L’Autorità di regolamentazione delle telecomunicazioni italiana, AGCOM, con la delibera sulle CDN si è trovata al centro di una dura battaglia di lobbying che vede contrapposti il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i giganti tecnologici americani, da un lato, e la Commissione europea e gli operatori di telecomunicazioni europei, dall’altro.
Pomo della discordia la controversa questione delle “tariffe di rete” (o fair share), ovvero l’idea che piattaforme come YouTube, Netflix e Prime Video debbano contribuire finanziariamente alle infrastrutture di telecomunicazione, dato l’elevato traffico dati che generano sulle reti europee e per il quale non pagherebbero nulla.
La Commissione von del Leyen si è ripetutamente impegnata a non perseguire questa idea a livello UE, consapevole delle potenziali ritorsioni dell’amministrazione Trump e del rischio dazi. Ma a Roma, le recenti decisioni normative dell’Agcom sono ora sotto esame, poiché potrebbero aprire la porta all’Italia – o persino all’UE – per riesaminare il dibattito sul fair share in modo surrettizio. Lo scrive Euractiv in una lunga analisi del caso italiano sulle CDN, che potrebbe fare scuola in Europa e che potrebbe allargarsi a macchia d’olio in altri paesi Ue. Un partito che annovera fra le sue fila anche Marina Berlusconi, che si è schierata apertamente contro le Big Tech.
Chi sono le CDN
Stiamo parlando CDN provider globali come:
Akamai, Cloudflare, Amazon CloudFront, Microsoft Azure CDN, Google Cloud CDN, Fastly, Edgio.
E di Content and Application Providers (CAP) con infrastrutture proprie in Italia: Netflix, Amazon Prime Video, YouTube/Google, DAZN, Disney+, Meta (Facebook, Instagram), TikTok.
Prima del dibattito sul fair share, i guai del calcio
Sebbene l’idea del fair share sia stata proposta per la prima volta dalla Commissione nel febbraio 2024, le origini della decisione dell’AGCOM risalgono a qualche anno fa, a una preoccupazione tipicamente italiana che non ha nulla a che fare con i dibattiti geopolitici commerciali: il calcio.
Nel 2021-2022, la piattaforma britannica DAZN ha acquisito i diritti esclusivi della Serie A. Ma interruzioni e streaming di scarsa qualità hanno suscitato indignazione a livello nazionale, con i tifosi impossibilitati a guardare le partite. Lo scandalo è diventato un simbolo nazionale del predominio delle piattaforme sui contenuti culturali essenziali.
L’AGCOM è intervenuta nel 2021, ordinando a DAZN di migliorare l’affidabilità. L’azienda ha risposto implementando una rete di distribuzione di contenuti (CDN) per stabilizzare il servizio.
L’AGCOM ha quindi richiesto a DAZN di ottenere un’autorizzazione generale per le telecomunicazioni, uno status normalmente detenuto dagli operatori di rete. Nel 2024, l’Italia ha deciso di codificare la propria legge sulle telecomunicazioni in modo che le CDN rientrino esplicitamente nella giurisdizione dell’AGCOM, richiedendo loro di registrarsi e di rispettare determinate regole di rete.
Nell’agosto 2025, l’AGCOM ha formalizzato questo quadro normativo classificando le CDN come infrastrutture di rete. Ciò non significa che i fornitori di contenuti siano soggetti a tutte le regole del quadro normativo nazionale per le telecomunicazioni, ma solo a quelle “rilevanti” per la loro attività di streaming.
L’AGCOM insiste sul fatto che non intende imporre canoni per l’uso della rete
“Il provvedimento non introduce alcun obbligo di fair share. Dal conseguimento dell’autorizzazione generale non deriva alcuna previsione di una tariffa regolamentata per l’IP peering che potrebbe anche continuare, in linea con quanto attualmente previsto nel panorama comunitario, ad essere basato su accordi commerciali tra le parti.” “, ha detto il commissario Agcom Massimiliano Capitanio in un’intervista a Key4Biz dello scorso 8 agosto. c’è da dire che Asstel è favorevole alla delibera dell’Autorità.
Da chiarimenti tecnici a una tempesta di lobby
Nonostante le rassicurazioni di Agcom, la tempistica della sua decisione – un anno dopo che la Commissione aveva lanciato l’idea in un Libro bianco che dava l’addio al fair share e cinque mesi prima della prevista revisione del Codice delle telecomunicazioni dell’UE con il Digital networks Act – ha attirato l’attenzione di Bruxelles.
La decisione dell’Agcom le conferisce un maggiore controllo sul mercato dell’interconnessione IP, dove gli operatori e le piattaforme di telecomunicazioni concordano le modalità di flusso dei dati tra le reti. L’Agcom ora richiede che queste negoziazioni si svolgano a “condizioni eque e trasparenti”.
Per i giganti dello streaming, questo è motivo di preoccupazione.
Le critiche della CCIA Europe
In un rapporto pubblicato il mese scorso, la lobby tecnologica statunitense CCIA Europe ha avvertito che i poteri dell’AGCOM potrebbero fornire una “porta di servizio” per reintrodurre le tariffe di rete in Italia, o persino influenzare la legislazione europea.
In altre parole, la decisione sulle CDN potrebbe far rientrare dalla finestra il fair share, uscito dalla porta lo scorso anno dopo una consultazione pubblica della Commissione Ue.
“È solo questione di tempo prima che la Commissione suggerisca di estendere il potere regolamentare italiano a livello UE, imponendo di fatto i canoni di rete dalla porta di servizio”, ha detto Maria Teresa Stecher, responsabile delle politiche della CCIA.
Connect Europe favorevole
Da parte sua, la lobby europea delle telecomunicazioni Connect Europe ha espresso un parere opposto, sostenendo una regolamentazione più ampia del mercato delle interconnessioni per alleviare l’onere dei costi che gli operatori di telecomunicazioni affermano di dover affrontare.
Alla Commissione europea è stato chiesto se la decisione dell’AGCOM potesse aprire la strada al ritorno del fair share a livello UE attraverso poteri di vigilanza più ampi nel settore delle telecomunicazioni.
In Italia, la questione del fair share è diventata politica
Nell’ottobre 2024, i partiti al governo, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, hanno proposto emendamenti alla legge sulla concorrenza per obbligare le grandi aziende tecnologiche come Google, Meta e Microsoft a contribuire ai costi delle telecomunicazioni. Il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha pubblicamente sostenuto questa idea.
Tuttavia, questi emendamenti sono stati dichiarati inammissibili. Il Ministro dell’Industria Adolfo Urso aveva definito questi contributi “di buon senso”, ma sono rapidamente emerse divisioni interne.
Poco dopo, tuttavia, il governo ha cambiato tono, perché ci sono stati mesi di scontri interni tra il Sottosegretario Alessio Butti (contrario al fair share) e il Ministro Adolfo Urso (possibilista) prima che la maggioranza sembrasse propendere per il rifiuto dell’equa ripartizione.
Pressing di Trump in difesa delle Big Tech
Questo tira e molla interno ha coinciso con la crescente pressione degli Stati Uniti contro qualsiasi iniziativa ritenuta penalizzante per i giganti tecnologici americani. Questo cambiamento ha coinciso con il ritorno di Donald Trump e la nomina di Brendan Carr a capo della Federal Communications Commission statunitense. Brendan Carr, che in precedenza aveva sostenuto le tariffe di rete, ha smesso di promuovere l’idea dopo l’insediamento, dimostrando l’allineamento delle grandi aziende tecnologiche con l’amministrazione Trump.
È chiaro che la “fair share” – un sistema punitivo e penalizzante per le Big Tech – non sarebbe ben accolta da Trump, così come altre normative considerate penalizzanti per le Big Tech, come il DMA [Digital Markets Act] e il DSA [Digital Services Act]. Resta quindi da vedere se l’Europa sarà disposta a rischiare nuovi dazi e, di conseguenza, quale sarà la posizione di Giorgia Meloni.
Ne frattempo, il sito Punto Informatico rende noto che una serie di associazioni ha scritto una lettera aperta al Governo per bloccare la norma che vuole equiparare le CDN alle reti di telecomunicazioni.
Le associazioni tech contro la delibera AGCOM sulle CDN
I firmatari sono CCIA Europe (Computer & Communications Industry Association), ITI (Information Technology Industry Council), Altroconsumo, BSA (Business Software Alliance), InnovUp e Internet Infrastructure Coalition. La lettera è stata inviata da Giorgia Meloni (presidente del Consiglio), Adolfo Urso (ministro delle imprese e del made in Italy) e Alessio Butti (sottosegretario con delega all’innovazione), esprimendo profonda preoccupazione e parlando esplicitamente di una classificazione impropria.
“Tale delibera rappresenta un’estensione ingiustificata dell’ambito di applicazione del Codice. Le CDN operano trasportando traffico in modo privato, a differenza dei servizi di telecomunicazione pubblici che servono direttamente gli utenti finali. Pertanto, tale misura danneggerà l’ecosistema digitale italiano, scoraggerà gli investimenti infrastrutturali e introdurrà, di fatto, network usage fees in violazione degli impegni commerciali UE-USA dell’Agosto 2025, in cui l’Unione Europea si impegnava a non introdurre nessuna tipologia di network fee, puntando quindi sulla positiva cooperazione tecnologica tra Europa e Stati Uniti”.
Chiamato in causa anche il DNA
È chiamato in causa anche il Digital Networks Act. Il rischio sarebbe quello di applicare una misura nazionale che anticiperebbe il quadro normativo europeo, frammentando il mercato unico digitale anziché armonizzarlo.
“È particolarmente preoccupante che l’Italia, che si era già opposta all’introduzione di una network fee già nel 2023, ora si muova unilateralmente, rischiando di creare un pericoloso precedente a livello europeo”.
Riconoscere le CDN come reti di comunicazione elettronica, inoltre, sottoporrebbe anche i CAP (Content Application Providers) ai meccanismi di risoluzione delle controversie con gli operatori di telecomunicazioni previsti dall’articolo 26 del Codice.