Una prima versione di questo contributo alla discussione è stata presentata alla Tavola Rotonda: “Politiche per la competitività regionale e territoriale. Il sistema paese e il Mezzogiorno”, al Congresso della Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe), Cosenza, il 16 settembre 2015.
Le considerazioni e proposte si basano largamente sui lavori e sui due ebook elaborati dal Gruppo di Discussione “Crescita, Investimenti e Territorio”, che possono essere scaricati al seguente indirizzo: http://economia.uniroma2.it/dedi/crescita-investimenti-e-territorio/
Premessa
Le linee guida del Masterplan per il Mezzogiorno, partono da una premessa largamente condivisibile secondo la quale “il Masterplan non è un esercizio accademico ma un processo vivo di elaborazione condivisa con istituzioni, forze economiche e sociali, ricercatori, cittadini. In questo spirito, questa introduzione è aperta ai contributi che verranno da tutti coloro che vogliono scrivere con noi una pagina nuova per il Mezzogiorno d’Italia”.
Inoltre, è condivisibile la strategia proposta, secondo la quale il “Masterplan deve partire dai punti di forza del tessuto economico meridionale per valorizzarne le capacità di diffusione di imprenditorialità e di competenze lavorative e per promuovere l’attivazione di filiere produttive autonomamente vitali”.
1) I limiti del documento
Tuttavia, diversi sono i limiti di questo documento da un punto di vista metodologico e politico: Innanzitutto, l’argomentazione retorica secondo la quale “RICOMINCIO DA TRE, Non si parte da zero!” è paradossale. Di fatto quelle che sono indicate come premesse positive, sono invece i limiti e gli insuccessi delle politiche finora seguite. Una nuova strategia per il Mezzogiorno dovrebbe considerare questi come punti di debolezza e non certo come punti di forza.
Innanzitutto, non è un risultato positivo il fatto che al termine del quinto anno del periodo programmatorio; al 30 giugno 2015, siamo arrivati all’80% nell’utilizzo dei Fondi strutturali stanziati nel ciclo di programmazione europea 2007-13.
In secondo luogo, l’avvio della Programmazione 2014-20 parte nuovamente in ritardo, quando dopo circa 30 anni di politiche era chiaramente facilmente prevedibile l’inizio del nuovo periodo di programmazione. Inoltre, i programmi nazionali e regionali approvati sono di fatto un mero elenco di interventi prioritari ma mancano dell’approfondimento tecnico necessario per poter passare immediatamente alla loro realizzazione operativa, per cui ci vorranno mesi ed anni per fare tale lavoro indispensabile di progettazione tecnica, economica, finanziaria e normativa. Si sarebbe dovuto seguire il percorso inverso ed elaborare prima i progetti operativi e quindi sulla base di una scelta competitiva selezionare quelli prioritari, da proporre al finanziamento della Unione Europea.
In terzo luogo, la risposta alle crisi aziendali ha finora portato solamente a fronteggiare le stesse con provvedimenti individuali e tra loro non coordinati in una strategia complessiva, definiti come tavoli di crisi, contratti di sviluppo e Accordi di programma, e non si è colta invece l’occasione per inquadrare i singoli casi di crisi in una riflessione preliminare sulla debolezze del tessuto produttivo meridionale e quindi nella definizione almeno di una tipologia delle crisi aziendali esistenti, che consentisse di individuare fattori e strategie comuni. Ogni caso è stato considerato isolatamene come un caso individuale di “fallimento del mercato” e manca tuttora una strategia per l’evoluzione futura del sistema produttivo del Mezzogiorno. L’obiettivo non dovrebbe essere solamente quello di contenere gli effetti negativi delle crisi, quanto quello di promuovere i fattori positivi che possano stimolare la creazione di nuove produzioni. Si è quindi perso tempo con provvedimenti “emergenziali” peraltro largamente incompleti.
In particolare, assolutamente inadeguata è la tesi secondo la quale: “il primo tassello del Masterplan riguarda allora le condizioni di contesto, che possiamo articolare in due ambiti: le regole di funzionamento dei mercati e la predisposizione di fattori di produzione comuni, ossia infrastrutture e capitale umano”. Sia l’esperienza europea che il confronto con le ben diverse politiche economiche e industriali seguite negli Stati Uniti dimostrano che la politica delle “riforme strutturali” è insufficiente a promuovere la crescita a scala nazionale e europea e a maggiore ragione è paradossale volerla replicare persino a scala regionale come strumento per promuovere la crescita nelle regioni arretrate.
Certamente sono opportune talune “riforme strutturali”, ma nel breve periodo la riduzione dei salari e la crescita della pressione competitiva sulle imprese hanno effetti deflattivi o portano a ridurre la domanda e la crescita. Inoltre, l’efficacia di queste politiche sui comportamenti spontanei delle imprese e sulla crescita nel lungo periodo è alquanto dubbia, se non sono accompagnate da una strategia di sviluppo industriale che miri ad aumentare gli investimenti e promuova l’innovazione e lo sviluppo di nuove produzioni.
Sono insufficienti e appaiono retoriche le affermazioni che: “abbattendo le protezioni monopolistiche e le rendite grandi e piccole, a dare spazio a tutti coloro che mettano in gioco le proprie capacità imprenditoriali e lavorative” o “l’attenzione va posta prima di tutto su scuola e formazione come settori essenziali non solo per la qualità della vita dei cittadini ma per la formazione del fattore di competitività proprio di una economia avanzata, ossia il fattore umano”.
Invece, è singolare che quando si tratta delle cosiddette “condizioni di contesto” nessun riferimento venga fatto al problema della mafia nel Mezzogiorno e al costo insostenibile che essa rappresenta in termini sia di vessazione o “tassazione” su tutte le attività economiche che di ostacolo per chi voglia investire sul futuro proprio e della propria impresa. Altro fattore collegato è quello della corruzione non solo nelle amministrazioni pubbliche ma anche nel settore privato, dato che essa determina rendite, maggiori costi e ostacoli all’innovazione. Mafia e corruzione non solo determinano una riduzione degli investimenti fatti nel Mezzogiorno dalle imprese locali e l’impossibilità di attrarre imprese dall’esterno, ma anche comportano un sistematico deflusso dal Mezzogiorno degli ingenti capitali formatisi nell’economia illegale verso altre regioni o paradisi fiscali internazionali. Pertanto, essi sono fattori di fatto strettamente collegati agli altri due campi di intervento, che sono indicati nel documento di linee guida elaborato dal Governo: a) la mobilitazione degli investimenti delle imprese private, b) il cambiamento nell’organizzazione della pubblica amministrazione.
Il documento indica il ruolo Cassa Depositi e Prestiti e Banca Europea degli Investimenti, delle imprese partecipate dallo Stato (Terna, Snam, FS, Anas), del Piano Banda Ultralarga, dell’Alta Velocità sugli assi adriatico e tirrenico e sulla Napoli-Bari-Taranto e all’ammodernamento del sistema ferroviario in Sicilia e Sardegna; dal Piano della portualità e della logistica, il Piano degli aeroporti, del funzionamento del sistema elettrico, delle infrastrutture del gas. Si indica anche “il ruolo di Finmeccanica nei settori ad elevata innovazione tecnologica, di quello di Fincantieri nel settore navi e piattaforme off-shore, di quello di ENEL nel settore delle rinnovabili e del gas, di quello di ENI nella conversione alla raffinazione e alla chimica verde”. Importante è anche aver indicato il ruolo delle grandi multiutility del Centro-Nord, che sono state interessate da processi di aggregazione e che “un ruolo altrettanto importante possono svolgere le realtà meridionali di maggior dimensione e tradizione industriale”.
Tuttavia, questo elenco pur significativo degli attori principali nel sistema industriale nazionale rende ancora più evidente il fatto che finora non sono state date indicazioni o priorità strategiche a queste grandi imprese e che i loro vertici, a cominciare da quelli di Cassa Depositi e Prestiti e quelli delle grandi imprese suindicate sono stati nominati senza alcun dibattito politico e pubblico sulle strategie industriali di tali imprese, che secondo la logica e la correttezza dovrebbero essere alla base dei piani industriali che il manager dovrebbe impegnarsi a presentare quanto prima all’azionista pubblico. In particolare, non viene indicata la sede istituzionale nella quale sia possibile tale confronto tra il Governo e le maggiori imprese private, sia questo il CIPE o il Ministero dello Sviluppo Economico, sui piani industriali e quindi su specifici progetti di investimento.
A questo fine sono indispensabili esplicite strategie o piani industriali e una nuova politica industriale e non sono sufficienti né gli incentivi fiscali (come “la cosiddetta ACE che intendiamo rafforzare ulteriormente – e a rendere più attrattivo l’investimento – come la riduzione dell’IRES varata con la Legge di Stabilità”) né una maggiore disponibilità di credito (“Fondo Centrale di Garanzia, minibond – e azione dei soggetti bancari – come la Banca per il Mezzogiorno – che sostengano l’accesso al credito per tutte le imprese sane”).
Il documento giustamente indica che “dobbiamo lavorare sulla Governance e sulla capacità amministrativa”. Tuttavia appare ancora insufficiente il richiamo alla necessità della “cooperazione inter-istituzionale” o alle “semplificazioni e l’opera di chiarimento circa la ripartizione di responsabilità tra le amministrazioni” o alla necessità di “rimuovere ostacoli procedurali e accelerare i processi autorizzatori” o indicare il ruolo importante del Dipartimento per le politiche di coesione e dell’Agenzia per la coesione territoriale (“delle cui strutture si sta accelerando il completamento”), nonché di Invitalia e dei suoi strumenti di intervento.
Inoltre, non sembra sufficiente indicare uno strumento già esistente e forse insufficiente come la Cabina di Regia Stato-Regioni del Fondo Sviluppo e Coesione o il riferimento al “Sblocca Italia” e a “operazioni di snellimento radicale”. Infatti, sono necessarie strutture nuove e il coordinamento interno alla PA non è sufficiente se il problema è innanzitutto quello di promuovere la cooperazione pubblico – privato (PPP) con le imprese e le banche e le istituzioni finanziarie indicate precedentemente.
2) La proposta di politica industriale e regionale del Gruppo di Discussione “Crescita, Investimenti e Territorio”
Una strategia efficace di ripresa dell’economia del Mezzogiorno dovrebbe innanzitutto focalizzarsi sui problemi prioritari come:
- La sostanziale stagnazione del commercio internazionale e la necessità di espandere la domanda interna come driver delle produzioni nazionali e del Mezzogiorno
- La progressiva entrata in crisi delle produzioni che hanno caratterizzato il primo ciclo di industrializzazione del Mezzogiorno e la carenza di produzioni nuove ed innovative
- Il crollo degli investimenti e soprattutto degli investimenti pubblici e in costruzioni
- L’alta disoccupazione soprattutto giovanile nel Mezzogiorno
e dovrebbe definire obiettivi precisi in termini delle variabili economiche suindicate (esportazioni, domanda interna, produzioni, investimenti e occupazione) in modo da poter verificare l’efficacia degli strumenti che si intende attivare e poter quantificare le risorse finanziarie che sarebbero necessario mobilitare.
La politica monetaria espansiva della BCE, la svalutazione dell’euro e la riduzione del prezzo del petrolio sono certamente fattori esterni positivi ma il governo nazionale deve dare un contributo proprio alla crescita agendo sui fattori interni ed innanzitutto sulla ripresa degli investimenti e dell’innovazione. I mercati non sono in grado di assicurare automaticamente il necessario coordinamento tra le diverse imprese e gli altri attori economici come la finanza ed è necessaria una azione decisa del Governo nel promuovere la circolazione delle informazioni, la generazione di processi interattivi di creazione di nuove conoscenze e il coordinamento delle decisioni di investimento private e pubbliche.
La crisi o la stagnazione economica nel Mezzogiorno è dovuta alla carenza di un adeguato flusso di investimenti privati e pubblici. Questo è connesso con tre fattori:
- Gli investimenti sono diminuiti a livello nazionale in Italia
- Gli investimenti fatti nel Mezzogiorno non sono stati capaci di determinare un processo di crescita autosostenuto
- Molti dei fondi disponibili per investimenti nel Mezzogiorno non sono stati spesi.
Alla base di questi tre fattori di crisi sono diverse cause ma certamente un ruolo fondamentale ha la carenza di innovazione e di una politica industriale che stimoli l’innovazione non solo nelle singole imprese e nelle amministrazioni pubbliche, ma anche a livello del sistema produttivo complessivo.
Innanzitutto, è necessaria un’innovazione nelle politiche economiche. Le politiche macroeconomiche dell’Unione Europea, ma anche le strategie delle banche e delle imprese hanno seguito un approccio “conservatore” e sono state condizionate dalla priorità assegnata all’obiettivo della stabilità finanziaria e questo ha portato a ridurre l’indebitamento a lungo termine, a ridurre i costi correnti sia nel settore pubblico che in quello privato e a rinviare o cancellare i progetti di investimento, in modo da rendere più solidi i bilanci. La strategia alternativa è indicata da un approccio che potremmo definire “progressista” ed è quella di promuovere la crescita investendo nello sviluppo di settori nuovi, dato che la crescita è anche strumentale ad un risanamento dei bilanci delle imprese, la riduzione delle sofferenze delle banche e la riduzione del rapporto debito/PIL dello Stato. Come nelle decisioni di investimento degli operatori finanziari ad una strategia “value” si contrappone una strategia “growth” e la scelta dipende dalle “asimmetrie informative”, dalle conoscenze e dalle “capacità innovative” del soggetto considerato e dalla sua minore o maggiore “avversione al rischio” o “orientamento al futuro”. Chiaramente, la stessa crisi economica, la turbolenza del quadro finanziario e politico nazionale e internazionale e la minore fiducia degli attori hanno portato ad una logica di breve termine che ha penalizzato gli investimenti e la crescita stessa.
Le politiche di austerità, anche se hanno messo sotto controllo la spesa pubblica e hanno assicurato la stabilità finanziaria, di fatto hanno ostacolato la ripresa economica. E’ difficile raggiungere un pareggio di bilancio in una situazione di recessione o stagnazione e sarebbe stato meglio come negli Stati Uniti avviare prima la ripresa, che naturalmente avrebbe aumentato le entrate fiscali, e quindi promuovere una graduale riduzione della spesa pubblica. A livello nazionale gli investimenti pubblici sono stati ridotti per dare priorità alle spese correnti o alla tax expenditure in termini di riduzioni di imposte per le imprese e le famiglie. Ma questo ha chiaramente avuto un effetto deflattivo: certamente più immediato e più forte dell’effetto espansivo delle minori imposte. Inoltre, a livello regionale e locale, gli investimenti pubblici sono stati bloccati da un’interpretazione restrittiva del patto di stabilità.
Sono stati compiuti errori di politica economica, come risulta dai dati sia del 2014 che da quelli previsti per il 2015 e 2016 dalla Commissione dell’Unione Europea, che indicano un contributo delle esportazioni nette alla crescita del PIL pari a 0,1 nel 2014, allo 0 nel 2015 e al -0,3 per cento nel 2016. A causa delle crisi economica internazionale, la dinamica delle esportazioni nette è stata più debole ed ha avuto un impatto positivo sulla crescita del PIL minore di quella dei consumi privati, nonostante che le misure fiscali prese dal governo a favore delle imprese abbiano esplicitamente mirato ad aumentare la competitività internazionale delle stesse, invece che essere orientate fin da subito a stimolare la domanda interna e in particolare la crescita degli investimenti sia pubblici che privati. Agli investimenti avrebbero dovuto essere destinate le risorse finanziarie che sono invece state destinate a riduzioni fiscali generali o automatiche per le imprese e per le persone fisiche.
Il governo ha perso la finestra di opportunità che da un anno esisteva a livello internazionale e non ha saputo integrarla con fattori di stimolo della domanda interna ed ora la congiuntura internazionale sta volgendo al peggio. Sarà molto più difficile per l’economia italiana andare controcorrente. L’unico elemento dinamico sono i maggiori consumi privati ma non potranno fare molto da soli di fronte ad una stagnazione o diminuzione delle esportazioni, degli investimenti e della spesa pubblica.
Il Governo italiano ha seguito una politica di austerità e si è concentrato solo su obiettivi di tipo finanziario e non di tipo reale e non è stato capace di lanciare iniziative di sviluppo industriale e di investimento pubblico e privato. Il Governo si è basato sull’effetto miracoloso delle riforme del mercato del lavoro o delle riforme strutturali. Pertanto, l’economia italiana ha incominciato a muoversi in ritardo quando gli altri stanno rallentando. L’economia italiana forse può proseguire da sola tirata dalla domanda interna ma le esportazioni diminuiranno.
3) Il problema dell’innovazione e dell’efficacia o del rendimento degli investimenti
Oltre al problema della quantità delle risorse finanziarie disponibili per gli investimenti nel Mezzogiorno, ci sono il problema di aumentare gli effetti positivi degli investimenti o di investire in settori che nel futuro possano produrre elevati redditi e quindi il problema di utilizzare tutti i fondi disponibili, di realizzare in tempi rapidi gli investimenti stessi e di aumentare le capacità di spesa della amministrazione pubblica nazionale e regionale.
Pertanto, si pone il problema di scelte settoriali efficaci o innovative nella concentrazione degli investimenti privati e pubblici in determinate produzioni che possano effettivamente fare aumentare non solo la domanda nel breve ma anche le capacità produttive nel medio e lungo termine. Di fatto nonostante che l’Unione Europea abbia insistito molto per l’adozione di una strategia di “smart specialization” nei programmi regionali 2014-2020 non sembra potersi individuare una strategia di politica industriale a livello nazionale e neanche a livello regionale.
La nuova politica industriale si deve focalizzare sui nuovi bisogni dei consumatori o dei cittadini e sulla creazione di nuovi mercati (“mercati guida” o lead-markets) e quindi mirare alla creazione di nuove produzioni, tramite investimenti pubblici preliminari, forme di regolazione della domanda e offerta, semplificazioni procedurali ed agevolazioni fiscali. Di fatto non bastano le forze di mercato, ma il mercato va costruito e in particolare si deve sviluppare il settore domestico e la domanda interna. I nuovi mercati non sono tanto quelli esteri in paesi distanti, ma i mercati nuovi e emergenti di prodotti e servizi creati da una domanda che sta mutando sul piano dei bisogni e degli stili di vita più sofisticati dei cittadini e delle stesse imprese in particolare nelle aree urbane. E’ necessario individuare i nuovi mercati delle nuove produzioni e non solo le nuove tecnologie e le nuove competenze lavorative necessarie. E’ necessario sostenere la domanda interna di beni collettivi e adottare interventi strutturali nella nostra economia nel segno del cambiamento, dell’innovazione e di una migliore qualità della vita.
Il Gruppo di Discussione “Crescita Investimenti e Territorio” ritiene che una nuova politica industriale deve essere trainata dalla domanda interna, dall’innovazione e dagli investimenti. La politica industriale non deve essere organizzata né per settori né per imprese “strategiche” ma deve mirare a creare nuovi mercati (“mercati guida”) e quelle nuove produzioni che stanno emergendo nei paesi sviluppati, nonostante l’attuale bassa crescita, e che mirano a rispondere ai bisogni crescenti dei cittadini europei di una migliore qualità della vita soprattutto nelle aree urbane. Produzioni strategiche da promuovere sono quelle che rispondono ai bisogni di abitazione, mobilità, salute e istruzione, tempo libero e cultura, energia e ambiente, come anche nella nuova manifattura e nell’agricoltura moderna.
La nuova politica industriale deve partire dai progetti di investimento innovativi proposti dagli attori del territorio e elaborati sulla base di uno sforzo sistematico di progettazione economica, tecnica e finanziaria che faccia interagire le migliori competenze presenti sul territorio. L’innovazione sistemica è il risultato di reti che stimolano la creatività, la progettazione e l’innovazione nelle diverse aree urbane o nel territorio. La nuova politica industriale non è dirigista ma bottom-up e basata sulla cooperazione tra le imprese e tra le imprese, le banche, il sindacato, le università e il ruolo del pubblico è quello di promuovere queste forme di cooperazione.
Anche nel Mezzogiorno la politica di sviluppo deve puntare alla soddisfazione dei bisogni emergenti nei sei settori indicati. Di fatto gli handicap del Mezzogiorno in termini di dotazione di servizi pubblici e privati rispetto al Centro Nord rappresentano essi stessi delle opportunità di investimento e di sviluppo se non altro perché in questi settori già esiste una domanda e non si deve sviluppare la offerta senza essere sicuri dell’esistenza della relativa domanda. Inoltre, a differenza di settori industriali tradizionali come quelli dell’automobile, la siderurgia e la chimica, queste produzioni sono anche quelle “specializzazioni intelligenti” o “scoperte imprenditoriali”, che possono essere il “driver” che trascina le innovazioni di prodotto o i processi di diversificazione settoriale e che quindi possono creare nuove filiere produttive sia manifatturiere e di servizi che potranno in futuro essere la nuova base di esportazione delle regioni meridionali nella prospettiva del mercato nazionale e europeo.
Si pensi non tanto alla costruzione di nuove case vista la cementificazione del territorio ma alla riqualificazione ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, ad esempio nei centri storici delle grandi città. Si pensi anche alla situazione insostenibile della mobilità nelle aree urbane, la promozione di innovazioni sociali, della sharing economy, lo smaltimento dei rifiuti, il risparmio energetico (ESCO e NZEB – Nearly Zero Emission Building) e la produzione di energia da fonti rinnovabili.
E’ necessario prioritariamente aiutare lo sviluppo delle produzioni per il mercato interno e che hanno come sbocco commerciale le città del Mezzogiorno e non sulle microattività esportatrici. E’ quindi necessario superare la mentalità assistenziale anche della stessa classe imprenditoriale privata. Non tutte le attività vanno assistite ed una nuova politica industriale richiede una logica selettiva. E’ necessario promuovere solo le attività che possono stare sul mercato e non quelle che spesso sono state considerate secondo una logica keynesiana della spesa fine a se stessa.
La nuova politica industriale a differenza del passato deve essere organizzata per singoli nuovi mercati (“mercati guida” o lead-markets) e non più per i singoli tradizionali settori verticali (settori high tech) e neanche considerare solo il settore manifatturiero (industrial compact), ma deve considerare esplicitamente anche i settori dei servizi e soprattutto quelli connessi con le reti infrastrutturali. La nuova politica industriale non deve neanche essere organizzata per singola impresa e consistere solo nel sostegno di grandi imprese di rilevanza strategica (campioni nazionali) o anche di promozione delle medie imprese dinamiche o di mera difesa o di fusioni finanziarie delle piccole imprese.
Una “nuova politica industriale” deve promuovere un cambiamento della struttura produttiva dell’economia e un aggiustamento dinamico sia della domanda che della offerta nei diversi settori produttivi, per creare nuove produzioni e aumentare sia l’occupazione che la produttività media nell’economia.
Pertanto, i tradizionali settori produttivi verticali (“politica industriale per settori”) e anche le imprese singole (campioni nazionali, imprese leader, PMI) non sono le unità adeguate per definire le strategie di sviluppo.
E’ necessaria un’integrazione più forte dell’impresa innovativa e che vuole investire con le altre imprese della filiera e tra la filiera e i rispettivi territori e le relative comunità di lavoratori, cittadini e consumatori. E’ quindi necessaria una strategia di investimento orientata alla filiera ed al territorio. Sia il Sindacato che le Banche e le Istituzioni non devono considerare solo l’impresa singola ma soprattutto la filiera produttiva e le reti di relazioni territoriali. L’investimento richiede sempre più spesso un’azione congiunta con altre imprese e dipende dall’individuazione di un obiettivo comune, dalla creazione di alleanze strategiche, dalle relazioni di fiducia tra le imprese, dalla definizione di forme giuridiche nuove, dalla condivisione di esperienze e modelli culturali comuni.
In questa prospettiva, l’incapacità di intraprendere investimenti rilevanti da parte delle PMI dipende anche dal fatto che l’impresa singola non ha partecipato a reti di innovazione con altre imprese della filiera produttiva e nel sistema di innovazione regionale e locale, all’interno del quale si possono sviluppare processi di apprendimento interattivo che portano allo sviluppo della creatività e dell’innovazione. Manca una strategia di sviluppo industriale che riduca l’incertezza per le singole imprese, permetta di inquadrare le decisioni d’innovazione e di investimento delle singole imprese in una prospettiva di filiera produttiva a medio termine e assicuri la collaborazione delle altre imprese, del sindacato, del sistema finanziario e dell’amministrazione pubblica.
L’esistenza di diverse forme di economie esterne fa si che le singole imprese private non hanno incentivo a muoversi da sole (per l’alto rischio e i bassi rendimenti attesi di progetti singoli presi isolatamente da una singola impresa), ed è necessario che un attore pubblico coordini i vari progetti d’investimento – ad esempio su ampia scala urbana – valorizzando le sinergie tra le diverse imprese private.
Pertanto, la nuova politica industriale è diversa dai modelli di politica industriale tradizionali perché:
- Non considera solo l’industria ma anche i servizi e le infrastrutture come indicato nei sei mercati-guida sopraindicati
- Non considera solo la spesa pubblica o gli investimenti pubblici ma anche la finanza di progetto e quindi il ruolo della cassa depositi e prestiti e delle banche
- Non mira a promuovere la competitività di costo tramite la riduzione dei costi del lavoro o alla riduzione delle tasse sulle imprese ma a favorire la competitività dinamica delle imprese private tramite l’investimento nell’innovazione e nella progettazione, anche in collaborazione con le università’ e le amministrazioni pubbliche
- Non mira a programmi dirigistici o a accordi di programma con le singole grandi imprese in programmi nazionali, ma adotta un metodo di “governance” flessibile e orizzontale e mira a promuovere reti di innovazione tra le imprese. Si propone di mobilitare l’intero sistema nazionale di innovazione, non solo le imprese industriali, ma anche le banche, le università, le amministrazioni pubbliche e le associazioni non profit dei cittadini e il sindacato.
4) Il problema della governance delle strategie industriali e dei progetti di investimento
L’innovazione non consiste solo nella scelta delle priorità settoriali di investimento ma anche nel metodo di governo (governance) delle strategie e dei progetti di investimento. Innovazioni istituzionali sono necessarie per fare fronte alla mancanza di imprenditorialità a livello collettivo e di capacità organizzative o di governance.
La nuova politica industriale richiede la stretta collaborazione tra soggetti pubblici e privati molto diversi. Essa infatti deve:
- Sostenere gli investimenti esteri che nonostante tutto continuano ad arrivare (Cina)
- Spingere le imprese italiane di maggiori dimensioni (Ferrovie dello Stato, Eni, Snam, Enel, Terna, Acea, A2A, Iren, Atlantia, altre concessionarie autostradali, aeroporti, ecc.) a lanciare dei progetti di investimento in nuove produzioni in Italia e non a tenere grande liquidita e/o investire all’estero
- Promuovere il ruolo di intermediari finanziari non bancari: Cassa depositi e prestiti e Poste Italiane, società di assicurazione, Banche di sviluppo regionali, fondi di Private Equity nelle imprese e nelle infrastrutture, Development corporation, che facciano da broker tra l’offerta di fondi degli investitori istituzionali: grandi banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi sovrani internazionali, e la domanda di fondi delle imprese
- Definire grandi progetti di rinnovo urbano e di investimento nelle infrastrutture nelle aree urbane e sostenere i progetti dei cittadini, delle università e delle associazioni
- Spingere le imprese piccole a fare rete o a fare massa critica e elaborare progetti di innovazione congiunti e definire delle strutture organizzative solide delle reti di imprese.
Il problema è innanzitutto un problema di governance più ancora che di carattere economico. Infatti, mancano nel Mezzogiorno le istituzioni adeguate a promuovere gli investimenti necessari e l’amministrazione pubblica tradizionale né quella locale né quella ministeriale sono quelle adeguate, come non sono adeguate per promuovere i grandi progetti di “re-industrializzazione” del Mezzogiorno neanche le strutture manageriali delle grandi imprese manifatturiere, come Fiat, Finmeccanica, Ilva, ecc., che di fatto sono entrate in crisi negli ultimi due decenni per effetto della maggiore competizione internazionale.
Gli stessi regolamenti comunitari sono ormai datati o sono stati definiti secondo una logica di programmazione ormai vecchia di diversi decenni, secondo la quale si parte dalle risorse finanziarie per ricercare i progetti, invece che viceversa: Sono costruiti secondo una logica top-down invece che bottom-up.
Innanzitutto, è necessario un investimento “immateriale”, che permetta di attivare le capacità di innovazione e di sviluppare l’attività progettazione tecnica, economica, finanziaria e legale, senza le quali non si possono realizzare in tempi rapidi gli investimenti stessi e utilizzare le risorse finanziarie disponibili.
Certamente, senza un investimento preliminare nella fase della progettazione, da svolgere non solo all’interno della PA ma anche in collaborazione con il mondo delle Università e delle migliori organizzazioni di consulenza, non sarà possibile disporre di progetti “cantierabili”. Inoltre, sono necessari intermediari finanziari specializzati, che investano nel capitale di rischio delle imprese e che non si limitino a concedere credito alle imprese a bassi tassi, né sono sufficienti incentivi fiscali e finanziari di natura automatica o non selettiva, secondo gli specifici progetti considerati.
La spesa pubblica deve essere totalmente riorientata dalla logica di sussidio alla costruzione di opere inutili come il ponte sullo Stretto, all’investimento immateriale nel sostegno della progettazione e innovazione di investimenti che possano creare nuove produzioni e che abbiano un mercato o siano redditizie.
I nuovi “mercati guida” delle nuove produzioni di servizi collettivi richiedono un nuovo tipo di “imprenditore”, diversa sia dall’imprenditore tradizionale nelle PMI industriale sia dalla “corporate organisation” (struttura manageriale) tipica delle grandi imprese multinazionali che vendono prodotti industriali o servizi nei mercati internazionali. Questo nuovo attore imprenditoriale può avere le caratteristiche di una “società veicolo” che combina le capacità di una società di engineering e di una banca di investimento. In particolare, deve svolgere diverse attività: stimolare e soprattutto aggregare la domanda di molti consumatori individuali tra loro dispersi, attirare l’offerta delle grandi imprese nazionali e internazionali attive nella gestione dei nuovi servizi, regolare il rapporto tra i gestori e gli utilizzatori finali del servizio soprattutto nella determinazione dei contratti e prezzi di vendita dello stesso, promuovere la raccolta delle risorse finanziarie necessarie e infine organizzare la realizzazione fisica dei progetti di investimento. Infatti tale soggetto deve svolgere funzioni diverse da quelle sia delle imprese di costruzioni, che non si occupano della gestione dei servizi, ed anche da quelle dalle grandi imprese di servizi che non si occupano della progettazione e della realizzazione fisica dell’investimento in infrastrutture.
Inoltre, è stato spesso osservato che in Europe la “pipeline” dei progetti bancabili è attualmente spesso vuota e che i fondi pubblici disponibili per investimenti non possono essere spesi, è necessario che le istituzioni finanziatrici forniscano non solo fondi ma anche un’assistenza nella fase di progettazione o finanzino anche i lavori spesso molto lunghi e costosi di progettazione preliminari e quindi promuovano una stretta integrazione dei singoli attori partecipanti al progetto, come nelle reti di innovazione, che promuovono la cooperazione e la sinergia dei partecipanti e permettono di ottenere le necessarie economie di scala sul lato sia della domanda che dell’offerta.
Le grandi banche, come le grandi imprese industriali, devono avere un autonomo settore Studi e Progetti che possa lavorare strettamente con le Università e con le società di engineering nel campo della progettazione tecnologica, economica, finanziaria e legale, le istituzioni pubbliche dei diversi livelli, cui spetta la programmazione delle misure intervento pubblico, in modo da promuovere e sviluppare nuovi progetti di investimento e non specializzarsi nella valutazione meramente finanziaria di progetti che sono stati già completamente definiti e che invece potrebbero essere migliorati con una più completa integrazione delle diverse competenze. Le banche devono anche essere presenti sul territorio e vicine alle imprese di settori diversi, manifatturieri e dei servizi, come richiesto dallo sviluppo dei nuovi “mercati guida” suindicati. Tutti questi problemi sono molto importanti nel caso dei Fondi Comunitari e del Piano Juncker (EU Commission 2014), ove la disponibilità di fondi finanziari si è dimostrata insufficiente, se mancano i progetti e le capacità di realizzazione degli stessi.
Le banche e anche altri operatori finanziari specializzati sono i partner necessari nelle politiche industriali nazionali e regionali. Sarebbe utile creare una task force in ogni Regione, che promuova la scoperta di nuove produzioni innovative, gli investimenti delle imprese private nelle nuove infrastrutture, l’attivazione delle risorse pubbliche necessarie negli investimenti preliminari e complementari e che rimuova gli ostacoli amministrativi che rallentano la realizzazione dei progetti di investimento delle imprese. Tale task force pubblico-privata per la ripresa economica deve definire una piattaforma strategica comune o organizzare un numero limitato di “piani d’azione” (o “tavoli di sviluppo”) negli ambiti strategici delle infrastrutture e dei servizi d’interesse collettivo indicati sopra e in altre possibili produzioni manifatturiere innovative ritenute fattibili e prioritarie. Tale task force deve assicurare la partecipazione sia degli operatori economici dei singoli settori considerati, che delle associazioni dei cittadini e degli utilizzatori dei nuovi servizi, oltre che delle università, del mondo dei servizi professionali, della finanza di progetto, delle PMI locali e delle imprese dei servizi di utilità collettivi (public utilities), dei sindacati, delle Camere di commercio e delle associazioni industriali.
5) Conclusioni
Il nuovo paradigma dell’innovazione impone un ri-orientamento radicale delle politiche macroeconomiche finora seguite, che sono corresponsabili della situazione di stagnazione da ormai un decennio o più. Prima si cambiano le scelte di politica economica e prima la ripresa potrebbe iniziare. In conclusione, un cambio di rotta è necessario nelle politiche economiche italiane e europee, che devono focalizzarsi sulla domanda interna e in particolare sugli investimenti e l’innovazione, tramite una nuova politica industriale con dimensione regionale.
Il rilancio della domanda interna o dei consumi privati richiede il rilancio degli investimenti e dell’occupazione e l’individuazione di nuovi comparti produttivi, orientati non solo verso i mercati esteri ma anche verso la domanda interna e i bisogni di nuovi beni e servizi e di migliori infrastrutture dei cittadini nel territorio e in particolare nelle città maggiori e in quelle regioni nelle quali il ritardo nella dotazione di servizi e infrastrutture è maggiore.
Per rilanciare l’economia italiana e quella europea è necessario un grande programma di investimenti privati e pubblici, nazionali, regionali e locali, e di sviluppo di nuove produzioni innovative, non solo nell’industria ma anche nei servizi e nelle città, ove si concentra la gran parte della popolazione, a partire dalle regioni come il Mezzogiorno nelle quali gli investimenti negli anni passati sono maggiormente diminuiti e ove la disoccupazione è più elevata.
E’ necessaria una strategia di politica industriale o di rilancio degli investimenti, che unisca il mondo delle imprese, della finanza, delle università e della ricerca, del sindacato e della amministrazione pubblica su grandi progetti infrastrutturali e industriali, articolati in modo equilibrato sul territorio nazionale e soprattutto focalizzati sulle aree urbane, e che promuova la creazione e lo sviluppo di nuove produzioni capaci di diversificare la struttura produttiva nazionale e di riassorbire l’enorme livello della disoccupazione in particolare giovanile.
La ripresa degli investimenti privati e pubblici, è legata a un rilancio della politica industriale e regionale, a una strategia di crescita basata sull’innovazione delle imprese e delle istituzioni e a un’efficace governance delle relazioni tra imprese, università, credito e amministrazioni pubbliche regionali, nazionali ed europee. E’ necessario promuovere l’innovazione tecnologica e organizzativa delle imprese a cominciare dalle grandi e medie imprese, senza la quale non è possibile l’avvio di grandi e piccoli progetti di investimento, che siano finanziariamente convenienti, e che esercitino un effetto di trascinamento sul grande numero delle piccole imprese industriali e terziarie.
Le politiche pubbliche e le banche devono intercettare il nuovo che sta emergendo sia dal lato della domanda che dal lato delle nuove capacità produttive delle imprese e dei lavoratori. E’ necessario sostenere le imprese nella transizione verso un nuovo modello competitivo e di organizzazione. In questa fase di evoluzione verso un nuovo modello di industria, la mancanza di politiche industriali e regionali è il fattore che spiega il perdurare della stagnazione in Europa.