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Trump contro Apple: “Basta iPhone prodotti in India”

Navigare tra dazi e regolamenti è già difficile. Farlo tra i capricci della politica lo è ancora di più. Apple, con la sua articolata catena di approvvigionamento globale, è l’emblema delle sfide che le grandi multinazionali devono affrontare in questo delicato momento storico. L’azienda guidata da Tim Cook, si trova ora con margini di manovra sempre più ridotti, mentre Trump torna a premere per spostare la produzione di iPhone negli Stati Uniti.

Trump attacca: “Niente iPhone made in India”

Non voglio iPhone costruiti in India. Tim, non farlo. L’India può badare a sé stessa” ha dichiarato il presidente Donald Trump durante un intervento in Qatar, criticando la recente espansione di Apple nel Paese asiatico e chiedendo, in pratica, di nazionalizzare la produzione negli USA.

Le affermazioni arrivano a poche settimane di distanza dall’introduzione dei dazi su larga scala sulle importazioni cinesi, misura che aveva spinto Apple ad aumentare la produzione in India.

La produzione indiana

Negli ultimi mesi Apple ha trasferito in India fino al 25% della produzione globale di iPhone. Solo nel 2023 ha assemblato nel Paese dispositivi per 22 miliardi di dollari, esportandone per 17,5 miliardi. Persino i modelli di fascia alta, come gli iPhone Pro, hanno cominciato ad essere prodotti nel subcontinente, seppur ancora su scala ridotta.

Il cambio di rotta, però, non è improvvisato, ma frutto di una strategia pluriennale, accelerata prima dalla pandemia e poi dalle guerre commerciali avviate dallo stesso Trump durante il suo primo mandato. I fornitori chiave, tra cui  Foxconn, Pegatron e il colosso indiano Tata, stanno espandendo rapidamente le loro strutture per soddisfare le esigenze di Cupertino.

Un’operazione che implica non solo nuove fabbriche, ma anche la formazione di personale, e la riorganizzazione logistica.

Trump chiede ora un’inversione di rotta

Il paradosso è che, mentre Trump lancia appelli a gran voce in giro per il mondo, la sua amministrazione ha appena concordato una riduzione temporanea dei dazi sulle importazioni cinesi, passando dal 145% al 30% per un periodo di 90 giorni. Una decisione motivata dal tentativo di ridurre l’inflazione negli States, ma che contraddice le dichiarazioni pubbliche del Tycoon.

Un cortocircuito che riflette le incoerenze del cosiddetto “Trumponomics 2.0”: sovranismo economico senza una reale strategia di filiera. E Apple, nel mezzo, si trova costretta a gestire decisioni logistiche complesse mentre subisce colpi di scena politici e cambi di rotta apparentemente arbitrari.

Cook tace, ma la tensione sale

In questo clima instabile, il CEO Tim Cook ha preferito non rilasciare dichiarazioni. Ma è chiaro che Apple si muove su un filo sottile: tra le esigenze del mercato globale, le pressioni dei governi e una produzione che richiede anni per essere riconfigurata.

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