NewTv: l’anno in cui i quotidiani americani morirono (e i loro dollari cambiarono tasca…)

di di Andrea Materia |

Italia


Morte della stampa

C’è chi sostiene che l’industria della TV farà la fine di quella dei quotidiani. Concetto da prendere cum grano salis. In primo luogo perché i grandi broadcaster USA hanno osservato per anni le dolorose metamorfosi nella discografia e nell’editoria e non sembrano affatto intenzionati a ripetere i medesimi errori (questa rubrica esiste in ottima parte per documentarlo, e per sensibilizzare i broadcast media italiani). In secondo luogo perché l’evoluzione del Web, da 1.0 a 2.0 a Real Time Web, mina alle fondamenta i meccanismi tradizionali dell’informazione cosiddetta mainstream ma non è altrettanto eversiva verso la TV. Anzi , le consente di tramutarsi in NewTV e diventare ancor più onnipresente di oggi.

 

Questo in teoria.

 

La pratica sono i dati 2009 che arrivano dagli States:

 

         105 quotidiani sono stati chiusi.

         10.000 giornalisti licenziati.

         Nel primo trimestre dell’anno perso il 30% dei ricavi pubblicitari.

         23 dei 25 giornali a maggior tiratura hanno perso tra il 7 e il 20% dei loro lettori.

 

Dove finiscono gli eurodollari analogici che venivano ingurgitati in vita dai cadaveri degli old media?

 

Non c’è un solo deposito di un solo nuovo zio Paperone, e non automaticamente tutto si travasa nei contenitori digitali. Certo, Craigslist ha rosicchiato 100 milioni di dollari negli annunci di lavoro e di compro/vendo casa, eHarmony e i siti di dating hanno fatto piazza pulita delle inserzioni per cuori solitari, i mall preferiscono spedire via eMail ai clienti gli aggiornamenti sui prodotti in promozione, poi c’è Google con AdWords, ogni giorno vengono pubblicati un milione di blog post (il 46% da parte di blogger professional o professionisti), e c’è un nuovo sitarello chiamato Facebook…

 

Nell’immediato però a guadagnarci di più sembra proprio la vecchia televisione. Secondo ZenithOptimedia, nel 2007 il 37,3% della pubblicità USA era targata TV, nel 2008 si è saliti al 38%, nel 2009 si parla del 38,6% e per il 2010 del 39,3%. Questo a fronte di un crollo della stampa, nello stesso periodo quadriennale, dal 26,9% al 22% della torta. Il Web, cumulato 1.0 e 2.0, avanza rapido dall’8,7% al 13,8%, che significa boom, ma non equivale ad assimilazione integrale istantanea stile alieni Borg in Star Trek.

 

Nondimeno, l’evidenza della progressione negli introiti dei business fondati sullo sfruttamento dei device IP-based, realtà inesistenti fino a 15 anni fa e insignificanti in termini di fatturato fino ad appena 4-5 anni fa, combinata con l’arrivo nei negozi dei primi prototipi di mediacenter e HDTV convergenti ibridi TV+Internet, non lascia enormi spazi all’immaginazione. Se la TV si pappa il 39% e Internet il 14%, e se è vero come è vero che i due media si vanno integrando, allora 39+14=53, maggioranza assoluta dei consensi.

 

Aggiungete come premio di maggioranza le reti mobile di terza generazione, che fino a prova contraria si fondano sul protocollo IP e modelli affini, e quindi prima o poi le fette di torta dei loro operatori rientreranno nel computo generale dei media IP-based, smagrendo ancora di più i media “isolazionisti” (nel concreto, il 58% dei proprietari di iPhone preferisce spendere tempo sul suo smartphone piuttosto che leggere un quotidiano). Tra parentesi, per le nazioni connesse in cavo e fibra si prospetta una transizione morbida, per i Paesi fossilizzati su vecchie tecnologie, incluse quelle digitali non IP-based come il DTT, forse è tempo di darsi una svegliata.

 

Ma torniamo al 5% di risorse pubblicitarie succhiato via in un mero triennio da quotidiani e riviste, e al 5% inglobato nel frattempo da quel brutto mostro chiamato Internet.

 

Prendiamo il sito più amato dagli italiani, Facebook. Simbolo dei social network, concorrente inedito e misterioso sul mercato della spesa familiare. Debutta nel 2004, all’inizio è solo per universitari, poi aggiunge i liceali (si intende americani), solo da Settembre 2006 è aperto a tutti. L’altro ieri. Oggi Marc Andreessen, membro del CdA di Facebook di Netscapeiana fama, ha annunciato per il 2009 incassi superiori ai 500 milioni di dollari per la start-up di Palo Alto; poteva essere il doppio, se si fosse spinto di più su alcune leve pubblicitarie considerate troppe aggressive verso gli utenti. Previsioni: alcuni miliardi di dollari di entrate annue entro un quinquennio. Secondo fonti autorevoli della blogosfera, non confermate, queste saranno le 4 fonti principali di monetizzazione per il 2009:

Mark Zuckerberg On The Future Of Facebook

 

1.    125 milioni di dollari dai banner delle grandi aziende;

2.    200 milioni di dollari dai banner self-service delle aziende minori;

3.    150 milioni di dollari dall’accordo pubblicitario con Microsoft;

4.    75 milioni di dollari dai “virtual gift” e altre applicazioni di svago (c’è chi ci passa sopra l’infinito, credetemi; sono stato appena mollato da una specializzanda in medicina del lavoro che si è offesa quando non ho dedicato un intero decerebrato pomeriggio ai regali virtuali).

 

Di questi 500 milioni, almeno 425 sono banconote che in altre epoche sarebbero state investite in carta stampata, e radiotelevisioni sia nazionali che locali. Se da 425 milioni si passerà a 4.25 miliardi entro il 2013 – e se lo dice Andreessen difficile non dargli credito con il suo curriculum – beh, non c’è bisogno di aggiungere altro… O forse sì. Una metro di misura stupido ma efficace per visualizzare quanto avviene. Quanto tempo passano al giorno i vostri amici, la moglie, l’amante o i figli nella lettura dei giornali? E quanto su Facebook o in chat o in altre attività di Real Time Web o sulle piattaforme di blogging? Siete davvero convinti che torneranno indietro passato l’effetto novità?

 

(nel caso ne siate convinti, date almeno un’occhiata al Gartner Hype Cycle di Jackie Fenn e la sua applicazione a Facebook)

 

Chi non pensa al passato sono gli investitori di professione, i gestori di venture capital americani. Per le sole start-up specializzate in applicazioni iPhone hanno già speso 100 milioni di dollari. Si punta su chi propone software legato al gaming, alla sicurezza, e al social networking, un pelo dietro ma non troppo la fornitura di contenuti (news in primis). A oggi ci sono oltre 50.000 applicazioni scaricabili sull’App Store di Apple. In due anni l’iPhone ha già raggiunto oltre il 20% del fatturato Apple, e aggiungendoci iPod e iTunes l’incredibile è diventato realtà: il Mac è ormai secondario per la Mela di Cupertino.

 

Così, di sfuggita, per curiosità, altri 25 milioni di dollari di venture capital, calcolo di ChubbyBrain aggiornato a Maggio 2009, sono andati negli ultimi mesi a chi smanetta sulla piattaforma di Twitter.

 

Cosa c’entrano questi numeri con la NewTV? Tutto.

 

La lezione impartita, la lezione che americani e cinesi hanno imparato e ora insegnano, è: quel che non puoi combattere, studialo, renditelo amico e mettici su insieme una nuova famiglia. Le dirigenze televisive europee sono abituate alla gestione del potere assoluto. Sono sopravvissuti ai videogames, il più temibile prodotto innovativo concorrente di naturale editoriale. Hanno la sensazione di essere eterni. Passata la crisi economica, l’idea è che si tornerà al raccolto di grano pre-recessione. Io credo invece che sia saggio prepararsi allo stesso brusco risveglio dei colleghi d’OltreOceano. In salotto non esiste più un gigante catodico e tanti buffi nanerottoli multimediali sparsi nelle camerette dei bimbi. Dopo vent’anni di pensieri e parole, la convergenza è arrivata con chip, cavi e cavetti. E notate, non ho usato il futuro, uso il presente. Un’evoluzione attesa anche per l’Europa entro 3-4 anni fa parte delle scelte strategiche industriali di oggi, non di domani. Scelte, a monte, soprattutto politiche, stante il ruolo del servizio pubblico nei broadcast media continentali.

 

§§§ Una pillola di news più leggera, prima di chiudere. Remoti oramai i tempi del passaparola telematico via eMail, le ultime ricerche indicano nei blog il motore #1 di trasmissione virale dell’online video. Ha senso, ha logica, ci si arriva a naso e con un po’ di buon senso. Ma fa sempre comodo disporre di dati grezzi a supporto. Li offre il sempre più autorevole TubeMogul, il cui boss, dopo aver strappato come nuovo cliente la Casa Bianca , in un’intervista per Beet.tv snocciola queste cifre: il 45% dei video su web viene rintracciato cercandolo premeditatamente all’interno dei motori di ricerca, in primis quelli delle grandi piattaforme di sharing gratuito (YouTube come motore di ricerca, già ne avevo parlato); il restante 55% viene cliccato in 4 occasioni su 5, l’81% dei casi, in seguito a segnalazione, spessissimo un embed, su blog e social network. In realtà il peso reciproco di blog e social network sembra del tutto fuori dalla realtà: 9 volte su 10 è merito dei blog, solo 1 su 10 di Facebook, Twitter e parenti. Impossibile, non quadra. A ogni modo… Secondo TubeMogul solo lo 0,38% dei click deriverebbe da menzioni sulle care vecchie eMail o via chat/istant messanging. Altra impossibilità statistica, basta affidarsi all’osservazione empirica di anni di cybervita quotidiana. Impossibilità giustificata però dagli strumenti di rilevazione di TubeMogul, che può monitorare solo i click generati dentro un browser, non quelli attivati dentro un software proprietario, come appunto Outlook. Mettendo da parte tutti i difetti di questa ricerca nel definire i dettagli, rimane il suo valore di fondo nel ricordarci quanto nessun operatore di NewTV – neppure l’onnipossente YouTube – possa fare a meno di blogosfera e social networking, a meno di non volersi autoridurre all’istante il pubblico a meno della metà.

 

§§§ Non a caso, AOL, di recente resa autonoma da Time Warner con l’obiettivo di renderla la “casa editrice” del XXI secolo (digitale, si intende; ma è pleonastico, le case editrici non digitali sono una razza estinta), è a caccia di blog. Al primo posto nel piano di battaglia del nuovo CEO Tim Armstrong c’è MediaGlow, la fiorente struttura di siti editoriali di nicchia, ciascuno con un suo brand, fondata a inizi 2009 sulla base degli asset già esistenti in AOL. Gran parte degli investimenti sarà indirizzata a rafforzare gli staff di siti verticali come il gossipparo TMZ.com, il femminile Lemondrop, il masculeggiante Asylum, l’aggressivo Politics Daily e via cliccando. Al momento i dipendenti di MediaGlow sono 300, più 300 freelancers. Altri 50 giornalisti di grido sono stati assunti da poco. 76 milioni i visitatori unici mensili a Maggio 2009 (+5%). Con lo scoop sulla morte di Michael Jackson e sul pestaggio di Rihanna, TMZ in particolare ha fatto segnare risultati record. Per questo ora AOL vuole acquistare il meglio dei blog indipendenti USA. Passando entro l’anno da 75 a 100 brand di rango sul mercato dei contenuti digitali. Così nasce la Time Inc. del Terzo Millennio. Un possibile modello da seguire per Alice, Tiscali, Libero e Fastweb, e chiunque avrà il fegato di rischiare fuori dalla molle pancia dei portali generalisti…

 

§§§ E se scrivo rischio, il primo sinonimo che viene in mente è YouTube. Signori, è arrivata la conferma ufficiale. Un paio di settimane fa, sulla scorta delle ricerche di RampRate, anticipavo “E se YouTube non fosse quel bagno di sangue che si dice?“. Non lo urlano ai quattro venti perché a Mountain View conviene volare basso, per stornare le imboscate delle associazioni di titolari di copyright in avida cerca di moneta contante (e quando c’è chi, dopo aver già incassato le dovute royalties da YouTube, esige anche da chi embedda le stesse identiche clip nei suoi siti il pagamento di una licenza a parte, beh, è difficile non pensare al settimo canto dell’Inferno dantesco). A ogni modo, uscendo dal guscio e sfidando la sorte, ora l’amministratore delegato di Google ha rotto gli indugi. In un’intervista a Bloomberg, annuncia che il videoportale ha vinto la guerra dei costi, gli introiti pubblicitari crescono bene, e presto pioveranno profitti. Da paziente emoraggico di dollari a mulino che porta acqua al bilancio di famiglia di mamma Google. Sorpresa, sorpresa…

 

 

Coming up next in NewTV: ancora profezie tutte da verificare e crudi numeri inconfutabili sugli scenari dell’industria neotelevisiva…

 

NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.

 

 

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