L'operazione

Telecom Italia-Vivendi: quando le vicende di un’azienda non riguardano solo i suoi azionisti

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Le imprese operano meglio sui mercati internazionali quando hanno margini tali per decidere gli investimenti. Lo stato delle Tlc in Italia è tra i più critici in assoluto ed è in questo contesto che si deve muovere Telecom Italia.

Ho letto con interesse l’intervento di ieri sul Corriere della Sera, a firma di Alberto Mingardi direttore dell’Istituto Bruno Leoni, sulla vicende degli ultimi giorni relative alla trattativa Telecom ItaliaVivendi.

I manager, si legge nell’articolo, si prefiggono molto semplicemente dei limiti di prezzo in ogni negoziazione, limiti da non superare, ed è quello che è accaduto nel caso della gara per accaparrarsi GVT tra Telecom Italia e Telefonica.

Pertanto nessuna dietrologia, ribadisce Mingardi, e quindi nemmeno il ricorso a inutili modalità di giudizio fuorvianti che non partano da quel semplice assunto.

Tuttavia, le valutazioni diventano strumenti più utili di comprensione se collegati a quei fattori che determinano l’environment competitivo nazionale e di politica industriale delle singole aziende e di un settore così cruciale come quello delle telecomunicazioni, cui viene da tutti riconosciuta la capacità di incidere sulla costruzione della ricchezza del Paese attraverso la rete e i servizi avanzati che su di essa possono essere erogati da o per la pubblica amministrazione, le imprese e i cittadini.

E così si comprendono meglio le vicende agostane della trattativa Telecom Italia-Vivendi, se si collocano nel più ampio contesto di riferimento nazionale, che è fatto di tante puntate precedenti e non di un solo fotogramma, l’ultimo, per quanto lungo alcune settimane.

Le imprese, si sa (e quelle di Tlc non fanno differenza, anzi), operano meglio sui mercati internazionali quando hanno margini tali da poter decidere gli investimenti, quando hanno alle spalle sistemi-Paese che rassicurano gli investitori, quando sanno di poter contare su meccanismi della politica ben orientati a intravedere punti d’approdo a breve, medio e lungo termine.

Entrando in dettaglio, lo stato delle telecomunicazioni italiane è, come è ampiamente noto, tra i più critici in Europa. In assoluto.

Nel corso degli anni, AgCom ha condannato il settore delle Tlc ad una stretta regolatoria ideologicamente e ingiustificatamente sbilanciata a favore dei consumatori (con una corsa forsennata all’abbassamento delle tariffe tout-court e facendo di questa strategia un vanto), snaturando la sua stessa mission che prevede attenzione e tutela per gli uni e per gli altri, per consumatori ed aziende.

Parallelamente, nel contesto competitivo difficile che ha contribuito a creare, AgCom sembra essersi anche pericolosamente avvitata su un indebolimento del proprio ruolo, assediata come è da ricorsi ai TAR promossi da questo o quell’operatore contro questo o quell’altro operatore, che di fatto la surrogano e definiscono quelle dinamiche del mercato che dovrebbero essere affidate invece all’autorevolezza ed affidabilità dell’Authority nazionale.

Quando un regolatore è obbligato ad adottare una certa regola perché glielo impone un tribunale di giustizia amministrativa, il che può capitare, vuol dire che ha commesso un errore.

Quando la storia si ripete con maggior o minore regolarità, vuol dire che si assiste ad una graduale ed inarrestabile perdita di credibilità dell’istituzione. Né le regole del mercato digitale possono scaturire dai tribunali amministrativi.

E così in Italia tariffe basse oltre misura, rispetto al quadro europeo, con la conseguenza che i margini sempre più risicati delle aziende di Tlc (tutte, fisse e mobili, assediate da segno meno e quasi tutte oberate da debiti) inibiscono quegli investimenti che le stesse società di Tlc dovrebbero fare per creare vero valore, nuova occupazione e nuove competenze, con conseguenti convenienze per gli stessi consumatori.

Sarebbe il caso, qui, che AgCom riconquistasse l’autorevolezza e il posizionamento necessari per assicurare e rassicurare tutte le parti in commedia sull’effettivo ruolo cui è chiamata.

Poi sul Paese pesa gravemente la mancanza di una politica industriale del settore.

E’ almeno dall’inizio dello scorso decennio che non vi è in Italia traccia di politica industriale nelle telecomunicazioni.

E a nulla sono valse, più recentemente, le notti dei lunghi coltelli protrattesi per anni, almeno dal 2008, intorno ai tavoli di settore (dal Comitato NGN, assediato dall’ostracismo degli operatori, al cosiddettotavolo Romani, che non ha portato a nulla).

Si avverte un ingombrante inadeguatezza della politica sui temi dello sviluppo delle reti e del digitale nel suo complesso ed è singolare che sulle vicende agostane di cui parliamo non vi sia stata traccia di testimonianza, o quantomeno di attenzione, da parte della politica, tranne l’intervento del viceministro all’Economia Enrico Morando, che ha semplicemente comunicato di non voler entrare in vicende che riguardano il mercato ed aziende private. Un approccio formalmente corretto e forse anche scontato, per alcuni versi (ma allora non si comprende neanche perché sia stato diramato…).

Sarebbe invece utile che il governo dichiarasse (e Renzi potrebbe farlo) che tipo di sviluppo digitale intenda costruire per il Paese, indicando gli obiettivi a medio e lungo termine, ma definendo subito cosa intenda fare a partire da domattina.

Senza questa cornice indispensabile sarà difficile per qualunque azienda che operi in Italia nei mercati digitali capire come muoversi, quali strategie perseguire, su quali elementi puntare per sviluppare la propria competitività.

E’ in questo contesto, e non in altro, che vanno considerate le vicende della trattativa tra Telecom Italia e Vivendi.

Da un lato un’azienda (quella italiana) assediata dai debiti e che ha cercato di difendersi nonostante i venti contrari dell’environment nazionale di cui abbiamo parlato, che la rendono meno forte quando va all’estero. Dall’altro un’altra azienda (quella francese) che gioca la sua partita in un mercato (per essa estero) come quello italiano e che potrebbe trovare poco attrattivo un investimento in un settore eccessivamente regolamentato e privo del supporto del sistema-Paese. Infine, a latere un’altra azienda, la spagnola Telefonica, che ha potuto bivaccare per sette lunghi anni in Telecom Italia, senza che alcun soggetto, tra azionisti e non, obiettasse alcunché: né le banche (troppo indebolite e con i capelli dritti per altro), né la politica (affossata dalle difficoltà del Paese e dagli avvicendamenti traumatici di un governo dopo l’altro).

Ora vedremo cosa succederà ancora.