NewTv: la Tv disconnessa, il morto vivente. Sorry, non esiste modo di salvare la vecchia industria televisiva

di di Andrea Materia |

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In denial

Alcuni giorni fa Henry Blodget, amministratore delegato di Business Insider ed ex guru di Wall Street, ha pubblicato un sintetico editoriale dall’eloquente titolo: Sorry, non esiste modo di salvare l’industria televisiva. Sintetizzato dai blogger in “La TV è morta”, l’articolo ha scatenato, complice l’autorevolezza di chi l’ha firmato, un’inaudita quantità di reazioni. La premessa di Blodget è semplice: la OldTV è nella stessa posizione in cui si trovavano gli editori di quotidiani 5 anni fa. Nega l’evidenza.

 

Un’affermazione da inquadrare nel contesto americano.

 

L’agonia della carta stampata, appena accennata nella Vetusta Europa, è invece ormai in fase terminale al di là dell’Atlantico, in una società più giovane [censimenti alla mano] e dunque vitale. L’Iran ci ha confermato quanto già sapevamo. I quotidiani sono finiti, non servono più. Tutta l’informazione – dalla mera cronaca agli approfondimenti – passa attraverso i blog, gli aggregatori, i portali degli ex grandi giornali e delle TV, dove si integra, analizza e filtra l’immensa mole di dati multimediali espressi attraverso Twitter. Sembra paradossale citare un attore, ma chi sarebbe più disposto a negare profetico peso specifico alle parole di Ashton Kutcher? “Tempo qualche anno, e gli storici citeranno Biz Stone ed Evan Williams accanto a Morse, Bell, Marconi, Farnsworth, Bill Gates e Steve Jobs… perchè la creazione di Twitter ha modificato i paradigmi della comunicazione tanto quanto il codice Morse, il telefono, la radio, la televisione e i personal computer“.

 

E se la rivoluzione dei social network ha iniziato a mutare gli scenari socio-politici su scala globale, in seconda battuta si abbatte con la forza di un terremoto di scala 8 sui modelli di business pre-esistenti. Ovvero l’oggetto di analisi di questa rubrica. Nel caso della stampa è emblematico il caso delle inserzioni a pagamento. Nel 2005 valevano 16 miliardi di dollari l’anno per i quotidiani USA, nel 2009 meno di 5 miliardi di dollari. Il crollo distruggi-sistema ha un killer di 14 anni – è nato nel 1995 – con un nome e un cognome: Craigslist.org. L’alternativa gratuita per chi vende e acquista. Un killer che però non è stato finora anche ladro. Infatti, sebbene gli introiti di Craigslist siano esplosi, li si proietta a 100 milioni di dollari nel 2009, non compensano affatto l’emorragia di 11 miliardi di dollari degli old media. Da qualche parte questi soldi sono spariti, e un’intera industria deve ora scoprire dove, se vuole risorgere in altra forma. Deve scoprilo in fretta, però, perché nei soli primi 3 mesi del 2009 la raccolta pubblicitaria totale (non parlo quindi solo di AAA Offresi) si è contratta su newspapers e riviste americane del 30%.

 

Le corporation televisive non temono un futuro simile, forti di ricavati pubblicitari tuttora sani e talora persino robusti profitti. Così come i giornali nel 2003, mal sopportano di essere definiti dinosauri e vantano la crescita dei loro comparti digitali e la bontà degli investimenti nelle piattaforme di online video. Temi di cui si parla qui su NewTV sin dalla prima uscita.

 

E tuttavia, secondo Blodget, il genio è ormai uscito dalla lampada, e il risveglio dei vecchi padroni sarà brusco. Perché?

 

Il ragionamento non è dissimile da quello di Mark Cuban, il miliardario di Dallas tra i più vocali e strenui critici del modello GoogleTube: la distribuzione dei contenuti basata su Internet genera solo una frazione del flusso di cassa garantito dal modello tradizionale (abbonamenti ai servizi premium via cavo o via satellite + pubblicità sui canali in chiaro). Via via che l’audiovideo IP-based guadagnerà territorio, e non c’è modo di fermarlo, gli attuali costi strutturali del TV Business diventeranno insostenibili, provocando la caduta degli odierni incumbent.

 

Non c’è modo di tornare indietro, perché sono venuti meno tutti i fondamentali su cui poggiava il primato assoluto del tubo catodico nel fornire intrattenimento alla popolazione:

 

In passato non esistevano altre opzioni per guardare video in ambiente domestico eccetto appunto la TV stessa, i cui snodi di trasmissioni erano rigidamente controllati da un limitato numero di soggetti. Le major producono, i network via etere e le società di telecomunicazione via cavo distribuiscono (parliamo dell’esperienza USA), i consumatori e gli inserzionisti pagano tariffe proporzionali all’offerta – di contenuti o di spazi pubblicitari – di cui usufruiscono.

 

Il passaggio intermedio nel processo è stato l’apparire di alternative di svago al video semplici e attraenti: i videogames, i dvd, il Web 1.0, le chat, il Web 2.0. Finchè, un bel giorno, il video da solo non è più sufficiente a esaurire la domanda di entertainment. Il video senza funzionalità di social networking è sentito come noioso, è il cinema muto in bianco & nero nell’epoca delle multisale e della Pixar.

 

Mentre si trasformava il mix di fruizione collettiva dei media, lentamente evolveva lo streaming. Nel 2009 l’evoluzione raggiunge un traguardo tecnologico decisivo: è possibile fare a meno della TV classica per consumare i contenuti TV (leggi: Hulu, YouTube, iTunes, Netflix, Crackle, TV.com, Revision3, etc etc). Con comode scatolette multimediali da 100-200 euro, tipo Boxee, si può scavalcare anche l’ultimo collo di bottiglia, il monitor del pc, e “travasare” qualunque streaming dal pc al maestoso HDTV in salotto. A loro volte le scatolette stanno per essere superate da HDTV predisposti ab origine per la connessione Internet e il decoding dei flussi in Flash.

 

Morale della favola: zompa per aria il pugno di ferro sugli snodi. Niente più “in Italia ti becchi quello che decide la RAI e a Francoforte quello che passa il convento di ARD”. Chiunque da qualunque punto del mondo può guardare di tutto, fregandosene delle emittenti tradizionali.

 

Naturalmente le media companies non sono rimaste alla finestra e hanno cercato di imporre soluzioni ponte salvaguadagni, limitative della libertà degli utenti. Blodget ne elenca una rappresentativa selezione:

 

* Filtri geografici sugli IP (per esempio: non possiamo vedere Hulu in Europa).

 

* Blocco al live streaming dei grandi eventi, sportivi in primis, per paura di cannibalizzarsi, ma al tempo stesso umiliando così le potenzialità delle loro stesse start-up NewTV (e qui ancora mi chiedo: quanto ci metterà Google prima di acquistare i diritti di tutti i campionati di calcio essenziali e relative competizioni sovranazionali, spostando su YouTube il 99% degli sportivi?).

 

* Download di film e serie TV che scadono dopo 24 ore, DRM e altre pessime idee simili.

 

* Costosi abbonamenti all inclusive per servizi di IPTV co-gestiti con gli ISP in cui si è costretti a pagare una massa di prodotto indesiderato per avere on-demad pochi show popolari (mutatis mutandis è una situazione analoga a quello che avviene in Italia, con Sky e bouquet del DTT a contendersi i diritti pregiati e gli abbonati forzati a pagare salate sottoscrizioni senza però poter accedere a tutti contenuti desiderati, a meno di non pagare entrambe le piattaforme; in soldoni, pago per Sky Cinema Hits che mi interessa e per altri 50 canali che non guardo mai, ma non posso rimpiazzarli con Studio Universal perché è sul digitale terrestre Mediaset).

 

E qui veniamo a chi “nega l’evidenza”.

 

Nessuno è fesso, nè a Napoli nè a New York. Sappiamo tutti che non esiste più una barriera tecnologica ad avere palinsesti totalmente personalizzati, gestiti dai software degli aggregatori video, e distribuiti sui nuovi televisori Web-enabled senza costrizioni temporali di accesso (nel 2009 nulla giustifica più agli occhi dello spettatore di sottostare al giogo degli orari, e perdersi un film solo perché il responsabile della programmazione ha dovuto piazzarlo alle 21, mentre io prima delle 22 non posso sedermi sulla poltrona; e sì, DVR e MySky aiutano, ma sono una soluzione non ottimale).

 

Noi lo sappiamo, loro lo sanno.

 

Non sarà tutto gratis, né tutto a pagamento. Ha logica prevedere che rimarranno un 10/20 canali generalisti: i cosiddetti legacy network (l’eredità del passato, gli intramontabili, i RAI 1 e le CBS), i canali dei top brand come Disney, i canali dedicati agli sport di massa e forse qualcosa di lifestyle.

 

Tutto il resto si atomizza, diventa on-demand, fluisce dentro immensi database con gradevole interfaccia grafica come Hulu e YouTube e altre piattaforme minori specializzate (pensate ai documentari, alle news, all’animazione per bambini, ai canali religiosi e quelli delle minoranze etniche; con microguerre intestine alle nicchie, in cui Kraft.tv e BMW.com possono rubare fatturato ai canali di cucina e di automobili).

 

Quando il servizio offerto dalle piattaforme/aggregatori va oltre il basic, in sostanza gli odierni canali tematici in versione 2.0, si spenderanno per accedervi cifre simili a quelle spese oggi per satellite e DTT, ma con formule differenti e a la carte di abbonamento – formule indefinibili al momento, generate da intrecci tra NewTV da salotto e NewTV su mobile che comportano infinite variabili di pricing e combinazioni di operatori. E versando nelle casse, presumibilmente, di aziende differenti dalle attuali. Con due unici sicuri vincitori: il fornitore di contenuti e il consumatore finale. Chi produce intrattenimento di alta qualità resta al centro del sistema; addirittura può fare a meno dei distributori. È la strategia Epix: MGM e Paramount fanno a meno di Showtime. Non serve più.

 

Anche chi procura la banda resta centrale, e tramite tecnologie in rapido sviluppo come il DWDM possono ora offrire velocità incredibili. A New York Cablevision ha da poco lanciato Internet a 101 mega. Se considerate che con 15-30 mega al secondo si satura abbondantemente ogni fabbisogno di bitrate del più spettacolare filmato HD, potete intuire dove siamo diretti: verso scenari in cui il consumatore è spinto a fare uso concreto di tutta questa banda. Ovvero TV sempre connesse e schermi che si approvvigionano di streaming. Ovvero la NewTV.

 

Tutti gli altri ballano, e nelle danze entrano nuovi ballerini. Uno è Google, non serve spiegare il motivo (ma lascerà di stucco sapere che già oggi YouTube non perde tutti i soldi che si pensava perdesse; sarà argomento per NewTV di fine settimana).

 

Google ci porta a ricordare il secondo capisaldo del business televisivo tradizionale: la pubblicità. Google è il campione assoluto di sempre della pubblicità. Ingurgita 1 miliardo di dollari ogni 2 mesi in pubblicità. Ma nell’era della NewTV, cosa impedirà a Google di raccogliere pubblicità TV? Niente, infatti già ci provano in via sperimentale con un meccanismo assai peculiare (mettendo all’asta gli spazi a disposizione), ma reso di recente interessante dall’integrazione con YouTube. La storia cambierà quando i motori di ricerca saranno attivati nativamente sulla TV e le tante Sipra locali entreranno in concorrenza diretta con i giganti dell’Internet advertising. NBC, che già con la stessa Google ha una partnership (così come Hallmark, Bloomberg e la piattaforma satellitare Dish), ha appena annunciato un accordo con Microsoft per automatizzare la vendita di finestre pubblicitarie e targetizzarle rispetto agli obiettivi della campagna. Più avanti si discuterà di targetizzare in base ai comportamenti dello spettatore.

 

La sfida non è di quelle in discesa. In prima serata ABC, NBC, Fox e CBS incassano circa 0.50 dollari all’ora per ogni spettatore, con un CPM approssimativo di 25 dollari. È un’enormità. I reality sono infarciti di consigli per gli acquisti, i talk show notturni ancora peggio, i telefilm sono assai meno bombardati. Nel primo trimestre del 2009 sulla TV in chiaro USA ci sono stati in media 24 minuti e 30 secondi all’ora di marketing, tra sovraimpressioni e spot. Il 41% del tempo di trasmissione. Era il 36% nel 2008. Ma gli inserzionisti vogliono pagare di meno per unità, e dovendo mantenere uguale il bottino finale bisogna aumentare la quota commercials rispetto alla quota contenuti. C’è un limite fisiologico tuttavia.

 

E infatti la metà degli spettatori americani tra i 18 e i 49 anni (l’oggetto del desiderio di tutti i buyer di spazi commerciali) usa i DVR e quindi salta i break. Bisogna dunque inventarsi nuovi modi per imporre la pubblicità. E allora banner interattivi, spot pre-roll non aggirabili spostando in avanti il segnatempo sul player (provate a saltare lo spot in testa alle puntate di Diggnation su Revision3: non si può), sponsorizzazioni esclusive, sovraimpressioni ipertestuali durante lo switch da una clip a un’altra, product placement. Strumenti che solo la NewTV consente di adoperare. Strumenti impossibili in ambiente analogico e digitale “primitivo” (sat/DTT).

 

Spostiamoci nella Penisola.

 

Le major USA presto potranno fare a meno di RAI, Mediaset e Murdoch. Monetizzare i loro prodotti direttamente, mangiarsi tutta la torta invece della mera fetta delle license fees. Murdoch è a sua volta content provider e major, quindi soffrirà l’ineluttabile obsolescenza del satellite ma al tempo stesso ha dei vantaggi competitivi. Mediaset ha di recente investito nell’acquisizione di library proprietarie di format, potrebbe investire nel business della connettività fissa e mobile [l’abbonamento alla larga banda lo pagheremo tutti, è una delle fonti di introito più solide in prospettiva] e nulla vieta al gruppo di proporre piattaforme di NewTV su scala continentale, sebbene sia ormai in grave ritardo. La RAI mi sembra il player più a rischio, entità nazionale in un mercato globale, e priva della vocazione evidente ad esempio in una BBC ad affrontare con radicali inversioni di rotta il futuro.

 

Non è questione di se, è questione di quando. Né Blodget, almeno credo, né di sicuro il sottoscritto abbiamo gradi di parentela con Frate Indovino, quindi si può solo congetturare. Il sale in zucca però l’abbiamo tutti. Ricerche 2009 sia di Bernstein che di The Diffusion Group ci dicono che più della metà degli abbonati americani a Internet e alla pay TV insieme sarebbe pronto a cancellare i pacchetti in essere e sostituirli con i 20 più importanti canali “lineari”, film e serie TV on-demand in quantità illimitata, più i webserial, i web talk, il lifecasting e gli user-generated. Sport a parte. Pagando, si intende, la stessa somma di adesso: tra i 25 e i 55 dollari al mese.

 

Nessuna sorpresa, magari potessimo farlo qui da noi. Chi sostiene il contrario, ha ragione Blodget, nega l’evidenza.

 

 

Coming up next in NewTV: e se YouTube non fosse un succhiasoldi a tradimento? E se Google non ce la raccontasse giusta sui costi di banda?

 

NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.