura. Premierato, riforma con scopi sbagliati

di Stefano Rolando, insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio |

Manca un modello organizzativo coordinante e concertato per il governo. L'approfondimento di Stefano Rolando.

Stefano Rolando

Che senso ha rappresentare la riforma del “Premierato[1]” per presunti equilibri tra le maggiori istituzioni del Paese, quando la vera riforma dovrebbe concentrarsi sul tema dell’effettivo e concreto modello di coordinamento delle politiche di governo, non solo sui macro-temi (Esteri, Difesa, Interno) ma su tutto il quadro socio-economico dell’azione dell’Esecutivo? La memoria va alla vera riforma del “Premierato” quella del 1988 e alla tensione che c’era per questo modello organizzativo coordinante e concertante. Un’altra filosofia, altre priorità dell’azione di governo.

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Ci occupiamo di “rappresentazione”. Il modo in cui politica, cultura, economia, società, trovano il proprio teatro. Spesso il tema identitario fa capolino. Spesso entriamo nella disputa di ciò che si dovrebbe intendere per “interesse nazionale” o “interesse generale”. Il primo è quello istituzionale, il secondo quello sociale.

Ebbene, stando al dibattito in agenda di questi tempi, non si può chiudere questo 2023 senza dire una parola su come viene rappresentata la proposta di riforma n. 1 del Governo in carica, la riforma costituzionale che va sotto al nome di “istituzione del Premierato”.

Il Premierato al tempo della riforma della Presidenza (35 anni fa)

Dico la mia da osservatore, ma anche da ex-alunno. Alunno nel senso di aver appartenuto a quella scuola istituzionale che è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri proprio nel tempo in cui fu fatta la sua riforma, alla fine degli anni Ottanta. Costruendo quello che, per il tempo, politica e management immaginavano fosse il “Premierato”. Al tempo, lo vorrei dire subito, era un approccio rispettoso dei poteri del Capo dello Stato e, pur se con qualche fastidio, sostanzialmente non conflittuale con il Parlamento.

Faccio questa premessa per dire che, invece, proprio questa è la “rappresentazione” data alla proposta attuale di Giorgia Meloni. Rappresentazione sua, oppure dell’opposizione. Ma alla fine così raccontata nell’agenda offerta all’opinione pubblica. Due fattori in primo piano.

Ridurre quello che, con inaccettabile errore, il presidente del Senato chiama “l’accresciuto potere” del Capo dello Stato (dico errore perché non si tratta di un “potere” costituzionale conferito, ma della crescita del ruolo di moral suasion e di interlocuzione di sistema) che è obiettivo utile all’Italia perché questi adattamenti funzionali sono avvenuti nell’interesse della democrazia come gestione degli equilibri e del funzionamento istituzionale.

Mettere in angolo il Parlamento rispetto ad alcuni diritti di controllo, di negoziato politico e di legittimità di parola nel trattamento dei provvedimenti, che è l’altro “scopo” della riforma che anziché restituire prestigio finirebbe per mortificare una istituzione che è già in fondo alla classifica della fiducia degli italiani (si vedano i dati Demos di imminente annuncio).

Ecco perché faccio riferimento all’idea di Premierato che permeò la stagione di quella riforma in cui si formò una “casa” – così la chiamava Andrea Manzella che fu segretario generale o capo di gabinetto con tre presidenti di quella “casa” (Giovanni Spadolini, Ciriaco De Mita, Carlo Azeglio Ciampi) – una “casa” con proprio organico, proprio modello di funzioni, propria articolazione di management e dipendenti, senza più dipendere dai “distaccati” dai ministeri e disegnando il luogo del coordinamento per eccellenza del sistema dell’esecutivo.

Avevo allora il privilegio di appartenere, anzi di dirigere, l’unica direzione generale esistente a Palazzo Chigi (quella dell’Informazione), tutto il resto essendo architettura distaccata, che fu quindi ricompresa tra i tanti suoi nuovi organi, poi chiamati Dipartimenti. Era talmente “l’unica direzione” che nel nuovo organigramma sorto dalla riforma io, che ero tra i più giovani di età, mi ritrovai a essere il più “vecchio” per appartenenza e quindi il primo della categoria diventata da minuscola a grande dei direttori generali.

Ai quali veniva affidato – non a tutti ma ad un nucleo importante – il compito di aprire una nuova tensione di coordinamento dell’amministrazione pubblica centrale e di concertazione con le amministrazioni territoriali, che poi avrà, quest’ultima, il suo organo principale nella Conferenza Stato-Regioni. E intendo una “tensione di merito generale” non solo di supremazia legislativa.

Certo il coordinamento tecnico-amministrativo era di evidente rilievo. Ma quello economico-finanziario cominciava a contare parecchio. Quello – la parola non si usava molto, ma il senso era quello – geopolitico cominciava ad esprimersi (includendo naturalmente gli Affari Esteri). Eccetera. A me – per le competenze assegnate al tempo al Dipartimento, che erano anche corrispettive a ministeri ancora con competenze limitate, tra cui le Poste e i Beni culturali, era dato di lavorare su aspetti del coordinamento culturale e, per usare una parola di sintesi, reputazionale del Paese. In certi momenti e per alcune questioni si cominciava a profilare anche un coordinamento sociale (che aveva un proprio ambito dipartimentale).

Insomma, quello del coordinamento generale delle funzioni di governo sarebbe stato un tema di lunga durata, ma si crearono le premesse di un cantiere ritenuto necessario.

Faccio questi riferimenti sommari per ricordare il funzionamento, al di là del ruolo dei ministri, di molti tavoli con dirigenti, esperti consulenti che riguardavano quasi tutte le amministrazioni dello Stato, finalizzati per scopo, per aree di intervento (spesso inter-sezionate), per ambiti territoriali. Eccetera.

Il coordinamento efficace di tutta l’azione di governo

Non entro adesso nel merito delle infinite pratiche ed esperienze che si dipanavano attorno al cantiere del “coordinamento” (per me fu esperienza di dieci anni e di dieci governi). Dico solo che quella “tensione” era terreno di una battaglia sempre aperta, con passi avanti e parecchi irrisolti, molti tentativi ma anche la formazione di tante “repubbliche separate”.

Dalle informazioni che raccolgo, anche attraverso il pensiero di dirigenti, che erano giovanissimi funzionari ai miei tempi e ora sono a livelli alti di quell’organizzazione, questo coordinamento avviene oggi principalmente, ma anche limitatamente nella sfera dei legislativi, in cui il potere dell’ultima parola – accompagnato da quello della bollinatura della Ragioneria generale –  è del Legislativo di Palazzo Chigi su tutto il processo che riguarda il motore decisionale nella produzione di norme.

Ma l’Esecutivo non è solo fatto di produzione di norme. C’è molta istruttoria e c’è molto contesto attuativo.

Mi risulta che, per il grosso delle materie (diciamo esclusi Esteri, Difesa, Interno), quel coordinamento è spesso così rilassato da rendere il “premierato” un “compremierato” e in molti casi un “sentiamoci quando è possibile” affidato a consultazioni casuali, al di là naturalmente dal consesso rappresentato dall’organo politico di governo, cioè il Consiglio dei Ministri, che ha le sue specifiche procedure.

Certo, quando la storia mette a capo di un ministero, anche non di prima linea, un Massimo Severo Giannini capace di sfornare rapporti strategici idonei a guidare la sua compagine verso obiettivi alti, cambiano le forme stesse del coordinamento. Ma siccome di questo genere di ministri non se ne vedono molti da un pezzo, il tema della riforma possibile resta almeno quello della riqualificazione del modello organizzativo.

Non faccio qui una casistica dettagliata, da cui si potrebbero cogliere chiaroscuri più che una deriva generalizzata. Ma si capirebbe anche che proprio il modello organizzativo del processo coordinante è piuttosto sfaldato. Non credo che questa debolezza rispetto all’efficacia immaginata sia solo un problema “tecnico” perché l’efficacia dell’azione di Governo è un problema politico.

Faccio pochissimi esempi. Dopo lo scatenamento della pandemia credo sia chiaro a tutti che le grandi questioni della Salute e della Sanità non possono essere confinate nella Conferenza Stato-Regioni, cioè nel millimetrico conflitto di competenze e di trasferimenti e in un tavolo che investa ricerca, educazione, prevenzione, ambiente, eccetera.

L’altro grande snodo, quello della Scuola è tornato al suo passato: tavolo tra il Ministero e le categorie sindacali dei docenti. E come fa la scuola a entrare nell’agenda strategica nazionale in questo modo? E – prendo un esempio nei settori produttivi – davvero il ‘made in Italy’ è un problema solo di un ex-ministero dell’Industria che lo usa per difendere una bandiera in un tempo in cui persino questa etichetta non si può più usare tanto facilmente perché non c’è più una manifattura di tradizione fatta (made in Italy) con componenti davvero prodotte in Italia e dunque che passa attraverso il ripensamento di molti comparti tutti con problemi di insufficiente internazionalizzazione.

Quanto al ministero passato dai Beni culturali alla Cultura, se un giorno al ministro passa per la testa di dire che Dante è stato il capo culturale della destra italiana senza che Pubblica Istruzione, Università, chi governa la rete degli istituti di cultura all’estero, solo per citare i più coinvolti, trovino il modo bilanciante di togliere di mezzo l’imbarazzo di questo messaggio, si vedono le conseguenze delle “repubbliche separate”.

Soprattutto non c’è nessuna delle crisi dichiarate tali negli ultimi dieci anni (sicurezza, migrazioni, endemie, occupazione, crescita, sostenibilità ambientale, la questione trasversale del gap digitale) che possa finire in questa o quella mono-burocrazia oppure cercare vie d’uscita nell’unione delle competenze convergenti,  stimolate a lavorare insieme e guidate da funzionari della Presidenza del Consiglio dei Ministri che prendono più stipendio di altri non perché raccomandati ma perché dovrebbero specializzarsi nella concertazione (e quindi avere ognuno di loro più di una competenza settoriale).

Basta con le riforme apparenti!

Ecco allora che proprio il principio di istituzioni a difesa di interessi generali e nazionali aiuta a invocare attorno a questi scopi e non per aspetti più celebrativi o propagandistici una misura di rafforzamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, misura, in questa proposta, suona come “roboante” ma non concepita sul terreno dell’efficacia dell’azione di governo. 

Se alla fine il risultato di uno scontro sui massimi sistemi (Matteo Renzi lo personalizzò e per altro fu questo il principio del suo declino) porta a mettere qualche bavaglio al Parlamento o qualche limatura delle esternazioni del Quirinale e non migliora di un grammo la qualità della concertazione governativa, perdiamo anche l’occasione di fare qualche passo di metodo verso l’Europa, non so se tutti i Paesi ma i più importanti sì che non perdono di vista le loro amministrazioni perché stiano al passo con le crisi e con le opportunità del nostro tempo.

Fatemi fare una “rappresentazione figurata” delle due riforme possibili di Palazzo Chigi. Giorgia Meloni pare voglia fare quella da lei in su, mentre quella che sarebbe davvero utile all’Italia è da lei in giù.


[1] Ilmondonuovo.club, 23 dicembre 2023. Versione audio: https://www.ilmondonuovo.club/premierato-riforma-con-scopi-sbagliati/.