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Più capitalismo democratico e più Europa nella finanza. Le riforme economiche necessarie

di Maurizio Baravelli, Dipartimento di Management, Sapienza Università di Roma |

Per crescere abbiamo bisogno di più Europa e di un’Europa più unita. Una riflessione sul ruolo del sistema bancario e finanziario europeo.

1. Sviluppo economico e finanza

Dopo l’avvento dell’euro non sono stati fatti significativi passi in avanti sul piano dell’integrazione del sistema bancario e finanziario europeo. Nell’eurozona coesistono tuttora sistemi finanziari con caratteristiche strutturali differenti, sottoposti a una normativa di vigilanza comune per la tutela della stabilità che non ha però favorito né l’integrazione né l’innovazione delle forme di intermediazione a favore dello sviluppo.

Non si sono realizzate le auspicate concentrazioni cross-border, la formazione di un mercato unico dei servizi bancari e finanziari resta un progetto incompiuto; domina l’attività bancaria commerciale mentre il mercato dei capitali è asfittico; sta crescendo un settore di intermediari non bancari fuori dal controllo della vigilanza europea che poco contribuisce alla crescita dell’economia reale; la concorrenza interna in molti comparti è scarsa o pressoché inesistente: poco e nulla si è fatto per incentivarla.

È pertanto del tutto improprio parlare di sistema bancario e finanziario europeo; e ciò è tanto più vero quanto più si consideri la mancanza di quello spirito comunitario che dovrebbe far sentire i banchieri europei responsabili e partecipi nel condividere obiettivi comuni di sviluppo e progresso.

Si ha invece l’impressione (ma è purtroppo la dura realtà) che, con il perdurare della crisi economica e l’inflazione, le banche europee, specie i grandi gruppi bancari, abbiamo accentuato le strategie volte a tutelare i propri interessi con modelli di business di tipo speculativo, poco sensibili alle difficoltà delle imprese e alla tutela del risparmio, puntando a massimizzare i profitti a breve nell’intessesse degli azionisti e dello stesso management incentivato da bonus e schemi retributivi basati sulla redditività.

Ciò è in linea con l’idea, su cui si è costruita la stessa Ue, di uno sviluppo liberale fondato sulla concorrenza e l’efficienza del capitale grazie alla quale avremmo beneficiato di una maggiore crescita favorendo nel contempo un virtuoso processo di allineamento-miglioramento-innovazione degli assetti economico-finanziari nazionali che avrebbe consolidato l’integrazione e questa a sua volta una maggiore crescita.

Ma l’integrazione-innovazione non c’è stata mentre lo sviluppo solidale resta ancora parziale. Va preso atto che le differenze iniziali si sono addirittura acuite, con peggioramenti su diversi fronti tra cui l’aumento delle disuguaglianze.

L’economia europea cresce a tassi troppo bassi, la crisi energetica e l’inflazione hanno frenato gli sforzi di una ripresa che stenta ad avviarsi soprattutto per la mancanza di una politica industriale europea che faccia da traino alle economie nazionali. Si è accresciuto invece il verticismo finanziario, specie negli anni più recenti, quale conseguenza di una cultura e di una visione essenzialmente dirigistica che le authority europee hanno perseguito con una regolamentazione che, puntando al fine prioritario della stabilità, ha favorito la concentrazione finanziaria in contrasto con la stessa logica competitiva.

2. Necessità di un management socialmente responsabile

I maggior gruppi bancari europei, nel migliorare la propria efficienza, hanno semplificato gli assetti organizzativi con la conseguenza che all’aumento della concentrazione a livello di sistema si è accompagnata una concentrazione delle decisioni a livello aziendale.

Il potere finanziario è finito nelle mani di gruppi di persone sempre più ristretti con modelli di governance o influenzati dall’attivismo dei fondi di investimento e di altri investitori istituzionali, partecipanti al capitale, o auto-referenziali quando prevale un azionariato diffuso e il management, tra le maggiori preoccupazioni, ha quella di evitare le acquisizioni ostili mantenendo saldo il controllo direzionale.

Questi modelli confliggono con i principi della partecipazione e dell’inclusione nonostante i proclami di facciata dei top manager sulla responsabilità sociale sollecitata da una regolamentazione ESG (Environmental, Social, Governance) che dovrebbe indurre le banche sia a evitare soprattutto i rischi ambientali e climatici che gravano sulle imprese (ed è a questi che guarda la vigilanza al fine della stabilità) sia a finanziare la green economy (ma questo è solo un effetto indiretto).

Le banche continuano tuttavia a perseguire il proprio interesse in linea con un capitalismo manageriale che si è affermato anche in un sistema finanziario la cui condotta è slegata dalle esigenze di un’economia che, senza una politica industriale europea condivisa, continua ad essere in balia degli eventi.

C’è infatti in Europa un grande bisogno di definire ex-novo (più che ri-definire) le traiettorie di uno sviluppo – o di un “non sviluppo” – che è stato guidato fino a ora da logiche poco allineate agli interessi dei cittadini.

Non si tratta solo di sostenere, lo ripetiamo, una green economy europea che peraltro non è risolutiva e presenta aspetti contradditori; riteniamo che tra gli obiettivi da perseguire vi sia soprattutto quello di puntare allo sviluppo della domanda interna.

Non  si può infatti pensare di crescere incrementando solo le esportazioni extra-europee (export-led growth); occorre investire considerando  in primis i bisogni nazionali, aumentando i redditi dei lavoratori e delle famiglie, facendo crescere le economie locali con la promozione di progetti bottom-up, migliorando la qualità della vita sociale, promuovendo nuovi settori e nuove imprese nella prospettiva della modernizzazione delle aree urbane, della soddisfazione dei bisogni collettivi, favorendo una maggiore collaborazione tra pubblico e privato nei progetti di investimento.

Devono essere i cittadini il vero riferimento delle politiche economiche, industriali e finanziarie che l’Europa deve perseguire evitando che prevalgano gli interessi di un capitalismo finanziario, che grazie all’aumento dimensionale, domina l’economia ed è diventato speculativo allontanandosi dai confini di quel capitalismo democratico che ha ispirato la stessa unione economica e finanziaria europea.

3. Finanza e capitalismo democratico europeo

In un sistema economico e finanziario sostanzialmente oligopolistico dovrebbe essere più facile realizzare convergenze sugli obiettivi di una politica industriale comunitaria e rispondente agli interessi dei cittadini.

Occorre però una governance europea che riesca a promuovere, nel rispetto del libero mercato, uno spirito collaborativo comunitario da parte di un top management che diventi sensibile a una responsabilità di tipo comunitario.

Se ciò coinvolge l’economia, deve valere a maggior ragione per la finanza che dispone del maggiore potere di indirizzare le sorti dell’Europa, come è avvenuto finora, allocando e riallocando le risorse secondo le linee condivise e condivisibili di una nuova politica industriale.

La finanza europea è in mano saldamente al settore delle banche che dominano il sistema finanziario europeo. I mercati finanziari, in particolare quelli del capitale di rischio, svolgono un ruolo marginale nel mobilitare il risparmio verso gli investimenti.

Portare avanti progetti europei significa fare i conti con una finanza privata che, in un contesto liberale, guarda soprattutto al proprio tornaconto; poco può fare una governance economica europea che dispone di un bilancio europeo che incontra difficoltà ad aumentare le proprie risorse.

La UE, nel delineare un quadro prospettico di un nuovo sviluppo industriale, deve promuovere al proprio interno un ampio confronto sulle nuove linee coinvolgendo le imprese e le banche e andando verso quell’approccio già sperimentato, in altri contesti e momenti storici, del capitalismo democratico, volto a conseguire un maggior equilibrio tra, da un lato, gli interessi del capitale, e dall’altro lato, gli interessi di una comunità che guarda maggiormente al rendimento sociale degli investimenti.

Nel realizzare questo equilibrio, la nuova politica industriale europea deve poter comunque creare condizioni di attrazione, con strumenti anche fiscali, a favore dei nuovi investimenti e delle nuove produzioni.

Ciò premesso, e ribadito che il cambiamento richiede anche un’evoluzione strutturale del sistema bancario e finanziario europeo di cui diremo fra poco (per superare le inadeguatezze e i suoi punti di fragilità), va chiarito che senza una reale presa di posizione e il coinvolgimento del management bancario sulla necessità di una nuova strategia industriale da sostenere finanziariamente, è illusorio pensare alla sua concreta realizzazione.

Ma se manca, come detto, la responsabilità sociale di tipo micro-economico nei confronti dei più diretti stakeholder (personale, depositanti, imprese richiedenti credito e territori), come si può pensare di poter coinvolgere il management finanziario nel sostenere politiche di sviluppo comunitario quando la filosofia seguita resta quella della profittabilità aziendale sopra ogni cosa? Nel sostenere una nuova politica industriale, gli azionisti – e lo stesso management – quanto sono disposti a sacrificare del loro interesse sul piano finanziario?

In linea di principio, dovrebbe essere un capitalismo manageriale responsabile ad imporsi facendo cultura d’impresa nel sostenere i vantaggi e la superiorità dei risultati e delle strategie a medio termine rispetto a risultati di breve periodo.

Un ribaltamento di una cultura quindi che deve essere trasferita al mercato. Non sono mancati esempi in passato di forme di concertazione nazionali (e mi riferisco all’esperienza americana degli anni ’60-’70 e a quella italiana del secondo dopoguerra) che hanno generato crescita e stabilità sociale.

Un management industriale e finanziario responsabilizzato sui grandi problemi del paese seguiva logiche orientate al bene comune e agiva collaborando alla loro soluzione.

4. Più Europa nel sistema finanziario

Certamente si deve e si può fare di più da parte delle “istituzioni europee” nell’interesse dello sviluppo a cominciare da una BCE che, nel dichiarare la propria neutralità rispetto al mercato, non solo determina effetti asimmetrici ma anche frena la crescita con una politica monetaria poco flessibile e agnostica rispetto agli effetti sull’economia reale.

Una banca centrale guidata dal solo obiettivo della stabilità monetaria non è funzionale a sostenere strategie industriali soprattutto innovative che non possono essere lasciate al mercato ma che richiedono condizioni e criteri finanziari selettivi.

Ciò detto, va riconosciuto che il panorama istituzionale europeo è piuttosto scarso sul piano finanziario; oltre alla BEI, il cui ruolo continua ad essere sottotono, abbiamo il MES con obiettivi più di sostegno nelle crisi che di sviluppo, e recentemente il Recovery Fund suscettibile di essere potenziato grazie alla raccolta di fondi tramite l’emissione di eurobond.

Resta un progetto spesso richiamato ma accantonato quello della creazione di un debito pubblico europeo in sostituzione dei debiti pubblici sovrani: un progetto che costituirebbe la soluzione al finanziamento degli investimenti comunitari rientranti in una nuova politica industriale europea.

Ma a prescindere da queste misure necessarie, vi è da chiedersi, come detto, se sia possibile e non utopistico pensare a un management che diventi sensibile ad esercitare il proprio potere direzionale con un maggiore equilibrio tra gli interessi aziendali e il contributo alle realizzazioni promosse dalla governance europea.

A tal fine, è necessario in ogni caso sviluppare un dibattito sulle linee di indirizzo da sostenere e in particolare occorre insistere sull’allargamento delle governance aziendali al personale e agli altri stakeholder. Questo dibattito è stato finora sostanzialmente assente. Per la UE “politica industriale” significa limitarsi a creare le condizioni di contesto perché si realizzi la libera iniziativa grazie al confronto competitivo di mercato.

È del tutto evidente che siamo in presenza di una posizione agnostica che non fornisce alcun contributo a favore di un qualche orientamento. Creare le condizioni di contesto dovrebbe significare almeno adottare misure economiche, finanziarie e istituzionali per rimuovere le attuali “imperfezioni” che impediscono di poter generare un “modello europeo” condiviso e collaborativo. Questo modello non esiste perché in un regime neoliberista prevalgono le condotte conflittuali; occorre quindi superare questo limite.

È vero che ci sono state nel recente passato proposte di sviluppo europeo a partire da un programma di promozione dell’innovazione come fattore determinante della crescita, e si è parlato anche di una Europa della conoscenza, puntando l’attenzione sulla criticità del rilancio degli investimenti.

Ma questi propositi sono falliti anche per le varie crisi intervenute e che hanno frenato gli entusiasmi iniziali con il ritorno a condotte nazionali a difesa dei propri interessi. Così questi hanno prevalso rispetto ai propositi di una collaborazione europea. E la politica in tutto questo ha grandi responsabilità.

5. Le riforme necessarie in Europa

Sul piano strutturale, l’Europa presenta numerose debolezze. Si osserva ancora una forte centralità delle banche e del credito bancario. Il mercato unico dei servizi bancari e finanziarinon ha registrato un significativo sviluppo. Le imprese dipendono molto dalle banche. Prevalgono gli strumenti finanziari non negoziabili come i prestiti e le azioni non quotate. Le aggregazioni trans-frontaliere non hanno segnato incrementi di rilievo. L’Europa si presenta con pochi campioni finanziari in grado di competere a livello internazionale. Al tempo stesso, occorre difendere il pluralismo finanziario di fronte ai processi di concentrazione che non devono affossare il settore delle banche locali. L’Unione bancaria europea resta da completare con un sistema di tutela dei depositi.

Il capitale di rischio dovrebbe essere maggiormente incentivato per la crescita delle imprese. Ma in Europa occorre anche promuovere le banche di investimento per il finanziamento delle infrastrutture, dei grandi progetti industriali e dell’innovazione. La regolamentazione deve incentivare queste attività che sono fondamentali per la crescita. Negli ultimi anni c’è stato un progressivo sviluppo del settore degli intermediari non bancari grazie ai fondi di investimento e i fondi pensione.

Gran parte di questi intermediari non bancari non è però soggetta ai controlli di vigilanza e alimenta un rischio di instabilità che può contagiare il settore delle banche.

La vigilanza bancaria in Europa ha privilegiato negli ultimi decenni la stabilità con una regolamentazione molto vincolante basata sull’aumento dei requisiti di capitale che hanno frenato l’assunzione dei rischi ma allo stesso tempo hanno operato come fattori restrittivi del credito e dei finanziamenti all’economia.

La vigilanza bancaria deve pertanto tenere conto degli effetti finali della regolamentazione sull’economia secondo il suo mandato istituzionale. Occorre semplificare la regolamentazione per promuovere l’imprenditorialità delle banche e il finanziamento dell’innovazione dell’economia reale. La vigilanza e la politica monetaria debbono lavorare in sintonia con gli obiettivi della politica economica e industriale europea condividendone gli sforzi di attuazione. Senza unione di intenti e condivisione è difficile pensare a una nuova Europa.