Fuga di cervelli, come farli tornare? Come rendere competitiva la conoscenza?

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di Saulle Mattei

Italia


Saulle Mattei

I cervelli italiani, sono in fuga, ormai da qualche decennio. Tutti lo sanno, tutti lo dicono, ma come biasimare quelli che sono fuggiti o sono in procinto di farlo?

Molti di noi hanno amici che sono andati a lavorare all’estero. Chi rimane finisce sempre per fantasticare su incredibili opportunità lavorative e a domandarsi: “E se andassi anch’io?“.

Questa domanda rimane molte volte senza una risposta concreta: rimaniamo, in fin dei conti, una popolazione fortemente legata alle proprie radici. In verità, non sono tantissimi quelli che emigrano. Sono senz’altro troppi, ma il numero rimane pur sempre basso, se lo si paragona alle “ondate migratorie” degli italiani verso l’America dei primi del ‘900. Quello che non tutti sanno è che non solo emigrano le menti considerate brillanti, cioè quelle che sono attirate dai parchi scientifici eccellenti esteri, ma anche una folta schiera di bravi professionisti che reputano insostenibili e inaccettabili le condizioni lavorative italiane. Oppure quelli non riescono a trovare un’adeguata collocazione nel mercato del lavoro.

 

Come fermare questa emorragia? Come fare ad attirare i “cervelli esteri”? Lavorando duramente su due fronti: la ricerca e il mercato del lavoro.

Se si guarda la situazione con gli occhi di un professionista, si consta che in Italia vi è un “nugolo” di piccole-medie imprese, che per sopravvivere si affacciano sui mercati internazionali, ma sono ben lontane dall’aver adottato una mentalità internazionale. Vi sono alcune grandi aziende, ma queste sono o uffici locali di aziende multinazionali o compagnie acquisite, che hanno perso ogni indipendenza decisionale. Questo succede specialmente per i mercati dell’high-tech.

Se si affronta la situazione, invece, con gli occhi della ricerca e dei brevetti, si trova il nulla. Quando qualcuno effettua delle analisi di anteriorità, specialmente nel campo dell’elettronica, delle telecomunicazioni o più in generale dell’high-tech, è difficile, se non arduo, trovare aziende italiane. Questo perché, ormai è un altro dato risaputo, il numero dei brevetti depositati da aziende italiane è notevolmente inferiore a quello dei brevetti depositati all’estero. Secondo alcune statistiche riportate nel 2006, sull’anno 2005: “..L’Italia ha, infatti, depositato un quarto delle domande di brevetto della Germania, ancora una volta paese leader nella tutela dell’innovazione tecnica, e metà della Francia. Addirittura il nostro Paese, nonostante un sistema economico che ci pone tra le potenze industriali a livello mondiale, vanta (si fa per dire) un numero di domande di brevetto europeo inferiore a quello della vicina Svizzera” [fonte: http://www.comunicati-stampa.net/com/cs-4721/LItalia_arretrata_nellinnovazione_Europea_servono_pi_specialisti_in_brevetti]. Da altre statistiche pare che gli USA depositino un numero otto volte superiore a quello dell’Italia. Dal 2006 la situazione si è ulteriormente degradata.

Le problematiche riguardanti la ricerca e il mondo del lavoro, sono complesse, difficilmente circoscrivibili e quindi vanno affrontate con serietà e determinazione.

 

Inizierei con il ricordare le manifestazioni di piazza dei ricercatori italiani che si definivano “i precari della ricerca”. Tali manifestazioni avevano lo scopo amplificare e di notificare, al “grande pubblico”, i problemi economici e contrattuali che affrontano i nostri professionisti della ricerca. Si può così ricondurre tutto al mero piano economico? Ovviamente no, anche perché credo che questo, pur essendo un punto importante, non sia certamente quello fondamentale. Altrimenti non riuscirei a spiegarmi i tanti professionisti che lavorano sospinti più dalla passione e dalle loro capacità volitive, che dal ritorno del loro operato.

 

Quali sono, o sarebbero, allora gli altri aspetti che influenzano le scelte di cercare altrove “maggior fortuna”? Uno di questi potrebbe essere quello culturale, per esempio.

Come già anticipato, il mercato italiano è composto quasi interamente da piccole-medie imprese che fanno ricerca e sviluppo più per migliorare le caratteristiche tecniche/economiche dei loro prodotti che per innovare. Questo costituisce una profonda differenza. Innovare, a mio avviso, è la ricerca di allargare i propri orizzonti, scommettendo sulla conoscenza e sul futuro. Senza innovazione si possono evolvere i prodotti, ma difficilmente si esce da un percorso ormai segnato.

 

Rimanendo nel contesto culturale, si potrebbe osservare la considerazione che si ha di chi fa innovazione. Nei paesi esteri (Francia, Germania e USA), chi fa sperimentazione, ricerche e invenzioni, è considerato, a tutti i livelli, “il fiore all’occhiello del sistema nazione”. Se si fa un paragone con la situazione italiana, quante notizie sono veicolate a proposito di quanto avviene nei laboratori italiani? Quanti di noi sono effettivamente interessati ai benefici che la ricerca apporta alla nostra nazione?

 

Per terminare l’argomento, sarebbe opportuno rilevare come, l’assenza di una forte azione innovatrice, abbia assuefatto la classe manageriale e politica a questa situazione. Si sottolinea questa assenza solo quando si cerca un colpevole alla perdita di competitività delle nostre aziende nei confronti del mercato globale. Nel frattempo si è creata così una classe dirigente maggiormente attenta ai problemi del quotidiano e al budget annuale che a supportare nuove idee.

 

Il budget annuale? Ecco un altro dente dolente su cui batte la lingua. I costi o meglio, gli investimenti. In Italia s’investe circa l’1÷2% del PIL in innovazione ICT, contro il 10%, circa, estero. Quello che vorrei far notare è che, senza adeguati investimenti, non solo si perde la competitività nei confronti di altri paesi, ma si perde in valore assoluto, a livello di nazione. L’innovazione non è solo un’ottima leva di competizione industriale, un valore aggiunto per l’azienda, ma è un valore sociale, un volano per opportunità comunitarie e comuni. Senza studi innovativi, senza un’appropriata ricerca, togliamo potenzialità a chi ci seguirà. Bisogna quindi investire alacremente sia sulle infrastrutture sia sul sociale, sapendo che i risultati si coglieranno nel medio e lungo periodo.

Se a tutto questo, si aggiunge la difficoltà di implementare valutazioni “meritocratiche” in molti dei nostri processi lavorativi, il quadro si può dire completo. Ed è così che, chi ha voglia, ingegno, idee e molta più intraprendenza, “vola” verso altri lidi.

 

In ultimo, vorrei soffermarmi sui “campi” in cui investire. Riprendendo nozioni di cultura aziendale, un’impresa è competitiva quando molte, se non tutte, delle sue divisioni si possono considerare tali. È altrettanto vero che di solito s’inizia a lavorare su di un ben specifico progetto, per passare alla linea e infine al reparto. Se i risultati sono soddisfacenti e replicabili, si passa alle altre divisioni, per coinvolgere finalmente tutto il tessuto dell’azienda stessa. Tutti noi sappiamo quali sono le colonne portanti del “made in Italy”. Personalmente auspico che l’Italia tenti di svilupparsi in altri mercati, che non siano la meccanica o l’automazione, per esempio. Questo perché credo fortemente nelle “contaminazioni tecnologiche” e nei benefici che queste apportano, ma soprattutto perché penso che il nostro bel paese non possa e non riesca a rimanere a lungo, la terra del buon cibo, delle vacanze, delle macchine e di poco altro ancora.

 

 

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