L'analisi

Democrazia Futura. A cosa serve la politica oggi

di Carlo Rognoni, giornalista, ex vicepresidente del Senato, già consigliere di amministrazione della Rai |

Non solo aderire a una proposta, ma condividerla in rete scambiando con i propri aderenti il potere di decisione.

Carlo Rognoni

Con Carlo Rognoni Democrazia futura inaugura una nuova rubrica La Grande Tela e la Civiltà della Rete che si propone di discutere su come  ricostruire nell’era della grande trasformazione digitale un sensus communis, una sfera pubblica e un destino e un nuovo umanesimo condivisi da miliardi di soggetti che popolano il nostro pianeta. In questo primo contributo l’ex consigliere Rai e vice presidente del Senato, facendo proprie alcune analisi di Zygmunt Bauman e Shoshana Zuboff cerca di rispondere “A cosa serve la politica oggi?” Per Rognoni “una proposta politica – che non può essere disgiunta da un modello organizzativo e da un livello di saperi e competenze – deve riconoscere le tante spinte per la ricerca di un’identità individuale che caratterizzano la società odierna. Deve anche sapere integrare la flessibilità e frammentarietà della rete, scambiando con i propri aderenti il potere di decisione. Non c’è solo adesione a una proposta, ma dev’esserci condivisione”.     

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I partiti sono in crisi, la democrazia è in crisi. E la politica? Perché facciamo fatica perfino a domandarci a che cosa serva? Eppure la risposta è facile: serve a capire la realtà e alla stragrande maggioranza dei cittadini, degli elettori, serve a individuare i bisogni e cercare di capire chi può e come soddisfarli.

E allora? Perché molti pensano che la politica sia anch’essa in crisi? Che cosa è successo? Il mondo è cambiato. D’accordo. Sembra una banalità. Ma è cambiato così tanto da farci perdere i tradizionali punti di riferimento.

“Il mulino ad acqua ci ha dato la società medioevale. Il mulino a vapore, la società industriale”

Parole di Karl Marx. E’ venuto il momento di domandarci: che società ci sta dando, ci darà, il mulino digitale? La politica non entrerà nel XXI secolo fino a quando non risponderà a questa domanda.

Partiamo da Zygmunt Bauman. Ha scritto:

“Il diritto a diventare eguali è stato rimpiazzato dal diritto a essere e rimanere differenti, senza che questo significhi negare la dignità e il rispetto. Le lotte di classe sono state spinte fuori dalla scena, e il loro posto è stato occupato dalle lotte per il riconoscimento identitario”.

Insomma nell’immaginario collettivo non conta più tanto chi ti propone e chi ti offre di combattere per l’eguaglianza; oggi, cittadini ed elettori chiedono il rispetto della differenza, della diversità.

Vogliamo riflettere sul peso della rete, della rivoluzione digitale?

Nel secolo che abbiamo alle spalle tutto era fabbrica: la scuola, l’ospedale, la giustizia, la redazione di un giornale. Tutto procedeva secondo un modello top-down. Vi era un capo, i mediatori, gli esecutori. E tutto sembrava molto ordinato: i proprietari pagavano, gli intellettuali pensavano, l’intendenza seguiva.

Poi arriva Bauman che ci informa che siamo in una complessa transizione che ci sta portando dalla trilogia composta da lavoro di massa/consumo di massa/mass-media a un’altra del tutto distante e distinta dove osserviamo lavoro individuale/consumo personalizzato/media on demand. Nulla è più come prima.

Già nel 1937, nella seconda edizione del suo celeberrimo saggio L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin capisce che attraverso le prime rubriche di lettori che venivano pubblicate sui giornali si innesta un processo per cui “ogni lettore siederà accanto al direttore”. Esattamente quanto si sta configurando con il giornalismo diffuso.

La scomposizione del lavoro spinge sulla scena uno sciame di individui, diciamo circa 5 miliardi rispetto ai 400/600 milioni che erano parte dello spazio pubblico solo quarant’anni fa, che acquisiscono pratiche, esperienza, competenze, sicuramente coltivano ambizioni.

C’è un grande sociologo americano del Novecento, Vannevar Bush, che annuncia il nuovo mondo proprio qualche settimana prima della fine del secondo conflitto mondiale.

Il futuro duopolio del potere fra occidente e blocco sovietico è al centro di un ragionamento che Bush sviluppa: pensava ad un sistema mondiale dove la produzione della ricchezza non era più demandata al meccanismo manifatturiero della produzione industriale. In quel meccanismo Bush vedeva le basi dell’espansione sovietico che poggiava proprio sulla rappresentanza degli interessi delle figure di produzione materiale nel ciclo fordista. Bush pensava, invece, ad un uso del sapere in grado di rendere più leggera e anche più conveniente la vita sociale. Invece di proletarizzare il ceto medio, come si aspettava la sinistra – secondo Bush – si dovrebbe “cetomeditizzare” il proletariato. Grazie a un consumo di massa e alla progressiva smaterializzazione della produzione.

In pochi decenni il bisogno di cambiamento cresce: le istituzioni, i partiti, i sindacati, gli stessi apparati professionali, dalla giustizia alla sanità, sono circondati da una moltitudine che rivendica il diritto individuale a ricontrattare i mandati, le deleghe.

Gli intellettuali continuano a studiare, accumulando conoscenze che li rendono pur sempre indispensabili; la gente comune comincia a entrare in contatto con esperienze e occasioni di informazione e formazione. Accorciando le distanze dagli esperti. I vertici si indeboliscono, le élite si arroccano, le istituzioni diventano più precarie.

Oggi il volto ideologico di questi sommovimenti appare più sensibile ai temi reazionari o conservatori. Siamo di fronte a una nuova forma di capitalismo, che Shoshanna Zuboff ha chiamato di “sorveglianza”, in cui i nuovi giganti sono le piattaforme, i titolari dei dati e degli algoritmi – come ci ricorda da anni un giornalista esperto del mondo digitale come Michele Mezza

E’ un nuovo terreno di conflitto dove non si può rimpiangere quanto fosse verde la nostra valle, la valle dell’ordine fordista, dove ognuno aveva identità e ruolo, ma dove solo su una parte gravava la fatica della produzione. Oggi sulla scena è apparsa una quota enormemente maggiore di umanità, che rivendica il diritto di interferire. Se non trova proposte e strategie convincenti, come spiegava Hannah Arendt nella sua analisi del totalitarismo,

“irruppero sulla scena plebi per rivendicare il diritto a esserci anche a rischio della propria distruzione”.

Quella valle che qualcuno rimpiange, parlando di Cultura, Giornalismo e Democrazia con le lettere maiuscole, era in realtà un salottino di 400/600 milioni, mentre oggi sono almeno 5 miliardi quelli che pretendono di dire la loro, sconvolgendo organizzazione e modelli sociali, appropriandosi di strumenti d’azione che mutano le gerarchie.

Uno scenario, questo, dove si pretende di avere servizi e riposte in real-time ovunque, gestibili solo da processi di automatizzazione della condivisione dei saperi e dei linguaggi.

Mi piace ricordare Italo Calvino, di cui nel 2023 si è celebrato la nascita avvenuta 100 anni fa. Scriveva Calvino:

“L’uomo sta cominciando a capire come si smonta e rimonta la più complicata e imprevedibile di tutte le macchine: il linguaggio. Avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore, di ideare e comporre poesie e romanzi? Penso a una macchina scrivente che mette in gioco tutti gli elementi che consideriamo i più gelosi attributi della nostra intimità”.

Non so quanti di voi hanno cominciato a usare l’intelligenza artificiale ChatGPT. Ebbene, l’intelligenza artificiale sarà anche una tecnologia ma a me sembra un elemento portante delle relazioni sociali. La novità? Con l’intelligenza artificiale milioni di individui già oggi aumentano le proprie capacità e incrementano le proprie ambizioni, disintermediando istituzioni e figure professionali (giornalista, medico, avvocato, dirigente politico).

In questo contesto una proposta politica che non può essere disgiunta da un modello organizzativo e da un livello di saperi e competenze – deve riconoscere le tante spinte per la ricerca di un’identità individuale che caratterizzano la società odierna. Deve anche sapere integrare la flessibilità e frammentarietà della rete, scambiando con i propri aderenti il potere di decisione. Non c’è solo adesione a una proposta, ma dev’esserci condivisione.