Il cinema

Democrazia Futura. 60 anni fa usciva in sala “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni

di Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico |

Il capolavoro del regista ferrarese sessant’anni dopo con le riflessioni di Venceslav Soroczynski per Democrazia Futura: "È un cinema che non tornerà, perché queste atmosfere non si girano più ... e forse non si cercano neppure nella vita vera, perché la velocità ha dissipato la bellezza e i soldi l'intelligenza"

Venceslav Soroczynski, pseudonimo di un giovane scrittore e critici letterario che vive nell’Italia nordorientale, invita i lettori di Democrazia futura a rivedere a 60 anni dall’uscita in sala l’Eclisse, il capolavoro di Michelangelo Antonioni interpretato con “fascino silenzioso” da una giovane quanto straordinaria Monica Vitti.

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Ci sono giorni in cui avere in mano un ago,
una stoffa, o anche un libro, o un uomo,
è la stessa cosa

Se mi chiedete di descrivere delle labbra, disegnare degli occhi, immaginare il suono di una risata, penserò alle labbra, agli occhi, alla risata di Monica Vitti.
Al suo fascino silenzioso, alla sua bellezza annoiata, alla sua camminata incerta sulle scale.
Al suo viso quando guarda la cinepresa e anche quando non la guarda.

E tutto questo è incastonato nella mia mente perché l’ho trovato in un film. Questo film. L’eclisse di Michelangelo Antonioni. Che si apre con un interno alto borghese e un uomo che dice:
Voglio solo farti felice”.
E una ragazza che risponde:
Quando ci siamo conosciuti, avevo vent’anni ed ero felice”.
Quell’ero va letto in corsivo.

E poi è tutto un registrare asetticamente la vita, documentare la fine di un amore sotto un tetto e l’inizio di un altro su una strada.

È una pellicola di lunghi silenzi, di sguardi vuoti che mirano l’infinito, o il dentro di sé. I capelli sono mossi dal vento in una strada desolata, o da un ventilatore in un lunedì 10 luglio, o da un ragionamento troppo difficile da condurre.
Uno dei film più belli che l’uomo possa vedere.

Un miracolo di senso e dei sensi. Una costruzione minuziosa ed estesissima, un porgere con delicatezza contrasti di caratteri, di ambienti, di sguardi, di istinti, di topografie.

Evidente è l’opposizione fra la frenesia della borsa valori e l’anemia affettiva dei personaggi; fra una madre che investe sui mercati e una figlia che non sa come disinvestire il suo cuore; fra il bianco dei volti e delle pareti e il nero degli abiti e delle scarpe lucide.

È come una scacchiera interiore, questo film; come un gioco da tavolo a due, in cui o si vince insieme, o si perde entrambi.

Indimenticabili il minuto di silenzio in borsa per la morte di un operatore finanziario, minuto che termina in un inferno di compravendite, risate e superstizione.

La curiosità e l’ingenuità della donna, la leggerezza e il pragmatismo dell’uomo, esperto operatore di borsa che però non si aspettava la domanda:
Ma quando uno perde in borsa, i soldi dove vanno?

Chi nel cinema cerca solo l’azione può fare a meno di guardare questo Antonioni: durante certe scene, fate in tempo ad andare in cucina, mettere su il bollitore del the, aspettare che fischi e tornare in soggiorno. Ma vi perdereste il vento nei rami, l’avarizia dei baci, le strade di periferia, la poesia dell’accadere involontario e quotidiano nelle immagini del finale.

Chi, invece, cerca l’azione senza prima aver provato qualcosa di diverso, impieghi due ore in questa pellicola.

È un cinema che non tornerà, perché queste atmosfere non si girano più e tantomeno si vendono a 7 euro il biglietto. E forse non si cercano neppure nella vita vera, perché la velocità ha dissipato la bellezza e i soldi l’intelligenza.

Questo è il cinema italiano che non riesco a sostituire con nessun altro e a cui penso quando cerco qualcosa per cui commuovermi durante l’inno nazionale.