Tv del futuro: Decolla l’ibridazione tra broadband e broadcast è la volta della Next Generation Television (NGTv)

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di Giandomenico Celata (Sapienza Università di Roma) e Francesco Soro (Corecom Lazio)

Italia


Giandomenico Celata e Francesco Soro

L’ibridazione tra broadband e broadcast è ormai decollata. Una spinta decisiva sta venendo dai produttori asiatici e nord americani di elettronica e semiconduttori che hanno imparato molto bene la lezione degli aggregatori di contenuti su Internet e le abitudini di consumo che hanno trascinato. Il risultato sono i nuovi schermi televisivi, ormai sul mercato, che raccolgono immagini in movimento sia dai broadcaster che dai vari YouTube . Altre novità verranno dai sistemi operativi come Google Tv che aspirano ad essere una sorta di Window per le Tv. Sulla stessa strada è Apple.

La si potrebbe chiamare New Generation Television, sulla falsariga del Next Generation Network dei telefonici, cui è indissolubilmente legata.

 

All’appello mancano gli italiani. A suo tempo, infatti, distruggemmo la nostra elettronica ritardando di circa dieci anni l’introduzione del colore. E’ storia passata ma pesante, allora per i livelli occupazionali, oggi per l’assenza di ogni prospettiva nel settore. Ed è, senza mezzi termini, il prezzo che il nostro Paese ha dovuto pagare agli interessi più diversi, alcuni nobili altri meno, ma che comunque ben rappresentano l’asimmetria tra i nostri decisori politici ed economici e l’innovazione. Tutto ciò è esiziale in un contesto in cui la velocità con cui si colgono le tendenze e con cui si assumono i rischi d’impresa è decisiva.

 

La vexata questio tra chi vincerà tra monitor del PC e schermo televisivo è superata nel senso che sono assolutamente complementari e si distinguono solo per modalità di fruizione del consumo del contenuto. Tema su cui ci sarebbe molto da riflettere. Ovviamente rapidamente. Nel frattempo, gli schermi su cui si possono fruire audiovisivi si sono moltiplicati e investono ormai le game console e i device mobili. Le connessioni sono indifferentemente sia wired che wireless.

 

Ma quali contenuti per questi nuovi schermi? Tutto e di più: quelli ammanniti dai broadcaster, quelli del cinema, quelli degli  user generated content nelle varie forme, in continuo divenire e sempre più preziose in termini di ideazione. Così come avviene per la moda, anche per la televisione è l’ora dei trend setter, capaci di individuare nell’emisfero web le nuove tendenze dai prosumer e dai fandom.

 

In questo contesto, qualcuno avverte il disagio tra l’attenzione mostrata verso il digitale terrestre e tutto ciò che sta avvenendo. E’ un errore: il passaggio al digitale è ineluttabile, piuttosto bisognerebbe mordersi le mani per chi l’ha ritardato e per chi non l’ha accompagnato come era necessario. E’ il dato, inesorabile, che ci arriva dalla percentuale (10-20%) di criticità riscontrate nella cittadinanza e, soprattutto, dalle recenti e animate discussioni sul piano nazionale delle frequenze e sull’LCN, l’ancora irrisolta questione del posizionamento delle emittenti sul telecomando. Per tacere, su un altro piano, delle difficoltà, economiche e non, che sta incontrando la diffusione della banda larga.

 

Ma tant’è. A questo punto il problema è come l’industria televisiva e l’industria dei contenuti devono affrontare questo nuovo scenario. Con la non trascurabile peculiarità, tutta italiana, del futuro che aspetta le oltre 500 televisioni locali.

 

I principali operatori televisivi, sia pur con qualche ritardo, sembrano aver preso le misure. Alla RAI va riconosciuto il merito di percorrere i nuovi tracciati digitali con una certa forza e innovatività. Tanto è stata sprovveduta all’avvio del digitale terrestre presentandosi alle audience con canali importanti ma fuori contesto della televisione lineare, tanto sta recuperando su questo terreno quanto perduto all’inizio. La sua offerta ha audience superiori a quelle dei concorrenti. Ma l’aspetto più rilevante  è quanto sta guadagnando in termini di esposizione sul web. RAI.TV  è certamente una forte innovazione. Peccato non sia stata costruita come l’iPlayer della BBC, pensato e realizzato in un’ottica client e multipiattaforma. Questo approccio tecnologico impedisce a RAI, per adesso, di mettersi al timone di un progetto come Canvas (altra creatura, stavolta non esclusiva, di BBC), che in Gran Bretagna mette assieme broadcaster, telco, produttori di tecnologie e di contenuti, per lo sviluppo di uno standard comune per la distribuzione telematica di contenuti video, trasmessi direttamente sulle TV.

 

C’è quindi ancora un salto generazionale da fare. Sul modello di business RAI potrebbe poi riflettere su quanto sta facendo France Television senza nulla togliere ai suoi vincoli di servizio pubblico. L’apparente ritardo di Mediaset rispetto a quanto sta facendo Rai non deve invece trarre in inganno: esso va probabilmente imputato alla sovrapposizione degli investitori pubblicitari in un mercato, come quello italiano, che non è così avanzato sia in termini economici che di comprensione dei new media. Il che vale a dire che, non appena risolta perlomeno la seconda criticità, l’operatore commerciale avrà a disposizione un’offerta di spazi paralleli da cui sicuramente trarrà grande vantaggio. Diversa è la situazione di La7 che avrebbe tutti i numeri per fungere da battistrada in questi nuovi tracciati web della televisione essendo partecipata dall’incumbent telefonico. Probabilmente paga la propria debolezza finanziaria e le diverse priorità strategiche dell’azionista. E probabilmente paga anche la sovrapposizione con la IPTV di Alice. Modello IPTV che, è bene ricordarlo, in tutta Europa sta soffrendo l’attacco del satellite. In seria difficoltà è, infine, il sistema delle televisioni locali che, salvo fortunate eccezioni, sta patendo – anche al di là dei suoi demeriti – l’infelice congiuntura economica, l’incertezza normativa e regolamentare e la storica propensione all’individualismo che ne limita la visione strategica che, con il digitale terrestre, non può che essere di sistema.

 

Se i broadcaster si stanno in ogni caso attrezzando, e anche rapidamente, i produttori di contenuti audiovisivi stanno lentamente svegliandosi dalla  trance persecutoria nei confronti della cosiddetta pirateria da file-sharing. Invece di capire che lo scambio di file su Internet indicava un mercato l’hanno avversato, baloccandosi su cifre di mancato guadagno che avevano del fantastico. Ma le imprese più avvertite si stanno muovendo. Di sicuro nel mondo ma, con il solito gap temporale, anche in Italia.

 

Questa la situazione. Ora che fare? Il cinema italiano e la produzione televisiva, grazie ad alcuni capitani coraggiosi, sono in grado di gestire il cambiamento. Già, ma in che direzione? Ognuno per conto suo oppure va fatto un discorso come Sistema Italia, se non Europa? Forse conviene guardare agli USA, dove l’industria dei contenuti e quella degli aggregatori di contenuti su web sono le più forti del mondo. Le Major cinematografiche e televisive fanno parte di grandi Conglomerate Media che legano i vari pezzi della filiera in direzione verticale. I motivi sono noti e attengono la protezione dall’alto rischio di questo tipo di industrie; senza pari nel confronto, ad esempio, con l’industria automobilistica, dell’acciaio, per non parlare di quella alimentare.

 

Ebbene, la lezione che hanno tratto da Internet segue due leggi. La prima è quella della Coda Lunga di Anderson, secondo la quale le caratteristiche fisiche di Internet e dei suoi consumatori fanno si che l’area dei ricavi dei contenuti di nicchia pareggi quella degli hit.  La seconda è quella della Piramide Rovesciata che sta per essere codificata e la si può anticipare in questo modo: per raggiungere le nicchie di mercato bisogna presentarsi con un’offerta vasta; è illusorio pensare di costruire una offerta di nicchia, salvo casi eccezionali in cui il mercato di nicchia sia già conosciuto ma a livello globale ed abbia un valore significativo (è il caso, ad esempio, dei Manga giapponesi).

 

I tracciati, da cui anche il sistema televisivo locale può trarre qualche insegnamento, sono diversi ma proviamo a riassumerli nei seguenti tre casi.

 

1) Il primo è quello dei grandi aggregatori web che hanno conquistato un mercato mondiale e che progressivamente upgradano la loro offerta: iTunes con la musica ha fatto da apripista salvo rimanere chiusa nel suo wallen garden; YouTube sta passando dagli UGC ad una offerta long form e premium. Seguendo i dati Comscore YouTube ha raddoppiato i suoi stream da ottobre 2009 a marzo 2010.

Con questi numeri sul mercato americano  supera il 39% del totale del segmento dell’online video, ma la sua posizione di forza e di dominio è data più che dalla quota di mercato dalla frammentazione delle quote degli altri competitor. Sia iTunes che YouTube tendono  ad accordi con produttori e distributori di contenuti più plurali possibile.

 

2) Il secondo è quello dei produttori televisivi che si sono associati in Hulu che è una Joint venture che aggrega i contenuti premium di 3 dei 4 grandi network americani in chiaro, ognuno dei quali è parte di una delle grandi conglomerate media USA: FOX (News Corporation), NBC (prima General Electric ora Comcast), ABC (Disney). Tre grandi network e produttori operanti sul mercato audiovideo più grande del mondo, con una smisurata massa critica di prodotto, si sono aggregati per presentare la loro offerta web, piuttosto che operare ciascuno per conto proprio.

 

Hulu si posiziona ormai alle spalle del gigante Googletube con oltre un miliardo di stream al mese. Come YouTube, Hulu si è presentato immediatamente come un videoportale sociale fin dalla nascita: gli oltre 6 milioni di players brandizzati Hulu sono stati embeddati dai navigatori del web su oltre 200 mila siti con una crescita percentuale di oltre il 200% rispetto all’anno precedente. E, sempre come YouTube, i video sono offerti in modalità streaming gratuitamente (lo si potrebbe chiamare un free VOD), nonostante sia una offerta premium pagata dalla pubblicità su cui è applicato un CPM (Costo Per Mille impressions) maggiore di Youtube come conseguenza proprio dell’offerta pregiata.

 

Attualmente è in corso di valutazione, da parte del management di Hulu, la possibilità di applicare un costo anche per gli utenti. L’ipotesi al vaglio è quella di uno sdoppiamento del brand con la nascita di un Hulu plus che offra non solo gli episodi dell’ultima serie, ma ad esempio il catalogo totale, extra e dietro le quinte proponendosi come l’erede dei canali via cavo che sono di proprietà delle stesse conglomerate. A differenza di YouTube il servizio del video portale è indirizzato esclusivamente a utenti che si trovano all’interno del territorio americano.

 

3) Il terzo tracciato è quello che riguarda il mercato web dei movies. I due casi più evoluti, a livello di offerta, piattaforma tecnologica e possibilità commerciali, sono sicuramente Netflix e Vudu. Quest’ultimo, che punta molto sull’Alta Definizione, è stato recentemente acquistato da WalMart. Il protagonismo di grandi reti della distribuzione commerciale nella distribuzione on-line di audiovisivi è una variabile da considerare. E’ di questi giorni la notizia che Best Buy (il più grande rivenditore al dettaglio di elettronica di consumo negli Stati Uniti) ha acquistato CinemaNow, una piattaforma tecnologica  molto simile al servizio offerto da Netflix e Hulu che istallerà sugli schermi televisivi, grazie ad un accordo con LG, con un lettore Blu-Ray internet enabled.

 

Questi tre tracciati costituisco gli elementi di quella Piramide Rovesciata di cui si parlava all’inizio che indica all’Italia e all’Europa la necessità di lavorare sui grandi numeri – e non su soluzioni differenziate e divise – per affrontare un mercato che la tecnologia ha reso globale e abituato ad un’offerta nello stesso tempo amplissima e diversificata.

 

E’ il bello della sovranità del consumatore che, paradossalmente, si esalta nella concentrazione dell’offerta.

 

 

 

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