L’Italia non è un paese per start-up. Pesa la scarsa attenzione pubblica alla R&S e l’eccesso di burocrazia

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Secondo i dati di uno studio della Fondazione Lilly, se le start-up in Italia avessero lo stesso peso sul mercato azionario che hanno negli Stati Uniti, genererebbero un fatturato di 108 miliardi e 367 mila posti di lavoro.

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Nonostante l’enfasi posta nelle ultime manovre economiche sulle misure per incoraggiare lo sviluppo delle start-up, l’Italia risulta ancora il Paese con la più bassa percentuale di imprese innovative di successo: le nuove imprese italiane impegnate in settori tecnologicamente avanzati e innovativi sono solo 4 tra le prime 150 quotate alla borsa di Milano (sono 17 negli Usa, 16 in Germania e 9 in Cina) e generano un fatturato di poco più di 1 miliardo di euro (contro 325 miliardi di euro negli Usa;  28,5 miliardi in Cina e 15.7 miliardi in Germania) e 47 milioni di euro di utile lordo  (99 miliardi di euro negli USA, quasi 5 miliardi in Germania e poco meno di 2 miliardi in Cina).

Due si occupano di software & IT e le altre due di farmaceutico biotech e dispositivi medici.

 

E’ questo il quadro che emerge dallo studio I-Com svolto in collaborazione con la Fondazione Lilly che verrà presentato domani in occasione del convegno che si terrà in Senato a Palazzo Giustiniani nell’ambito del progetto “La Ricerca in Italia, un’Idea per il Futuro”.

 

Dall’analisi emerge inoltre un significativo scarto occupazionale delle start up italiane rispetto a quelle operative nei principali mercati internazionali: le imprese innovative italiane impiegano solo 3.500 persone, contro le 500 mila negli Usa, 200 mila in Cina, 66 mila in Germania e 13 mila in Cile.

 

Lo studio sottolinea quindi che se le start-up in Italia avessero lo stesso peso sul mercato azionario che hanno negli Stati Uniti, esse genererebbero un fatturato di 108 miliardi e 367 mila posti di lavoro. Se fossimo come la Germania per presenza di imprese innovative, il fatturato sarebbe di 47 miliardi e gli occupati 158 mila.

 

Dati che, secondo il Presidente Consiglio universitario nazionale, Andrea Lenzi, evidenziano una miopia della nostra politica che “…nei momenti di crisi non investe in ricerca ed in alta formazione attraverso le sue università” col risultato che “proprio a causa della scarsissima quantità di denaro investita in ricerca di base nel nostro Paese, siamo costretti ad andare all’estero a produrre le idee che domani importeremo, con costi enormi per la nostra economia”.

 

Tra gli altri dati che emergono dall’analisi, anche la constatazione che il nostro paese riserva alla ricerca e allo sviluppo scientifico, sia pubblico che privato, l’1,26% del PIL, una percentuale ben al di sotto della media OCSE (1,91%).

In Germania la percentuale è del 2,82%, in Francia del 2,26%, in Svezia del 3,34% e in Inghilterra dell’1,77%. Solo Polonia, Turchia, Ungheria e Repubblica Ceca investono meno di noi.

 

L’Italia, infine, risulta fanalino di coda anche in termini di brevetti: siamo infatti all’ultimo posto per percentuale di giovani imprese con meno di 5 anni che hanno registrato almeno un brevetto, con solo il 4%; meglio di noi Germania e Spagna con il 15%, la Francia e il Belgio con 16%, UK con 17%, preceduto dal 29% degli Usa e prime sono risultate Danimarca e Norvegia con rispettivamente il 36% e il 32%.

Questo, ha spiegato il presidente I-Com Stefano da Empoli, a causa “della struttura del sistema produttivo italiano più caratterizzato degli altri dalla presenza di piccole e piccolissime imprese, che non hanno i capitali ed il know how per essere incisive in termini di ricerca e innovazione all’interno del mercato di riferimento”.

Un altro fattore penalizzante è inoltre la burocratizzazione delle procedure e l’inefficienza del sistema giudiziario italiano, oltre a un sistema universitario scarsamente orientato verso la brevettazione e il trasferimento tecnologico.

 

Uno scenario, peraltro, aggravato dalla scarsa interazione tra i sistemi di ricerca e impresa – che agiscono troppo spesso come due compartimenti stagni – e che non rende giustizia all’alto livello di capitale umano che caratterizza il mercato del lavoro italiano e al buon posizionamento dell’Italia rispetto ad alcuni indicatori di innovatività come il numero di pubblicazioni in riviste scientifiche internazionali. (a.t.)

 

 

Presenza ed impatto delle start-up innovative di successo: un’analisi dei principali mercati azionari internazionali