La consultazione

La Rai che vorrei. Come ripensare il servizio pubblico televisivo, dalla parte delle audience?

di Romana Andò, Ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi |

Il nomadismo delle audience e la correlata disponibilità ad accedere a contenuti sempre nuovi e coinvolgenti, dovrebbe agire da stimolo per la sperimentazione di formati e linguaggi, attingendo anche dalle culture partecipative del web.

Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.

Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti. 

Impostare una riflessione sul ruolo del servizio pubblico nel mutato scenario dell’ecosistema televisivo, oggi non può prescindere da una riflessione sistematica sulle audience. Mettersi dalla parte delle audience significa, cioè, prendere atto delle trasformazioni che riguardano le pratiche di consumo televisivo, oggi moltiplicate in un caleidoscopio di esperienze che descrivono una nuova centralità della TV, proprio nella fase in cui questa sperimenta la sua fine in termini di unicità del medium come apparato tecnologico.

Dal punto di vista delle pratiche, infatti, osserviamo anche in Italia una sempre più vistosa diversificazione dei device di accesso al contenuto (TV set, handheld devices), dei settings (indoor e outdoor) e dei rituali di consumo (fruizione individuale, collettiva, socially shared online) con cui costruire esperienze estremamente diversificate sebbene spesso fortemente complementari (Andò, Marinelli, 2014 Multiscreening and Social TV – The Changing Landscape of TV Consumption in Italy).

Al centro di queste esperienze oggi sempre di più c’è il contenuto, più che il medium, rispetto al quale le audience definiscono strategie di visione differenziate sulla base dei formati di consumo (programmi singoli, frammenti o sneak peek, sessioni di binge watching etc.) e sulla essenza transmediale del contenuto (app, gamification, shopping etc.).

Ne emerge uno scenario in cui progressivamente le audience tendono ad appropriarsi di una esperienza televisiva espansa oltre i confini del mezzo e del programma, a sperimentare nuove opportunità di consumo, a costruire flussi televisivi personalizzati secondo le proprie esigenze, ritmi di vita, motivazioni e interessi, sfuggendo alla volontà di controllo dell’offerta del modello TV tradizionale.

È evidente che a questa crescente maturità e autonomia delle audience fa da contraltare un regime di competitività particolarmente sfidante, cui gli operatori – sia TV-nativi che non – stanno rispondendo con un’offerta sempre più mirata a guadagnare l’engagement delle audience, in un clima al contempo di incertezza ma anche di grande effervescenza.

Nell’attuale ecosistema televisivo i comportamenti delle audience appaiono decisamente meno prevedibili che in passato, e la ricerca di mercato si scontra con i limiti di metriche di rilevazione che sono sempre meno in grado di fotografare la complessità mutevole del mondo sociale delle audience effettive (Ang ed. it. 1998).

Ciò che è sempre più evidente, cioè, è che al centro del consumo mediale ci sono le persone, con le loro caratteristiche sociali e culturali, che proprio sulla base della propria appartenenza identitaria (chi sono io) e relazionale (qual è la mia cerchia familiare, amicale, professionale, locale, nazionale) scelgono di interagire con determinati contenuti mediali.

Spostare l’attenzione sulla natura “culturale” dell’essere audience, significa quindi valorizzare l’idea che prima ancora che essere audience di un determinato programma, canale, network,  le persone sono parte di gruppi sociali, che vivono la propria esistenza in un contesto sempre più caratterizzato dai media, in cui usano i media per informarsi, intrattenersi, entrare in relazioni con gli altri e, soprattutto, per dare senso a tutto ciò che le circonda, come ricorda Silverstone nel bel saggio “Perché studiare i media” (ed. it. 2002).

Rispetto a questa idea di audience fatta di persone, prima ancora che di consumatori, il servizio pubblico dovrebbe partire avvantaggiato, in quanto presuppone come destinatario un citizen-viewer, che è molto più vicino all’idea condivisa dagli studiosi di media contemporanei di audience attiva, partecipativa, engaged  e fatta di persone, rispetto a quella definita statisticamente dalle ricerche di mercato.

La mission del servizio pubblico, in definitiva, è quella di fornire alla collettività, gli strumenti simbolici, politici, culturali per la sua identità e gestualità quotidiana (public responsability). Ciò che è pubblico, cioè di interesse collettivo, oggi lo è in quanto passa attraverso la mediazione dei media e in questo scenario quelle che erano solamente audience vanno definitivamente inquadrate come le protagoniste di nuove forme di civic engagement (Livingstone, Markham 2008 The contribution of media consumption to civic participation). Il limite del servizio pubblico, tuttavia, è stato finora quello di continuare a interpretare il valore culturale e politico della televisione – e di conseguenza la sua mission – in modalità top-down e con un approccio fortemente paternalistico.

Se, quindi, dal punto di vista dello sguardo sulle audience il servizio pubblico può partire con una marcia in più perché dovrebbe essere abituato a intercettare e a dialogare con la dimensione sociale e culturale (in senso lato) delle audience, la sfida che lo attende è certamente molto complessa. In primo luogo deve continuare a giustificare la sua presenza all’interno di un mercato in cui circolano contenuti che sono, oltre che appetibili, socialmente rilevanti indipendentemente dalla mission dei produttori e distributori. Tutti i contenuti, cioè, hanno una rilevanza “politica” e “culturale” non solo l’approfondimento o il dibattito di un certo livello, finora destinato alle nicchie più attive della popolazione.

Dove, dunque, il servizio pubblico può esercitare una funzione centrale per le audience contemporanee e intercettarne i bisogni e le esigenze sociali e culturali senza perdere la propria capacità di appeal?

Dal mio punto di vista almeno tre sono le strategie suggerite dalla ricerca e dalla riflessione sulle audience:

  • Il mantenimento della centralità del liveness in un modello televisivo anytime e anywhere;
  • L’investimento nella creatività e sperimentazione di linguaggi e formati per rispondere a audience sempre più competenti e partecipative, che si muovono all’interno di diversi gruppi sociali con esigenze diversificate;
  • L’opportunità di valorizzare la funzione informativa e di approfondimento del servizio pubblico attraverso l’uso strategico degli spazi della social TV per costruire audience engaged e partecipative.

La dimensione di liveness si riferisce all’idea che attraverso la televisione i soggetti possono accedere alla realtà in cui vivono, cui la TV stessa fornisce un accesso privilegiato dandone copertura e raccontandola: è alla base, cioè, dell’idea di TV come “finestra sul mondo”.  È, quindi, la dimensione del liveness a definire chi accede (una particolare organizzazione sociale), e perché si accede (ovvero la rilevanza dei contenuti per la società cui sono rivolti) alle rappresentazioni della realtà.

Quando parlo di liveness come chiave di valorizzazione della relazione tra audience e servizio pubblico, non intendo, dunque, riferirmi solo alla programmazione live, cioè alla scelta tecnologica di produzione e distribuzione dei contenuti in diretta, in tempo reale; con liveness intendo, invece, richiamare l’insieme delle dimensioni simboliche che l’essere live nella televisione broadcast presupponeva sul piano culturale e sociale del consumo (Couldry, 2004). Cioè il coinvolgere davanti alla TV una platea allargata fino ai confini della comunità nazionale. È, infatti, al liveness che è demandata la funzione di mantenere un senso di “nazionale”, un senso di collettività, almeno immaginata, come nel caso dei grandi eventi mediali che agiscono da occasione di identificazione e appartenenza sociale (si pensi al Festival di Sanremo, ma anche ad un certo tipo di produzione seriale come le fiction dedicate alle figure storico-religiose del Paese).

Oggi, in uno scenario in cui la moltiplicazione dell’offerta introduce costantemente nuovi contenuti non necessariamente caratterizzati in senso locale, diventa decisivo mantenere uno spazio dedicato al rafforzamento dell’identità nazionale. E questo spazio può essere garantito dalla costruzione di contenuti televisivi “evento” riconosciuti come tali dalle audience e da queste valorizzati, condivisi, discussi attraverso le pratiche della social TV e le dinamiche di interazione offline. Come oggi già avviene intorno a prodotti per i quali il livello di identificazione e engagement è elevato, la dimensione di liveness è vissuta senza soluzione di continuità tra lo schermo televisivo e i dispositivi mobili che espandono l’esperienza di consumo (Liveness, ‘reality’, and the mediated habitus from television to the mobile phone).

Come evidenziato dalle ricerche, in un mercato maturo , sia in termini di offerta che di domanda, possono convivere pratiche di consumo televisivo che sono solo apparentemente distanti e inconciliabili (cfr. Nielsen Report, The Total Audience Report – Q4 2014): lo stesso consumatore, cioè, può passare da sessioni di binge watching in solitaria ad una visione per appuntamento magari condivisa a livello familiare; dall’on demand ai grandi eventi a forte caratterizzazione collettiva, il cui valore di liveness, cioè di definizione di immaginari condivisi con temporanei, è centrale. Anche quando non sono fruiti live, ma in differita.

Rispetto alla questione della sperimentazione, il clima di competizione che osserviamo nel mercato impone una sfida incessante nella definizione di nuovi contenuti che dovrebbe essere accolta e valorizzata dal servizio pubblico, proprio in virtù della sua mission e per la sua auspicabile indipendenza da logiche puramente economiche.

In uno scenario caratterizzato dalla moltiplicazione dell’offerta e dalla costante ricerca del nuovo, l’esigenza di rispondere ad obiettivi di pluralismo e rappresentatività non necessita più di essere confinata in prodotti dal sapore tradizionale e un po’ vetusto, storicamente destinati a nicchie di ascolto. Il nomadismo delle audience e la correlata disponibilità ad accedere a contenuti sempre nuovi e coinvolgenti, dovrebbe, infatti, agire da stimolo per la sperimentazione di formati e linguaggi, attingendo anche dalle culture partecipative del web. In un caso, in particolare, questo diventa un obiettivo urgente.

L’investimento creativo nella produzione di contenuti potrebbe, infatti, attrarre anche i target più giovani che pur non avendo del tutto abbandonato la televisione, coltivano una diversa idea di esperienza di consumo (Andò 2014, What does TV actually mean? New consumer  experience and generations), sempre più svincolata dagli schermi e sempre più ancorata a logiche transmediali. In questo senso l’ascolto delle culture del web, l’individuazione delle nuove tendenze nella definizione delle forme culturali, potrebbe significare per il servizio pubblico la  costruzione di factories in cui sviluppare contenuti originali adeguati alla nuova complessità della TV (Mittel 2013, The Poetics of Contemporary Television Storytelling) e favorire la definizione e la crescita di  nuove professionalità dell’audiovisivo e del digitale.

La terza questione sul tavolo è quella della promozione di una cultura partecipativa attraverso la valorizzazione della social TV in chiave informativa. In questo caso, l’elemento decisivo di trasformazione dell’ecosistema televisivo da considerare è quello delle pratiche di social TV gestite attraverso il multiscreening. La social TV per senso comune è soprattutto riferibile alle attività che le audience costruiscono all’interno dei social media per commentare, condividere, suggerire un determinato contenuto TV. Questo fenomeno è stato immediatamente accompagnato da entusiasmo diffuso, da una parte perché le interazioni sulle piattaforme on line rappresentano un’opportunità di feedback immediato sul prodotto (in alcuni casi facilmente quantificabile); dall’altra perché in qualche modo le pratiche discorsive on line possono essere raccontate retoricamente come espressione della partecipazione delle audience.

In realtà social TV non significa solo questo: più in generale la social TV ha a che fare con l’idea che i contenuti TV generino relazioni sia tra audience, sia tra audience e testo. E l’aspetto qui più importante è forse proprio quello della relazione con il testo, che si traduce nella costante produzione e/o ricerca da parte delle audience di touch point con il contenuto che consentono di espandere l’esperienza di consumo oltre i titoli di coda di un singolo programma.

I dati di ricerca sia nazionali (RETHINKING THE TV EXPERIENCE – L’esperienza della social tv in Italia) che internazionali (The Role of Digital in TV Research, Fanship and Viewing) mostrano come gran parte delle attività svolte dalle audience sul second screen, prima, durante e dopo la visione, siano orientate alla ricerca di informazioni sulla base di stimoli che emergono dal contenuto televisivo. Che sia la verifica della validità delle informazioni ricevute (funzione di fact checking) , o l’esplorazione on line di siti e luoghi citati nei programmi, o la ricostruzione delle biografie delle celebrities, le audience televisive mostrano di mettere insieme con grande naturalezza due aspetti del consumo mediale, ormai acquisiti come competenza di base: la centralità – intesa qui anche come rilevanza – dei contenuti della TV e la predisposizione al searching, che i motori di ricerca hanno allenato e stimolato finora.

L’attività di detection (certamente fandom-like) nei confronti dei testi televisivi è stata finora esercitata dalle audience all’interno del web, basandosi sulla logica wiki e consentendo alle audience stesse di costruire i propri processi di apprendimento in modo autonomo. I network TV, da questo punto di vista, e il servizio pubblico ancora di più, potrebbero valorizzare queste pratiche della social TV accompagnando con interventi strategici l’esigenza di conoscenza delle audience e fornendo strumenti di approfondimento che promuovano l’ibridazione tra TV e web e la partecipazione delle audience più engaged.

Le proposte di riflessioni fin qui presentate rappresentano solo una piccola parte di un dibattito certamente più ampio, che coinvolge le dimensioni tecnologiche, economiche, politiche del servizio pubblico. Servono, però, a ribadire l’importanza strategica di mettere al centro di questo dibattito le audience, non come obiettivi di ascolto e legittimazione, ma come punto di partenza e osservatorio privilegiato, per comprendere le nuove esperienze di consumo televisivo.

riferimenti bibliografici

Silverstone, R. (1999), Why Study the Media?, London: Sage

Ang, J. (1991), Desperately Seeking the Audience, London: Routdlege.