La consultazione

La Rai che vorrei. M. Mele: ‘Il Tesoro non sia azionista unico’

di Marco Mele, Giornalista de Il Sole 24 Ore - Specializzato in Media e Comunicazione |

Il servizio pubblico, per produrre bene pubblico, deve essere in condizione di essere indipendente da interessi di parte, di qualsiasi parte. Così non è stato in questi anni.

Il 31 ottobre 2016, come stabilito dal Decreto legislativo n.50 del 18 aprile 2016, scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.

Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti. 

Mission e gentilezza sono le parole chiave del miglior intervento sul servizio pubblico e il suo futuro che si legge in Italia da alcuni anni a questa parte, quello di Flavia Barca, con la quale mi scuso per il ritardo nella risposta.

Un servizio pubblico serve ancor più di ieri in una società dove la nostra identità individuale, famigliare, cittadina, nazionale viene messa ogni giorno nel tritacarne della rete globale, il Nuovo Mondo, dove algoritmi vagamente diabolici, scompongono e ricompongono ciò che facciamo, diciamo, scriviamo, postiamo, condividiamo, amiamo. Nuovo Mondo dove a controllare gli algoritmi sono grandi corporation multinazionali, spesso partner di presidenti e governi e dove, anche per reazione, cresce la concentrazione dei media classici.

Un servizio pubblico, in questo contesto, deve costruire storie, narrare non solo il contemporaneo ma l’evoluzione dei valori, dei costumi, dei rapporti sociali e individuali. Deve, quindi, produrre e far produrre formati e contenuti e far decollare il comparto produttivo nazionale, superando quei limiti sottolineati da Flavia, di un Italia spesso rappresentata al meglio dalla Bbc (Pompei) o da Sky (Gli Uffizi in 3D e non solo).

Aggiungo che la gestione dei diritti, a mio avviso, è diretta emanazione dell’assetto prima duopolistico e ora oligopolista del sistema televisivo: il fine prioritaria di tale gestione è impedire la crescita di nuovi soggetti, sia come emittenti sia come piattaforme tecnologiche.

Lo stesso fine del basso prezzo della pubblicità nel nostro paese, a partire dagli anni ottanta.

Non basta, tale ruolo propulsivo dell’industria audiovisiva, ad offrire quel “servizio unico”, che “produce bene pubblico”, giustamente posto da Flavia Barca come unica e solo giustificazione del servizio pubblico e del suo ruolo.

La spinta “gentile” all’inclusione sociale è un obbligo per il futuro della Rai. Qui vanno fatte alcune precisazioni.  Altrimenti la Rai rischia d’inciampare, non di essere “la tv d’inciampo”, come dovrebbe.

Primo: il servizio pubblico non può avere come azionista unico il Tesoro, ovvero il Governo. Non può essere l’azionista Governo a dire al consiglio di amministrazione: delegate i vostri poteri al presidente prima e poi, per legge, al direttore generale. Due figure proposte proprio dal Governo, nel primo caso dopo il benestare dell’opposizione. La Legge Gasparri andrebbe abolita, non emendata.

Secondo: il servizio pubblico, per produrre bene pubblico, deve essere in condizione di essere indipendente da interessi di parte, di qualsiasi parte. Così non è stato in questi anni. La società deve riappropriarsi del servizio pubblico, pur sapendo quanta ambiguità e quanti conflitti nasconda la parola “società” o quella di “cittadini”.

Terzo: serve un nuova selezione della classe dirigente e giornalistica del servizio pubblico, che vada oltre il job posting, dove ci si possa candidare a ciascuna direzione con curriculum pubblici, in modo trasparente, interni ed esterni, ben sapendo che poi la scelta discrezionale spetta al vertice aziendale.

Quarto: la Rai deve essere servizio universale per formare la nuova cittadinanza, deve poter essere ricevuta da tutti i cittadini, e da chi abita e risiede in Italia, oltre che dagli italiani all’estero, su tutte le piattaforme. E deve poter essere ricevuta da tutti in Italia.

Quinto: la Rai dev’essere all’avanguardia nelle nuove tecnologie sì, ma “applicate” al prodotto. Il Centro Ricerche di Torino deve lavorare insieme a chi pensa, scrive, concepisce, realizza programmi e contenuti per tutti i formati e le piattaforme.

Sesto: la Radio. Radio Rai dev’essere all’avanguardia nella ricerca di nuovi linguaggi ma anche nella valorizzazione delle culture e delle musiche locali e nazionali, deve tornare a far parlare i cittadini quando questi hanno questioni da porre e deve anche raccontare, sceneggiare la vita, far tornare la fantasia di immaginare dalle voci e dai suoni.  Deve nascere un vero canale all news, non certo l’attuale RadioUno.

Settimo: il Web. La Rai deve essere l’altra voce di Internet, la voce dei diritti individuali, la voce in contrasto con l’apparente maggioranza, deve saper essere in minoranza, ma con gentilezza e intelligenza. Deve far capire al Paese dove sta andando la Società della Rete, la società, e cosa si può fare per cambiarla. E, ovviamente, ribaltare il digital divide, costruire il cittadino digitale, ma qui ha detto tutto e meglio Flavia Barca.

Con gentilezza, sempre. Ma senza alzare bandiera bianca prima di lottare.