La Cina censura Skype: nel mirino del governo anche chi parla di latte in polvere o del recente terremoto

di Alessandra Talarico |

Cina


Skype

Anche il popolare servizio VoIP Skype è finito nelle strette maglie della censura cinese.

Secondo il New York Times, che sarebbe a conoscenza di un dossier realizzato da Citizen Lab – un gruppo di ricercatori dell’università di Toronto –  le conversazioni effettuate dagli utenti del servizio di messaggeria e VoIP Tom-Skype – nato nel 2005 dalla collaborazione tra Skype (gruppo eBay) e l’operatore cinese Tom Group – sarebbero sorvegliate dal governo di Pechino, che certo non è nuovo a simili restrizioni.

 

Il gruppo di ricercatori canadesi ha individuato, in sostanza, una rete di 8 computer localizzati in Cina, in cui sarebbero stati archiviati oltre un milione di messaggi censurati. A partire da questi messaggi è stato quindi possibile, oltre che risalire all’identità dei mittenti, anche ricostruire una lista di parole ‘vietate’ e strettamente sorvegliate dal governo.

 

È cosa nota ormai da tempo che la Repubblica Popolare cinese disponga di un sistema di sorveglianza considerato tra i più sofisticati al mondo, basato su un sistema di ‘ispezione’ del traffico http volto a determinare la presenza di determinate parole o espressioni particolarmente invise al governo di Pechino, che si giustifica dicendo di voler solo combattere la pornografia, la pedofilia e il terrorismo.

 

La lista delle parole sgradite comprende diverse centinaia di termini, dei quali soltanto poche decine riguardano  la pornografia. Gli altri sono legati alla politica e a svariati altri argomenti. A finire nel mirino della censura, oltre agli ormai classici ‘democrazia’, ‘diritti umani’ o alle espressioni che fanno riferimento al Dalai Lama, al movimento religioso Falun Gong o ai fatti di piazza Tiananmen anche termini facenti riferimento ai più recenti fatti di cronaca, come ‘terremoto’ e ‘latte in polvere’.

 

Ogni messaggio contenente uno o più di questo termini, ha spiegato l’equipe canadese, viene bloccato da un software presente nell’applicazione Tom-Skype e inviato a un server remoto, che registra altresì le informazioni su chi ha spedito l’email e le conversazioni effettuate con persone fuori dalla Cina.

Per sorvegliare il traffico internet, ed identificare chiunque si renda colpevole di inserire nel proprio blog, in una conversazione istantanea o in una email un termine inviso, il governo di Pechino ha impiegato oltre 30 mila cyber-poliziotti.

 

In soli due mesi, i server identificati dal team canadese hanno archiviato oltre 166 mila messaggi censurati provenienti da almeno 44 mila utenti.

L’incursione è stata possibile perché i Pc sarebbero stati configurati male.

 

Il governo cinese non è solo nei suoi sforzi per sorvegliare il web: nel 2005 sempre il New York Times rivelo che anche quello statunitense non era da meno: la the National Security Agency (NSA, Agenzia per la sicurezza Nazionale ) infatti monitorava larghissima parte delle conversazioni telefoniche e internet effettuate negli Usa come parte di un programma di controllo voluto dal presidente Bush dopo gli attentati alle Torri Gemelle.

 

Il fatto che anche Skype si fosse piegato alla censura cinese è noto in effetti già dal 2006, quando Niklas Zennström, padre della più celebre delle VoIP company, ha ammesso che il suo partner cinese, Tom Online, filtrava i contenuti degli sms, come imposto dal governo di Pechino.

“Queste sono le regole”, spiegava Zennström al Financial Times, “possono piacere o no ma bisogna rispettarle”, in Cina come in qualsiasi altro posto del mondo.

 

E Skype non è certo la sola azienda statunitense ad aver accettato di sottostare ai dettami della Cina in fatto di censura. Prima di Skype, anche Google e Yahoo! sono finite nell’occhio del ciclone: quest’ultima, in particolare, è stato accusata da Reporters sans frontières di aver fornito alla polizia cinese delle informazioni su uno dei suoi clienti, il cyberdissidente Li Zhi, sulla base delle quali quest’ultimo è stato condannato nel dicembre 2003 a 8 anni di prigione.

Lo scorso anno, inoltre, il Ceo Jerry Yang ha fatto le sue scuse ufficiali alla madre del dissidente cinese Shi Tao condannato, grazie alla collaborazione della società, a 10 anni di prigione per aver diffuso sul web informazioni ritenute “segreti di Stato” dal governo di Pechino.

 

Anche Google – che invece negli Usa difende strenuamente i diritti di riservatezza e libertà degli internauti – ha ceduto alle pressioni ed è stata per questo accusata di sostenere la politica del ‘due pesi due misure’.  

 

Il gruppo si è difeso ammettendo che la stessa politica di accondiscendenza ai dettami governativi è applicata anche in Europa e negli Stati Uniti, che impongono limitazioni all’accesso a informazioni relative al nazismo e alla pedopornografia. Si tratta, però, di cose ben diverse e richieste da governi non certo repressivi.

 

Le due web company, più o meno allo stesso modo, hanno espresso la convinzione che la sola industria non può influenzare le politiche di un governo straniero su argomenti quali il libero scambio di idee, l’accesso alle informazioni e il rispetto dei diritti umani, nodi per i quali occorre piuttosto rafforzare il dialogo tra governi.

Per gli utenti, hanno sottolineato entrambe le società, è meglio rendere i servizi più accessibili anche se non al 100%, perché alla fine gli utenti cinesi avranno più informazione, anche se non proprio tutta.

 

Anche il Ceo di Skype ci tiene a sottolineare che è un “bene per le aziende e le società cinesi avere accesso non solo ai servizi di Skype, ma anche a quelli di Google, Yahoo! e eBay”.

 

Esserci, insomma, è sempre meglio che non esserci, soprattutto tenendo conto del fatto che il mercato cinese, con i suoi  253 milioni di internauti ha superato per numero di utenti anche gli Stati Uniti.