Il quadro

Causeries. L’idea di Europa in crisi, tra aspirazioni e realtà. Ecco perché

di Stefano Mannoni |

L’Europa di questi tempi non è molto popolare: un quadro accattivante delle sue istituzioni nel libro del Mulino ‘Profili dell’Unione Europea’ di Roberto Bin, Paolo Caretti, e Giovanni Pitruzzella

#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Sarà perché l’Europa di questi tempi non è molto popolare che mi è venuta in mente, dopo avere letto il titolo di un libro pubblicato dal Mulino, Profili costituzionali dell’Unione europea (2015), una poesia di Bertold Brecht.

Scritta all’indomani della rivolta degli operai tedeschi nella Germania Est del 1953, Brecht che se lo poteva permettere, essendo l’intellettuale ufficiale del Regime,  si lasciò  andare a un commento sarcastico che non gli valse nessun rimbrotto: “ Dopo la rivolta del 17 giugno il segretario dell’unione degli scrittori ha disposto la distribuzione di volantini stalinisti, i quali affermavano che il popolo, avendo perduto la fiducia del governo, poteva riconquistarla solo raddoppiando gli sforzi. Ma allora non sarebbe meglio per il governo sciogliere il popolo e scegliersene un altro?”.

Ricordate la costituente europea in gran pompa e i referendum negativi che ne seguirono? Dopo la Caporetto costituzionale che ha affossato il modello di un costituzionale classico, legittimato dai popoli, si è scelto comunque di rimediare: quello che era uscito dalla porta principale doveva per forza rientrare da quella di servizio.

Ma forse l’errore e mio.

Siamo abituati a concepire la costituzione di un popolo: che sia sovrano, dotato di un potere costituente che attraverso l’esercizio di questa volontà costruisca una identità e un progetto comune. Tanto forte da chiamare alle armi i suoi cittadini chiedendogli di immolarsi sul campo di battaglia; tanto forte da distinguere la propria cultura da quella degli altri e da riconoscersi in una narrativa storica che fa da collante nazionale. Temo di avere perso il conto degli Stati membri dell’Onu, ma credo che la maggior parte di questi abbiano seguito tale schema che non è altro che quello tenuto a battesimo dalle Rivoluzioni Americane e Francese. A rimanere fuori dalla statualità sono i palestinesi che vi aspirano dal 1917 e continuano ad esserne esclusi: magari non per l’apartheid – pare che non ci sia – ma perché sono più chiaroveggenti degli altri sull’inevitabile declino della forma di stato basata sull’etnia e sulla terra.

Qualcosa però nel frattempo è cambiato, a dare man forte a chi pensa di sbarazzarsi di questa anticaglia settecentesca della costituzione. Non è per caso – ci si chiede –  che democrazia sia un’etichetta rutilante, champagne che serve solo a dissimulare un volgare cassis: il che induce all’irrazionalità i suoi consumatori, riducendoli alle volgari pulsioni del populismo, canaille, brutish etc..

Phillippe Riés, autore qualche anno fa del brillante pamphlet ”L’Europe malade de la démocratie” (Grasset) afferma esattamente questo. L’Europa è nata da un progetto concepito da un élite ristretta, e fortunatamente è restata oligarachica, regalando benefici e prospettive che il vecchio continente non poteva nemmeno sognare. Ebbene: elitista era ed elitista deve restare: questo il suo verdetto. Se il populismo se ne impadronisse, invece dell’interesse generale, vedremmo spuntare come funghi privilegi, corporazioni, limiti surrettizi, ataviche diffidenze. Insomma, tutto quello per cui Robert Schuman, un alsaziano francese, aveva combattuto nell’esercito tedesco nel 1914; Alcide De Gasperi, è stato deputato al parlamento austriaco; e infine Konrad Adenauer, da buon renano cattolico, si trovava può a suo agio con i francesi che con i prussiani luterani.

E’ vero che gli storici si sono affrettati ad avvalorare questa notevole sterzata, affermando che anche in passato sono esistite costituzioni senza costituzione: solo per citarne una, quella del Sacro romano Impero che due meriti almeno li ha avuti: chiudere cento anni di feroci lotte religiose e impedire che mezza Europa parlasse turco, respingendo l’assedio di Vienna.

L’unico problema è che se costituzione significa tutto, allora non significa niente: una piccola difficoltà semantica che attende almeno una risposta.

Se su questa scelta del titolo che –  vogliamo concederlo –  non è di diritto positivo ma di diritto prospettivo non concordo per nulla, la musica cambia se passiamo ai contenuti del libro. Chi non frequenta i libri di diritto comunitario generalmente non si è perso niente: la noia miete le sue vittime stroncate da uno stile pomposo o zeppo di dettagli inutili che fanno talvolta rimpiangere di essere europei.

Sorpresa allora! Qui si passa da un pedante Lieder a Haydin.

I tre autori, Paolo Caretti, Giovanni Pitruzzella, Roberto Bin sono tre star nella loro materia. Risultato: lo stile è chiaro ed essenziale; i contenuti completi, precisi e cautamente problematici, e persino il lettore incuriosito non ne rimarrà deluso. Ammesso che gli piaccia ancora l’Europa, dovrà ammettere che perlomeno le sue istituzioni sono ricostruite con una penna accattivante e, per lo più, persuasiva, sulle tante grandi conquiste che questo strano esperimento istituzionale ci ha regalato. Grazie: ci farà dormire un po’ meglio, con qualche sicurezza in più e qualche incubo in meno.

Ma non riposate sugli allori, Signori miei autori: la cronaca mi fa pensare – chissà poi perché – che si dovranno mettere presto di nuovo al lavoro per scoprire se la loro “costituzione” ha guadagnato punti o ha perso qualcuno dei pochi che le restavano tra le molte prove che le tolgono il fiato.