Transizione verde

Se il bitcoin fosse una nazione, sarebbe tra le prime 30 più energivore. Lo studio

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L’Università di Cambridge ha calcolato che per produrre bitcoin si consumano ogni anno 121 Twh di elettricità. Un volume di consumi pari a quello di Paesi come Argentina, Polonia o Egitto. Bisogna incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili per minare questa criptovaluta, come accade in Norvegia e Islanda.

La criptovaluta bitcoin ha sfiorato i 50 mila dollari di valore domenica 14 febbraio. L’effetto Elon Musk non è ancora finito, probabilmente, ma forse, nonostante gli ostacoli regolatori ancora alti, è l’inizio di una nuova stagione per le criptomonete.

Sembra infatti che anche Deutsche Bank e Morgan Stanley abbiano deciso di investire in bitcoin.

Accade quindi che la capitalizzazione di mercato di questa valuta virtuale abbia superato gli 871 miliardi di dollari di valore nei giorni scorsi, secondo i dati di AssetDash (cifra più grande del valore complessivo del rublo russo e della stessa capitalizzazione di Tesla Motors).

I costi energetici del bitcoin nel Report di Cambridge

Tutto questo successo, però, ha un costo, per l’esattezza un livello di consumo energetico crescite, che va preso in considerazione in tutta la sua grandezza. Per supportare l’ascesa del bitcoin, infatti, serve una potenza di calcolo equivalente all’energia consumata in un anno dall’Argentina (ma anche la Norvegia, l’Egitto, l’Ucraina o Svezia).

Secondo un Report dell’Università di Cambridge, la rete bitcoin consuma 121 TWh l’anno. Se la criptovaluta fosse una nazione, sarebbe tra le 30 al mondo più energivore, in termini di consumi elettrici.

L’impronta di carbonio del bitcoin peggiorerà esponenzialmente, perché più il suo prezzo aumenta, maggiore è la concorrenza per la valuta e quindi più energia è consumata dall’attività di mining“, ha dichiarato al quotidinano The Indipendent Charles Hoskinson, CEO dell’azienda di crittografia IOHK.

I minatori di bitcoin ci concentrano lì dove l’energia elettrica costa meno, ma oggi questo equivale a dire che si fa mining dove si ha a disposizione energia elettrica generata dal carbone, come in Cina.

In futuro, servirà generare più elettricità da fonti rinnovabili, ad una quantità tale da abbattere i costi e renderla più vantaggiosa anche per questo tipo di attività ad altissimi consumi energetici.

La transizione green delle criptovalute

L’esempio da seguire è quanto sta accadendo in Islanda e Norvegia, dove quasi il 100% di tutta la produzione di energia è rinnovabile e i miner di criptovaluta stanno sfruttando idroelettrico e geotermico a basso costo per alimentare le loro macchine.

Le basse temperature di queste latitudini aiutano anche a ridurre i costi di raffreddamento dei server, perché ci pensa l’aria gelida dei climi prossimi al circolo polare artico.

Secondo il Global Cryptoasset Benchmarking Study dell’Università di Cambridge, l’anno scorso il 76% dei miner di criptovalute ha utilizzato elettricità da fonti rinnovabili. Questa cifra è aumentata dal +60% rispetto all’edizione 2018 dello studio.