Par condicio

Informazione e dibattito pubblico nelle democrazie del XXI secolo, il caso Italia

di Francesco Posteraro, Commissario Agcom |

L'intervento in Senato il 12 maggio scorso del commissario Agcom Francesco Posteraro su l quadro normativo della comunicazione politica nell'era del web.

Informazione e dibattito pubblico nelle democrazie consolidate: meno di due decenni fa, nel secolo passato, il discorso su questi temi avrebbe riguardato il ruolo dei media tradizionali, la televisione, la radio, la stampa quotidiana e quella periodica.

Nel XXI secolo il quadro è radicalmente cambiato, per l’irruzione sulla scena di un nuovo mezzo, la rete, profondamente diverso, assai più potente e più pervasivo di tutti gli altri.

Un mezzo capace di raggiungere, almeno potenzialmente, tutti gli abitanti del pianeta e capace di farlo in tempo reale. Soprattutto, un mezzo caratterizzato dall’interattività, in cui spariscono e si confondono i ruoli tradizionali poiché tutti possono al tempo stesso informare ed essere informati. Da qui discende un’altra peculiarità della rete, ossia il fatto che rispetto ad essa si pongono in termini del tutto differenti i problemi relativi alla libertà dell’informazione e alla responsabilità di chi l’informazione diffonde. L’accesso a internet è libero e tutti possono, attraverso internet, intervenire nel dibattito pubblico, diffondere notizie e commenti. D’altra parte, questa grande massa di informazioni fluisce pressoché incontrollata attraverso la rete, senza che sia possibile, nella quasi totalità dei casi, farne risalire la responsabilità né agli autori, né a chi le informazioni ospita sulle proprie piattaforme distributive.

Il tema della responsabilità si è posto in effetti con evidenza sempre maggiore soprattutto a causa di fenomeni come il cyberbullismo, la pirateria commerciale e – per quello che più direttamente riguarda l’odierno dibattito – le fake news: fenomeni che hanno fatto comprendere come nel mondo virtuale debbano essere osservate le stesse regole poste a fondamento della convivenza civile nel mondo fisico.

L’utilizzo della rete come fonte di informazioni è ovviamente in crescita, parallelamente al calo del ricorso alla stampa quotidiana. Secondo uno studio commissionato di recente dall’Agcom, in Italia nel corso delle campagne elettorali l’accesso ad internet ha ormai sorpassato quello ai quotidiani, per cui la rete si colloca al terzo posto fra i mezzi di comunicazione più usati, dopo la televisione – il cui primato resta comunque ancora ben saldo – e la radio.

A questo mutato contesto sociale e culturale ancora non fa riscontro un adeguamento della cornice normativa, particolarmente necessario – alla luce di quanto ho appena detto – per non lasciare esenti da responsabilità soggetti operanti in rete, quali gli aggregatori di contenuti, che esercitano un’influenza non trascurabile sulle scelte e sugli orientamenti del pubblico. E’ vero, riesce sicuramente non facile immaginare quali possano e debbano essere le linee di intervento rispetto a fattispecie connotate da così forti elementi di novità. Ma la valutazione sulla coerenza e funzionalità dei presidi normativi posti attualmente a tutela della correttezza dell’informazione non può prescindere dalla consapevolezza di questi limiti.

Tutto ciò premesso, è da dire subito che il principale testo legislativo che disciplina la materia – la legge n. 28 del 2000 sulla par condicio – non denuncia solo limiti di obsolescenza, dovuti al descritto mutamento del contesto, ma presenta anche alcuni profili di criticità che potremmo definire genetici. Profili che ne condizionano talora l’efficacia e ne rendono spesso problematica la concreta applicazione.

Mi riferisco, innanzi tutto, alla previsione secondo cui i regolamenti attuativi delle disposizioni di legge in materia di parità d’accesso ai mezzi d’informazione, adottati dall’Agcom per quanto concerne le emittenti private, rientrano invece nella competenza della Commissione parlamentare di vigilanza relativamente alla concessionaria del servizio pubblico. Dal che deriva l’impossibilità di impugnare i regolamenti riguardanti la Rai dinanzi al giudice amministrativo, attesa l’insindacabilità in sede giudiziaria degli atti di esercizio della funzione parlamentare.

Problemi interpretativi di non poco conto sono poi sorti con riferimento alle sanzioni applicabili nel caso di violazioni commesse nel periodo conclusivo delle campagne elettorali. La legge n. 28 prevede infatti solo misure di tipo ripristinatorio a favore dei soggetti politici danneggiati dalle violazioni: misure manifestamente non più suscettibili di applicazione a campagna elettorale ormai conclusa. Per porre rimedio a questa lacuna, l’unica soluzione possibile è quella di ricorrere in via estensiva alle sanzioni previste dalla legge n. 515 del 1993, recante disciplina delle campagne elettorali e sul punto specifico non abrogata dalla legge n. 28.

L’obsolescenza della legge n. 28 dà luogo, tra l’altro, a una disparità di trattamento del tutto incongrua in materia di comunicazione politica. L’art. 2, comma 4 – che si riferisce ancora alle emittenti titolari di concessioni! – stabilisce infatti che l’offerta di programmi di comunicazione politica sia obbligatoria solo per chi trasmette in chiaro.

La distinzione tra comunicazione politica e programmi di informazione rappresenta a sua volta un punto nodale della disciplina legislativa. La comunicazione politica è regolata da criteri aritmetici, essendovi l’obbligo di assicurare uguale spazio a tutti i soggetti politici. I programmi di informazione si conformano invece a principi meno rigidi, come ribadito in più occasioni dalla stessa Corte costituzionale. Anche in periodo elettorale, si devono in essi garantire non già l’uguale ripartizione del tempo, bensì la parità di trattamento intesa come accesso per quanto possibile proporzionato alla rappresentanza dei diversi soggetti politici (e al consenso da essi ottenuto), nonché l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione. La valutazione circa il rispetto di questi parametri, che non può tra l’altro prescindere dal riconoscimento alle emittenti di un certo grado di libertà editoriale, comporta quindi, inevitabilmente, più ampi margini di apprezzamento discrezionale.

Al di là dei periodi di campagna elettorale, la comunicazione politica tende però, da qualche anno, a scomparire dai palinsesti della concessionaria del servizio pubblico. Voglio chiarire che si tratta di un tema che non chiama in causa in nessun modo la responsabilità di Agcom, la quale potrebbe attivarsi solo a seguito di una programmazione definita, nell’ambito delle reciproche competenze, dalla Commissione di vigilanza e dalla Rai.

La questione non è di poca importanza, perché è vero, da un lato, che la comunicazione politica suscita ormai, al di fuori delle campagne elettorali, minor interesse nel pubblico televisivo; ma è pur vero, d’altro lato, che il forte ridimensionamento della comunicazione politica rispetto ai programmi di informazione rischia di trasformarsi in una sostanziale elusione del dettato normativo.

Parrebbe quindi necessario, allo stato, ripristinare una puntuale osservanza delle disposizioni di legge. Qualora, invece, si ritenesse la comunicazione politica un modello ormai superato, se ne dovrebbero trarre le conseguenze modificando il quadro normativo in modo tale, però, da sottoporre nel contempo i programmi di informazione a una disciplina un po’ più stringente.

La legge n. 28 detta norme sui programmi di informazione solo con riferimento ai periodi elettorali. Riguardo ai periodi non elettorali vigono i principi fondamentali contenuti nel testo unico sui servizi di media. Pertanto, le disposizioni attuative adottate, per quanto di rispettiva competenza, dalla Commissione di vigilanza e dall’Agcom prevedono, per i diversi periodi, regimi differenziati. Le fasi di campagna elettorale sono così caratterizzate da obblighi più puntuali posti a carico delle emittenti e, soprattutto, da una scansione assai più serrata delle relative verifiche. Com’è più che ovvio, anche l’attenzione dedicata al lavoro dell’Autorità da parte delle forze politiche e della pubblica opinione è in questi periodi nettamente più elevata.

Questo però non significa che in ogni altro momento il rispetto del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione possa essere messo tra parentesi. L’Agcom ha adottato, nel 2006, una delibera (n. 22/06/CSP), con la quale ha fissato, sulla scorta di un atto di indirizzo della Commissione di vigilanza, alcuni criteri cui devono attenersi le trasmissioni di informazione e di approfondimento diffuse dalle emittenti private nei periodi non elettorali. Rimane però l’esigenza di una regolamentazione assai più dettagliata e completa, che disciplini, tra l’altro, anche i criteri cui ancorare le valutazioni e il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni. A questo fine l’Autorità ha approvato in linea di massima un testo assai articolato, che è stato da tempo trasmesso alla Commissione di vigilanza per acquisirne le valutazioni in modo da pervenire, nello spirito della legge n. 28, a scelte largamente condivise.

Vengo ora alle modalità che caratterizzano il concreto esercizio, da parte dell’Agcom, delle funzioni ad essa attribuite dalla legge, ovvero, in altri termini, ad alcune questioni che riguardano l’attività di monitoraggio. Fra le più rilevanti è la sollecitazione, rivolta talora all’Autorità, a valutare lo spazio attribuito ai soggetti politici con riferimento non solo al tempo, ma anche ai dati di ascolto. Si tratta di un tema che riflette un’esigenza di indubbia fondatezza. Nessuno può ignorare che un tempo fruito in prima serata non corrisponde, in termini di parità di trattamento, allo stesso tempo fruito magari in piena notte.

I dati di ascolto, però, non sono desumibili ex ante, ma solo ex post. Chiedere alle emittenti di basare minuziosamente su di essi la propria programmazione darebbe quindi luogo, con ogni probabilità, a contestazioni e a contenzioso. L’Agcom ha pertanto ritenuto di poter raggiungere lo scopo di perseguire i comportamenti sostanzialmente elusivi dei principi della par condicio prendendo in considerazione non solo i dati complessivi ma anche quelli riferiti, per i notiziari, alle edizioni principali e, per i programmi di approfondimento, alle fasce orarie definite dall’Auditel.

Il monitoraggio del pluralismo sociale viene svolto rilevando le presenze nei media di una serie di soggetti raggruppati in macro-categorie. Non ha luogo, invece, un monitoraggio per temi, considerata la ovvia variabilità nel tempo dell’importanza attribuita ai singoli argomenti dalla pubblica opinione. Un tema avvertito come rilevantissimo in un dato momento può non essere più tale in un momento successivo, e viceversa. Il rispetto della libertà editoriale delle emittenti non può consentire a un’istituzione pubblica di dettare ad esse l’agenda setting.

Questo peraltro non esclude che l’Agcom sia in grado di rilevare carenze informative su temi di particolare interesse pubblico e di adottare – autonomamente o su istanza di parte – iniziative idonee a porvi rimedio. La soluzione prescelta nella più parte di questi casi è stata quella di ricorrere a strumenti di soft law quali atti di indirizzo, ritenuti più consoni al fine di evitare eccessive ingerenze nella libertà editoriale degli operatori.

Un punto dolente è poi rappresentato dal monitoraggio dell’emittenza locale. Ai sensi della legge n. 28 e delle leggi regionali istitutive dei singoli Comitati regionali per le comunicazioni, spetta a questi ultimi la vigilanza sul rispetto della par condicio da parte dell’emittenza locale. Il quadro complessivo presenta aspetti di forte criticità. I Corecom infatti si limitano a verifiche a campione, per di più svolte molto saltuariamente. Verifiche che, tra l’altro, solo i Corecom più virtuosi compiono in maniera soddisfacente.

Questa situazione pregiudica lo svolgimento delle attività volte ad assicurare l’osservanza dei principi della parità di accesso in sede locale, al pari di quanto avviene, del resto, per le altre funzioni cui il monitoraggio è preordinato, dalla vigilanza sul rispetto degli obblighi di programmazione alla verifica dei limiti di affollamento pubblicitario e alla tutela dei minori.

I Corecom, d’altra parte, debbono fare i conti con risorse umane e strumentali che non sempre i Consigli regionali assicurano loro in maniera sufficiente. L’Agcom – che contribuisce al loro funzionamento con l’erogazione di fondi – non è nelle condizioni, peraltro, di avocare a sé l’esercizio delle funzioni cui i Corecom non provvedono adeguatamente. Occorrerebbero, a tal fine, dotazioni finanziarie e di personale che eccedono di gran lunga quelle a disposizione dell’Autorità alla luce del vigente quadro normativo.

Ricordo, a questo proposito, che l’Agcom è finanziata esclusivamente con contribuzioni a carico degli operatori dei mercati regolamentati, nella misura massima del due per mille dei ricavi. La norma che disciplina tale contribuzione – l’art. 1, comma 65, della legge finanziaria per il 2006 – sembra in verità assegnare ad essa carattere integrativo, in quanto specifica che le spese di funzionamento dell’Autorità gravano sui soggetti regolati “per la parte non coperta da finanziamento a carico del bilancio dello Stato”. Tuttavia, il contributo statale, dapprima ridotto a un’entità simbolica, è stato poi definitivamente abolito con la legge di stabilità per il 2013.

E’ bene precisare che la soppressione del contributo statale non è in sé e per sé contrastante con il diritto europeo. Quest’ultimo infatti obbliga gli Stati membri a garantire alle Autorità nazionali di regolamentazione – con modalità da esse stabilite, e dunque anche in maniera indiretta – tutte le risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati (così testualmente il considerando 11 della direttiva-quadro, n. 2002/21/CE). Tuttavia, il ripristino del contributo statale sarebbe in concreto imprescindibile se l’Agcom fosse chiamata ad assumersi l’onere di provvedere anche al monitoraggio dell’emittenza locale.

Come si vede, in materia di parità di accesso ai mezzi di informazione non mancano gli aspetti problematici. La loro soluzione esula dai limitati poteri dell’Agcom e chiama in causa, piuttosto, gli organi titolari della funzione normativa primaria.

Il tema della libertà d’informazione coinvolge anche altri profili di non minore importanza, a partire dall’assetto pluralistico del mercato, dalla disponibilità per i media di adeguate risorse finanziarie e dalle garanzie di indipendenza della professione giornalistica. Anche in questi ambiti emergono criticità, come purtroppo dimostra il posizionamento del nostro Paese – tutt’altro che esaltante, pur se talvolta ingeneroso – nelle graduatorie internazionali.

Voglio ricordare, prima di concludere, che l’Agcom ha istituito al proprio interno un Osservatorio sul giornalismo. L’Osservatorio ha presentato in questo stesso ramo del Parlamento, poco più di un mese fa, una relazione frutto di un’ampia consultazione dei soggetti interessati. Le conclusioni hanno posto l’accento sulla crisi strutturale del settore che ha moltiplicato il ricorso al precariato, nonché sull’effetto dissuasivo determinato dalle forme di intimidazione di cui i giornalisti sono non di rado vittime. Problemi noti, la cui soluzione è però indispensabile se si vuole evitare che la libertà d’informazione finisca per ridursi a una mera enunciazione di principio.