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Minare Bitcoin costa al mondo 9 miliardi l’anno in bolletta. Crescono del 50% gli attacchi criptomalware

Tutti parlano (di nuovo) di bitcoin e ora si prospetta lo sfondamento prossimo della soglia record di 50 mila dollari di valore.

Tutto è possibile, si commenta sulla stampa internazionale, dopo l’uscita di Elon Musk e della sua Tesla, ma soprattutto dopo le voci insistenti che vorrebbero anche Apple sulla strada di investire in bitcoin.

Mitch Steves di Rbc Capital Market ha infatti ipotizzato l’estensione dei servizi dell’Apple Wallet al mercato delle criptovalute (comprare e vendere bitcoin o ethereum tramite un’app magari), come ha riportato dal Sole 24 Ore, sulla strada spianata da altre grandi aziende, tra cui Square e Microstrategy, che hanno trasformato in questo modo una parte della loro liquidità.

Bitcoin, consumi energetici e CO2

Ma il bitcoin non è solo sinonimo di finanza digitale, perché per “stampare” la criptovaluta, cioè per fare mining (processo che consente di generare nuovi blocchi della blockchain della criptovaluta per minare altri bitcoin), si consuma tanta energia.

Ogni giorno le transazioni da inserire nel registro bitcoin (che ci consentono di generare nuove unità di criptovaluta e tenere il conto di quelle vecchie) ci costano a livello mondiale 25,2 milioni di dollari di energia consumata.

Il costo è stato calcolato da Trading Platforms moltiplicando il numero medio di transazioni in 30 giorni, cioè 329 mila circa, per 76 dollari, che è il costo del consumo energetico medio di una transazione (612 kWh).

Ogni anno per fare bitcoin consumiamo tra 100 e 112 TWh di energia elettrica, circa il 2% del totale consumato dalla Cina, secondo i dati aggiornati quotidianamente del Center for Alternative Finance presso l’Università di Cambridge.

Tra l’ottobre del 2015 ed il gennaio 2021 è stato calcolato un aumento dei consumi di elettricità per minare bitcoin del +10.200%.

In termini di emissioni climalteranti, minare bitcoin vuol dire immettere in atmosfera 37 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, stando ai dati prodotti da Digiconomist.

Una volta per generare bitcoin bastavano un po’ i computer domestici messi in rete in qualche garage, oggi sono nate delle vere e proprie mining farm, un gran numero di processori e ventilatori sempre accessi a processare in grandi capannoni.

Motivo per cui, oggi, una transazione bitcoin consuma quanto 600.000 transazioni del circuito di carte credito Visa, mentre nel suo complesso il consumo energetico supera quello della Nuova Zelanda.

In crescita gli attacchi di criptomalware

L’aumento dei consumi energetici ha anche determinato un aumento dei prezzi bitcoin, cresciuti del +330% nell’ultimo anno. È un grande business, su cui le imprese investiranno sempre di più e che in prospettiva potrebbe crescere a dismisura, attirando quindi le attenzioni poco gradite dei cyber criminali.

Nell’ultimo trimestre del 2020 è stato registrato un aumento del +53% di attacchi di malware coinminer rispetto al trimestre precedente, secondo stime Avira.

La crescita del prezzo della criptovaluta, ora stabile attorno ai 36-38 mila dollari (ma dopo la straordinaria punta di 48 mila dollari), può essere il motivo di questo aumento di criptomalware in circolazione.

Questi attacchi hanno l’obiettivo di sfruttare le risorse informatiche di altri hardware per attività di mining illegali.

Il malware coinminer, o criptomalware, a differenza dei ransomware tradizionali, opera indisturbato sul dispositivo dell’utente, che non si accorge della sua presenza (una caratteristica che lo rende particolarmente insidioso).

Non ruba dati e non ricatta l’utente, perchè il criptomalware generalmente rimane in background il più a lungo possibile, proprio per eseguire furtivamente l’attività di mining.

Attività che svolge avvalendosi delle risorse del computer infetto, come il processore, la scheda grafica e la memoria principale, nonché la larghezza di banda della rete (uno sfruttamento complessivo delle risorse di sistema che è chiamato cryptojacking).

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