Italia

La lettera di Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ai suoi giornalisti e pubblicata sul giornale del 30 settembre (La lettera di de Bortoli apre il dibattito su giornali e internet) ha toccato un nervo scoperto dei giornali scombussolati dal confronto con internet, ha generato la reazione prevedibile dello sciopero dei giornalisti, per cui il Corriere non sarà in edicola né oggi né domani: insomma ha scatenato un terremoto.
Vediamo quali sono i punti noti, gli aspetti nuovi, i luoghi comuni, infine le errate e insostenibili posizioni.
Il rapporto tra quotidiani e internet è storia vecchia, che si trascina da una decina d’anni, con una fase iniziale in cui i quotidiani hanno pervicacemente guardato a internet non come a un’opportunità, né come a una minaccia, ma semplicemente come qualcosa capace solo di scimmiottare e comunque atta a ospitare tutti coloro che, per una ragione o un’altra, non erano stati capaci di entrare nei ranghi della professione giornalistica (ordine, assunzione, garanzie ecc.). Atteggiamento superficiale e pretenzioso. Col passare degli anni internet è diventato come l’aria che respiriamo, l’informazione si sta spostando in rete, la mobilità (che ha sempre fatto parte del codice genetico della carta) è andata all’ennesima potenza con il digitale affiancandosi al “tempo reale”, che assicura aggiornamenti che ti raggiungono in pochi secondi in qualunque parte del mondo ci si possa trovare. Infine, a rendere sconfinato l’universo di cui parliamo, è sopraggiunta la possibilità di poter intervenire, pubblicare, commentare, facendo in modo che l’interlocutore naturale dell’informazione diventasse anche contributore di contenuti.
 A fronte di tanto, i quotidiani si dibattono in una crisi di vendite e di  pubblicità: il problema non riguarda solo l’Italia, dove la vendita è in  picchiata libera (4,8 milioni di copie nel 2009, contro 5,4 milioni di copie del  2006, ma sempre con volumi inferiori al numero di copie vendute in Italia sino  agli anni Trenta del secolo scorso), ma tocca tutti i Paesi avanzati, anche e  innanzitutto quelli che hanno goduto di grande diffusione della stampa scritta.
 La lettera di de Bortoli guarda alla frontiera nascente del giornalismo, alla  nuova sfida della multimedialità, del tempo reale, dell’informazione in rete,  del video in mobilità, per citare gli argomenti più graffianti, e lo fa sapendo  che le vecchie certezze sono finite, e lo dice innanzitutto ai suoi giornalisti,  sottolineando il fatto che se non si cambia anticipando le trasformazioni  indotte da internet, vi è solo la certezza della fine. 
 Ma i quotidiani sono innanzitutto imprese. I giornali si reggono con la  pubblicità ancor prima che con le vendite e la pubblicità va dove va la gente.  Se la gente non compra i giornali e va sul web per avere informazione, la crisi  è non solo ingestibile, ma anche irreversibile. 
 Nel corso degli anni giornalisti della carta stampata hanno guardato con  distacco la crescita di internet sottovalutando il fatto che sempre più gente  acquisiva le informazioni da internet. Anche oggi, le redazioni internet dei  grandi quotidiani sembrano in parte delle dependance della grande redazione che  cura il cartaceo, mentre nelle grandi testate internazionali si è arrivati  addirittura a doppie redazioni con autonomia, pari dignità e la consapevolezza  di rivolgersi a target diversi.
 Un altro aspetto è che l’atteggiamento di chiusura non ha sollecitato il  ricambio generazionale. Sarebbe bastato anche acquisire semplicemente forze  fresche, aprire le redazioni a venti-venticinquenni, sgrossare un po’ di quel  trombonismo che attanaglia il sistema della politica e dell’amministrazione di  cui le radici del nostro giornalismo sono fatte. Invece no, ha vinto la casta  dei lacci e lacciuoli sindacali, della protezione delle posizioni acquisite e  della chiusura verso il nuovo o il fresco che preme. Ciò che sta accadendo nel  rapporto tra giornali e web è simile a quanto avvenuto per il Muro di Berlino:  tutti ne prevedevano la caduta ma nessuno avrebbe immaginato che quanto  ineluttabilmente previsto sarebbe avvenuto nell’arco di pochi giorni. Tutti  parlano di web prorompente e di giornali in crisi, senza accorgersi che il  crollo potrebbe essere consumato, senza punto di ritorno, in un breve segmento  temporale.
 E questo è il risultato cui siamo arrivati.
 In questo senso la lettera di de Bortoli interpreta l’esigenza dell’impresa  editoriale che ha bisogno di ristrutturare e rilanciare in un nuovo contesto  competitivo il prodotto giornale che annaspa, ma ha anche una base di cruda  verità quando invita i giornalisti a rinunciare alle resistenze e a raccogliere  le nuove sfide che stanno riplasmando il modo di fare informazione e  giornalismo.
 E se il Corriere della Sera discute intorno alla lettera del suo direttore  Ferruccio de Bortoli, per gli altri giornali la situazione non è certo migliore.  Il caso più emblematico è quello de L’Unità che dopo il rilancio di  appena quattro mesi fa annuncia la chiusura delle edizioni locali di Emilia  Romagna e Toscana a partire dal 15 ottobre. E le difficoltà si allargano anche  alla free-press, come testimoniano le vicende di questi giorni di E-Polis.
 Le aree di crisi si chiamano pubblicità, fatturato e margine operativo lordo.
 Indicatori che colpiscono mortalmente il mercato italiano. Nel 2009 la  pubblicità sui quotidiani è calata del 16, 4%, con dati peggiori per i periodici  la cui contrazione è stata del 29,3%. Per non parlare del calo delle vendite. A  farne le spese è il margine operativo lordo “del settore”, che esprime un  graduale esaurimento della capacità di gestione industriale per assicurare  risorse adeguate alla copertura dei costi complessivi di esercizio.
 E questo in un contesto in cui non è diminuita la capacità di lettura  dell’informazione quotidiana italiana, solo che si indirizza al web invece che  alle pagine di carta. Secondo Mediawatch il 33% degli italiani preferisce i  quotidiani online. Inoltre occorre aggiungere che la lettura online fa proseliti  tra i giovani che non avrebbero mai acquistato una copia cartacea. E il fenomeno  è ancor più accentuato se si guarda al modo come vengono diffusi in modo virale  gli articoli delle testate online attraverso i social networks (Facebook,  Twitter, Linkedin, Friendfeed). 
 Come dicevamo, all’estero la situazione è altrettanto difficile, ma in presenza  di mercati capaci di assicurare vendite per decine e decine di milioni di copie.
 Tutti ricordano il clamore delle affermazioni di qualche anno fa di Philip  Meyer, uno dei più competenti studiosi dell’editoria americana, che affermò  di prevedere l’ultima copia sgualcita del New York Times per il 2043. La realtà  è andata avanti più velocemente e oggi la stessa testata newyorkese prevede il  definitivo abbandono della carta già dal 2015, per passare alla sola edizione  digitale.
 Poco tempo fa, una delle più alte cariche dello Stato disse: “Senza la carta  stampata il web non è niente”.
 Più recentemente, l’amministratore delegato di un’azienda dell’Hi-Tech mi ha  detto: “…Voglio essere presente sulla vostra testata perché se rimango solo  sulla pagina di un quotidiano cartaceo non vado da nessuna parte: a parte la  rassegna stampa, dalle due del pomeriggio in poi è buono solo per incartare il  pesce…“.
 Sono due espressioni fuori taratura entrambe, ma non vi è dubbio che  l’informazione non sarà più quella di una volta. 
 Gli editori l’hanno capito, i giornalisti forse un po’ meno. 
 Quelli che hanno tutto chiaro sono i lettori. 
 Loro si sono già accasati nel web. 



 
  
  
  
  
  
  
  
  
 