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BreakingDigital. I coccodrilli di Tiziana e i nani della rete

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

La tragedia di Tiziana, la giovane che si è uccisa per il dileggio subito dopo la pubblicazione online di alcuni filmati hard, ha dato la stura al rancore strisciante per l’inarrestabile diffusione della rete.

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google,Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Dagli “webeti” di Mentana siamo in pochi giorni arrivati agli assassini dei social. La tragedia di Tiziana, la giovane donna uccisasi a Napoli nei giorni scorsi per il dileggio a cui era sottoposta dopo la pubblicazione in rete di alcuni filmati hard, ha dato la stura a qualcosa che ognuno conserva dentro di sé: il rancore per l’incessante diffusione della rete.

La tragica vicenda di Napoli contiene emblematicamente tutti gli ingredienti di questa moderna ed ambivalente psicopatologia di massa.

Tiziana, per compiacere, sembra, ad alcune pulsioni dell’ex fidanzato, imprudentemente acconsente ad inviare ad alcuni suoi presunti amici un filmato dove la si vede distintamente mentre fa sesso con un altro ragazzo. L’intera azione è concepita ed eseguita con il programmatico fine di condividere le immagini e rendere, almeno in una cerchia ristretta, evidente l’amplesso e i suoi protagonisti.

Non voglio entrare nella dinamica processuale, anche perché il gesto estremo di Tiziana impedisce a chiunque di banalizzare il dramma sotteso ad ogni passaggio di questa vicenda.

Ma credo si debba entrare nel merito delle reazioni, soprattutto di quelle di una pletora di personaggi che sono in agguato con il randello in mano da tempo nei confronti del mondo digitale. Giornalisti, scrittori, maestri di etica e dispensatori di prescrizioni di vita tanto al chilo.

In sostanza, intellettuali delusi e frustrati da un’incipiente marginalizzazione. Reazioni a cui si è allineata un’opinione pubblica palesemente turbata, infastidita, anche danneggiata forse, dalla marea di una partecipazione sociale che la rete rende possibile.

L’emblema di questi azzecca garbugli delle belle lettere è una delle ultime dichiarazioni di Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli”.

Una paradossale retromarcia del grande semiologo, che pure era stato fra i primi a cogliere il valore culturale dei nuovi meccanismi digitali, che giunto ad una certa età si sentiva insidiato da quel brusio e in qualche modo ha prestato la sua autorevolezza ad una vandea culturale che cerca, tutt’ora di rimettere più indietro le lancette della storia.

Dietro all’ondata di indignazione che di volta in volta sfrutta pretesti ed episodi, questa è la vera clava: ognuno torni al suo posto, e lasciateci lavorare.

Questo è il regolamento di conti che si intravvede fra le righe delle esecrazioni per gli eccessi della rete.

E’ una storia che inizia tanto tempo fa. Ben prima della rete.

Platone ne è uno dei primi fautori, con la sua tirata contro la scrittura nel Fedro, dove rimprovera quella pratica che consente a chiunque di dare conto di quello che pensa, umiliando la memoria dei dotti.

Da lì, arriviamo a Bernardo da Chartres che, nel passaggio dalla pergamena al libro, nel XII secolo, ingiunge alle velleità di chi pensa di potersi mettere in proprio che “siamo tutti nani sulle spalle dei giganti” che sono gli unici che possono pubblicare libri.

E poi, dopo l’avvento della stampa, arriviamo nel 1680 a Leibniz, che maledice “un’orribile massa di libri che cresce incessantemente”.

Ancora Victor Hugo, che si scandalizza per le tante case editrici e le troppe librerie a Parigi: “arriveremo all’infamia in cui ognuno potrà stampare e vendere il proprio libro”. E giù giù in tempi più recenti fino a Hemingway, che denunciava le bufale dei giornali e alla Tv cattiva maestra di Popper.

Se avessimo tempo, ognuno di questi passaggi, in ognuna di queste fasi della storia, segnata da una estensione degli accessi all’informazione e soprattutto dall’inesorabile aumento della capacità di produrre contenuti, ha conosciuto la tragedia delle sue Tiziane. In ogni frangente ci sono state vite travolte da un uso improprio e scorretto, addirittura criminale come nel caso specifico, della nuova maggiore e sperimentale opportunità di comunicare.

In ognuna di queste fasi però la civiltà è progredita e si è affermata con l’assimilazione delle nuove modalità e dinamiche sociali che lo sviluppo dei sistemi di comunicazione comportava. Norme, culture, leggi e valori si sono adattati ed hanno prodotto quello che chiamiamo progresso.

Se vogliamo rimanere alla cruda realtà del suicidio di Tiziana, appare evidente che la responsabilità prioritaria e pregiudiziale è di chi ha concepito l’idea di diffondere, seppur in una stretta cerchia un documento così intimo, senza alcune garanzie; e poi soprattutto dei destinatari di un documento confidenziale, che hanno voluto diffonderlo, prescindendo dalla volontà dell’autore e del protagonista.

Sono loro i responsabili del dileggio che ha spinto al suicidio Tiziana. Poi subentra il carattere diffusivo, moltiplicatore, della rete, che rende, ad un certo punto, ingovernabile la circolazione dell’informazione.

Mi ha molto colpito in alcuni dei più indignati commenti apparsi sulle prime pagine dei giornali, nessuno dei quali peraltro si è privato della pubblicazione della foto della vittima, la dovizia di particolari sull’identità e sulle relazioni della famiglia e dell’abitazione.

E anche l’uso del termine virale.

Filmato virale, diffusione virale, social virali.

Un termine che assumeva una connotazione morbosa, conturbante, un meccanismo mostruoso che si impossessava dei contenuti e ingoiava persino gli autori lasciando visibile solo questa ameba della rete.

La viralità è invece una delle dimensioni più umane, più responsabili, più mature della rete: è quel meccanismo che automatizza una consapevole ed esplicita volontà degli individui.

Diventa virale un filmato che viene volontariamente postato in rete, adeguatamente titolato e meta datato, taggato sapientemente, e indirizzato a community diffusive. Nulla di tutto ciò prescinde o forza la volontà di un soggetto consapevole.

Torniamo dunque al nodo: la rete amplifica gli effetti? Sì questo è il dato di base. Amplifica perché allarga l’accesso alla produzione.

Anche la scrittura ha amplificato gli effetti dei pensieri, ed era proprio quello di cui si lamentava corporativamente Platone. Anche la copia dei libri da parte degli amanuensi che sostituivano le pergamene, amplificava i saperi, ed era quello di cui si doleva Bernardo da Chartes, che invece deteneva il monopolio del sapere come titolare della più grande biblioteca europea.

Anche la stampa, e poi i giornali, e ancora la radio e la TV hanno moltiplicato esponenzialmente sia la platea degli utenti che quella dei produttori, ed era quello che infastidiva Leibniz, Hugo, Hemingway, Popper.

La rete ha infine compiuto un ultimo, e stressante salto di qualità, portando a far coincidere lettori e scrittori, utenti e produttori, ed è quello che ha contrariato perfino il grande Umberto Eco.

Oggi abbiamo dinanzi agli occhi i primi minuti di un big bang che sta scuotendo tutte le molecole dell’universo, e di cui i primi calcinacci prodotti da questo immane sisma sono caduti nell’angusto cortile dell’informazione, sconvolgendone assetti e ruoli: è chi ascolta che decide e non chi parla. Una capriola che è la conseguenza di un incremento di consapevolezza e di preparazione di base, che sta rendendo ogni individuo sul pianeta tendenzialmente più autogovernato.

E’ questa la nuova stravolgente regola che sta mandando al manicomio giornalisti, professori, medici, giuristi e, inevitabilmente chi, in miniatura, pensa di poter usare questa poderosa bomba atomica come una fionda, limitandone gli effetti e le reazioni al proprio cortile di casa.

Nell’abbondanza dei contenuti, un’abbondanza composto da infiniti frammenti, molti dei quali insignificanti, volgari, futili, inutili e anche dannosi se non proprio criminali, si compie un’inversione radicale dei ruoli in termini gerarchici, perché i mediatori tradizionali perdono funzione e potere rispetto ad una massa di contendenti; ma anche in termini sociali, perché ad attribuire valore e credibilità ai contenuti non sono più gli autori, i produttori, i trasmettitori ma esclusivamente gli utenti, gli ascoltatori, i naviganti.

Il presupposto è comunque che proprio attivando un’identificazione fra autore e lettore si incrementi la cultura individuale. E nessuno oggi può dire che rispetto a 40 o 50 anni fa oggi non si sia accumulata una straordinaria cultura sociale condivisa.

Quest’inversione di ruoli fra i giganti di una volta e i nani di oggi modifica drasticamente la geopolitica della comunicazione, limitando la capacità, e dunque anche la responsabilità delle fonti, a vantaggio di un’assoluta discrezionalità degli utilizzatori nel valutare se un’informazione è attendibile o meno.

Per questo è del tutto inadeguato applicare alla rete, ai social in particolare, le categorie di giudizio dei mass media: credibilità, attendibilità, autorevolezza. Altra cosa è il vincolo alla correttezza nel trasmettere informazione, che è un obbligo per chiunque svolga, come nel caso della rete, una funzione pubblica, utilizzando uno spazio pubblico. Esattamente come ognuno che cammina in città è tenuto a vestirsi decorosamente, ma non per questo deve essere un modello di eleganza.

Mentre la sua attendibilità nel comunicarci un’informazione è inevitabilmente competenza di chi ascolta, che ne misura e valida la credibilità. Proprio quando in uno spazio pubblico per antonomasia, come una piazza, chiunque di noi si trovi a parlare: la nostra eventuale credibilità è attestata da chi ci ascolta e dall’eventuale consenso che raccogliamo, non certo da un nostro prioritario impegno.

Ovviamente, come per tutti i ruoli e funzioni, ci sono casi estremi, situazioni limite, e soprattutto fasi di adattamento, in cui il cambio culturale non è ancora avvenuto.

Il caso di Tiziana è sicuramente uno di queste tappe di transizione.

Non a caso contemporaneamente alla sua drammatica scelta, ci siamo trovati a discutere dell’apparentemente incomprensibile censura di Facebook alla celeberrima fotografia della bambina nuda che fuggiva dopo un bombardamento americano in Vietnam.

In quel caso, un ancora approssimativo dispositivo di intelligenza artificiale ha creduto di riconoscere una rappresentazione pedopornografica ed ha agito automaticamente. Nel caso dei filmati di Tiziana la rete, già oggi, è in condizione di individuarne o inibire il distributore, georeferenziando il punto e la circostanza in cui quel filmato è stato postato. Oltre che eliminarne la diffusione fino a quando una eventuale volontà esplicita del protagonista potesse essere accertata. Avremmo saputo subito chi era l’irresponsabile che lo ha postato, chi i complici, consapevoli o meno, che lo hanno sospinto nella rete, chi poi ha ritenuto di usarlo per dare sfogo al suo sadismo.

Il secondo punto che affiora da questo orribile episodio riguarda la simmetricità fra utente e social.

Se in generale, nel mercato, la relazione paritaria fra produttore e consumatore, fra commerciante e cliente, è un fenomeno che tende ad affermarsi sempre più – tanto che ormai si considera il consumatore come un partner del produttore – non vedo perché proprio nel mondo social, che nasce, come direbbe Max Weber con una Beruf, ossia una vocazione peer-to-peer, non si debba affermare e regolare la simmetricità fra i grandi service provider, i gestori delle relazioni digitali e ognuno dei miliardi di navigatori.

Una simmetricità che dovrebbe comportare il fatto che qualora un documento che mi riguardi, tanto più se in un ambito infamante, quale era incontrovertibilmente quello che riguardava Tiziana, debba essere rimosso sulla semplice istanza del soggetto colpito. A meno che questo soggetto non sia un personaggio di rilevanza pubblica e il documento non ne possa in qualche modo illustrare una deviazione del suo comportamento rispetto agli interessi pubblici. Tutte circostanze e situazioni che nel caso specifico che stiamo esaminando non mostravano alcun margine di dubbio.

Dunque il tema sotto accusa non è l’atavica barbarie della rete connessa alla sua accessibilità a chiunque, ma piuttosto l’atavica predominanza dei soggetti proprietari e monopolistici rispetto ad un singolo utente. Questo è il buco nero che produce sciagure e rende, innaturalmente, la rete un surrogato della TV: la sua dipendenza dal titolare, dall’imprenditore, dal proprietario.

Se la rete è il regno del real time, bisogna che la simmetricità delle relazioni fra ogni singolo soggetto che vi partecipa, utente o gestore, possa essere fatta valere in real time.

Ci sono le soluzioni, le tecnologie e i dispositivi giuridici per procedere in questa direzione. Salvaguardando il carattere, quello indubbiamente eversivo, di un sistema che sta sottraendo poteri e deleghe a giganti che da secoli non hanno impedito infamie e soprusi, limitandosi solo ad inibire un processo di impossessamento sociale di linguaggi e saperi.

Nel caso di Tiziana si perseguano coloro che hanno pubblicato i filmati, si penalizzi chi ha fatto finta di non udire le sue invocazioni, si colpisca l’arroganza di un sistema di vertice che può decidere discrezionalmente della vita di una donna. Ma si lasci libera una irrinunciabile domanda di partecipazione e condivisione che sta ridisegnando tutte le forme della convivenza sociale all’insegna del fatto che non si può tornare indietro.