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Informatica e sistema produttivo: cosa (non) è cambiato in Italia negli ultimi quindici anni

Quindici anni fa, quando ero il presidente del GRIN (l’associazione italiana dei professori e ricercatori universitari di informatica), organizzai insieme al GII (l’omonima associazione per l’ingegneria informatica) un convegno presso la Camera dei Deputati dal titolo “Informatica, cultura e società“. La parola d’ordine europea a quel tempo era “Società della conoscenza”, erano imminenti nel nostro Paese le elezioni politiche e la nostra comunità voleva spingere la politica a fare finalmente i conti con la necessità di utilizzare l’informatica per favorire lo sviluppo economico. Gli atti sono stati pubblicati qui.

I governi sono arrivati e se ne sono andati, le parole d’ordine son cambiate, adesso si parla di “trasformazione digitale”, ma l’informatica continua a rimanere sostanzialmente assente dai programmi di sviluppo del nostro Paese. Se non fosse per l’intelligenza artificiale, per la quale – non fosse altro perché ne parlano tutti nel mondo – ci sono un po’ di investimenti, avremmo davvero una desolazione cosmica, simile a quella in cui viaggiano le sonde Voyager che abbiamo inviato decenni fa nello spazio profondo alla ricerca di eventuali civiltà extraterrestri.

Essendo stato educato su basi classiche, anche se poi ho studiato da ingegnere, so bene che, come ha scritto George Santayana (scrittore e filosofo spagnolo del secolo passato), «chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo». Per questo, approfittando della tecnologia digitale che non dimentica niente e permette di cercare molto più facilmente che scartabellando in un archivio cartaceo, di tanto in tanto riprendo in considerazione vecchi appunti.

Tra le carte risalenti all’epoca di quel convegno ho quindi ritrovato la nota, mai pubblicata, che riproduco integralmente nel seguito. Si sente che il tempo è passato, perché alcune espressioni ormai non si usano più. D’altro canto, invece, sono da un lato lieto di constatare che i concetti espressi hanno resistito alla prova del tempo, e dall’altro addolorato al pensiero che non è accaduto nulla di quanto ritenevo necessario. Il risultato netto è che il nostro Paese ha perso inutilmente molti anni, e che stiamo lasciando ai nostri figli un futuro peggiore di quello i nostri genitori hanno preparato per noi. Hanno contribuito anche altri fattori, ovviamente, a determinare la situazione attuale, ma questo mi sta particolarmente a cuore, essendo quello della mia attività professionale.

Chiudo qui il preambolo e lascio parlare il me stesso del 2006, senza cambiare una virgola.

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La società in cui viviamo viene comunemente definita la Società della Conoscenza, perché il sapere è sempre più essenziale nel lavoro e nell’economia. Il sapere è però un concetto complesso e con molte sfumature. Esso è tradizionalmente posseduto e reso operativo gli esseri umani, i quali lo detengono nei suoi costituenti statici (dati, fatti, relazioni, …) e dinamici (procedure, finalità, motivazioni, …).

Negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, partendo da uno dei più antichi filoni della matematica, la scienza dell’informatica ha cominciato ad investigare in modo sempre più intenso ed approfondito gli elementi formali e strutturati del sapere e della conoscenza, con lo scopo di capire cosa poteva essere realizzato in modo automatico.

In questo suo cammino ha avuto presto a disposizione un’evoluzione tecnologica impensabile ed incomparabile con quella di qualunque altro settore della conoscenza umana. è diventato possibile rappresentare enormi quantità di dati ed eventi a costi irrisori; realizzare dispositivi automatici in grado di eseguire complicatissime procedure che, con velocità esponenzialmente sempre maggiori, analizzano tali dati e le loro relazioni; connettere tali dispositivi in sistemi via via più complessi ed interconnessi, che ormai avvolgono l’intero pianeta e sono a disposizione di larga parte (anche se molta ne è ancora esclusa) dell’umanità.

Analizzando più attentamente la situazione, però, ci si rende conto che tali dispositivi e tali sistemi sono ‘meccanici’ nel senso più assoluto del termine, perché richiedono una completa, minuziosa e specifica descrizione di ciò che devono realizzare, dal momento che non sono in grado di capire e di apprendere nel modo con cui apprendono i piccoli del genere umano.

Da questo stato di cose nascono le sempre maggiori difficoltà dell’utilizzo dell’informatica in qualunque struttura sociale organizzata: perché queste sono fatte di donne e uomini in grado di usare intuizione ed esperienza per dare un senso – a qualunque livello di governo essi siano – a regole e procedure delineate nei loro passi essenziali ma non dettagliatamente esplicitate per trattare tutti i casi possibili. Poiché invece i sistemi informatici non hanno questa capacità, dispiegarli bene nel contesto di una qualunque organizzazione, anche piccola, è un compito molto più complicato dell’inserire in essa nuove persone.

All’inizio è stato molto facile: si è trattato di usare i calcolatori per ordinare dati e fatti sulla base di semplici criteri, per trovare in questi insiemi elementi che soddisfacessero specifiche ed esplicite condizioni, per trasferirli da una parte all’altra secondo protocolli ben definiti, per calcolare dati di sintesi o di previsione mediante formule matematiche.

Negli ultimi quindici-venti anni la rete di comunicazione che ha avvolto il globo ha messo (quasi) qualunque dato a disposizione di (quasi) qualunque essere umano, perlomeno in potenza. Ma l’analisi, la comprensione e la decisione rispetto all’enorme mole di questi dati sono ancora attività specifiche degli esseri umani. Analogamente, all’interno di qualunque organizzazione, si possono ormai facilmente raccogliere dati su qualunque elemento del suo funzionamento, ma cosa-quando-perché elaborarli deve essere esplicitato fin nei suoi più minimi dettagli affinché la risposta fornita da un calcolatore sia usabile.

Questo compito non è facile, richiede tempo e pazienza, molto più di quanti non ne sarebbero necessari se al posto di un calcolatore usassimo un essere umano. Ma allora perché dovremmo usare i calcolatori? Perché sono più veloci (enormemente più veloci) e non commettono – per quanto attiene a loro – errori (mai, ma proprio mai), e questo ha un enorme valore economico. Riuscire a farlo appropriatamente è la sfida che in questi anni ogni società avanzata si trova ad affrontare. L’elemento chiave è capire che quanto si sta facendo non è la semplice sostituzione del contabile che calcola le somme del bilancio annuale con una macchina più veloce, ma è la molto più difficile sostituzione dell’essere umano che non si blocca di fronte ad una pratica od un oggetto fuori posto ed è in grado di capire quando un caso eccezionale è un errore, una truffa o un evento importante.

Uno degli elementi culturali determinanti nel causare lo sgonfiamento della bolla della new economy è stato che la gente aveva – erroneamente – pensato che “enorme potenza di calcolo” più “larghissima capacità dei canali di telecomunicazione” dessero automaticamente come somma una nuova “età dell’oro”. Ma questa somma è vera solo se tutti gli attori sono dispositivi tecnologici, non se sono coinvolti gli esseri umani. Infatti, nel mondo delle telecomunicazioni, dove sono solo macchine ad interagire per portare dati da un punto ad un altro, il futuro è già tra noi. In venti anni abbiamo dato a (quasi) ogni abitante del mondo industrializzato una scatoletta del peso di pochi grammi con la quale può mettersi in comunicazione con (quasi) ogni altro abitante della stessa parte del mondo, a costi irrisori rispetto alle distanze coinvolte. Ma poi, se questi esseri umani sono i componenti di una stessa organizzazione, quest’innovazione tecnologica li mette certamente in grado di lavorare insieme anche se sono fisicamente distanti, anche di scambiarsi documenti e di lavorarci sopra collettivamente (grazie alle reti ed alla posta elettronica) ma il cosa-come-perché della manipolazione di questi dati e documenti è in gran parte ancora nelle loro teste.

L’organizzazione e la formalizzazione di questo sapere in sistemi informatici che siano in grado di aiutare donne e uomini nelle loro decisioni, semplificando e migliorando i processi produttivi in cui essi operano, non sono né semplici né veloci, e richiedono soprattutto un cambiamento culturale. Cioè quello di capire che l’informatica non è solo il calcolo o la rete di comunicazione, ma una componente importante del modo di lavorare. Non è solo la disponibilità di tanti computer e di connessioni veloci ad Internet, ma la capacità di integrare queste ‘stupide’ ed ‘ottuse’ componenti tecnologiche in un processo ‘intelligente’ nel quale gli esseri umani devono essere supportati ed accompagnati ma non ostacolati e asserviti alle macchine, nel quale l’organizzazione deve essere alleggerita e snellita per acquisire più potenza per il raggiungimento dei suoi fini. Ed è, infine e non meno importante, la capacità di capire che questa innovazione tecnologica è così dirompente che se non viene introdotta e fatta crescere gradualmente, insieme alla comprensione culturale di essa da parte di chi ci interagisce, e sempre in accordo con i bisogni e le finalità dell’organizzazione, essa non realizzerà mai le sue splendide promesse.

Diffondere la cultura dell’informatica ed il suo corretto utilizzo è quindi uno degli interventi strategici necessari per ridare competitività al sistema italiano.

Essenziale, ai fini di questa strategia, è l’intervento nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Negli ultimi quindici anni sia i governi centrali che quelli locali hanno infatti speso molto per introdurre innovazione nell’ambito delle tecnologie dell’informazione. Con quanto successo è difficile giudicarlo. Un elemento di criticità è che ‘innovazione’ è un termine molto alla moda, ma viene spesso utilizzato in modo distorto. Tutti la vogliono promuovere, ma pochi si rendono conto che quella che effettivamente interessa alla società è l’innovazione intesa come meta, non come strumento in sé e per sé. In quanto tale, il suo successo può essere effettivamente giudicato solo a posteriori. Nel divenire, è solo un cambiamento e poiché sappiamo che cambiare ha comunque dei costi, siamo giustamente sospettosi. Un prodotto o un servizio possono essere tecnologicamente molto innovativi ma fallire completamente il vero fine dell’innovazione: essere utile alle persone e rendere la società migliore. Le pubbliche amministrazioni centrali e locali hanno in questi ultimi anni certamente migliorato la loro tecnologia informatica. Ma i casi in cui ciò ha prodotto innovazione che ha migliorato effettivamente la vita dei cittadini sono molto pochi.

Ci sono ovviamente, soprattutto a livello centrale, problemi di complessità e di dimensioni. Ci sono, a tutti i livelli, problemi culturali: si presume, poiché sono stati acquisiti nuovi sistemi informatici, che tutto funzionerà meglio. I politici non riescono ad afferrare bene come l’informatica e le sue tecnologie cambiano la società e le organizzazioni e cedono alle suggestioni delle componenti tecnologiche ed industriali. Così si spendono molti soldi ma dell’innovazione che interessa al cittadino se ne vede molto poca. Se il cittadino fosse un imprenditore e misurasse il tasso di ritorno relativo questo investimento che è stato realizzato negli ultimi quindici anni con i soldi delle sue tasse, avrebbe dovuto già da tempo licenziare il management. Ma ci ritroveremmo praticamente senza politici, di nessun colore.

E’ allora necessario che i politici capiscano che la rivoluzione informatica avrà una portata ben maggiore di quella della rivoluzione industriale che così profondamente ha trasformato il mondo nell’ottocento. Perché quella esercitava i suoi effetti essenzialmente sulle capacità fisiche dell’essere umano, mentre questa influenza la sfera delle attività cognitive, che sono quelle che fanno degli uomini ciò che sono. Successivamente bisogna intervenire perché questa comprensione sia calata nella pratica operativa e nell’organizzazione della pubblica amministrazione. Infine, è indispensabile trasformare tale consapevolezza in cambiamenti tecnologici miranti a dare più efficacia alle finalità istituzionali e misurare quantitativamente la portata dei vantaggi eventualmente ottenuti.

Bisogna che i sistemi informatici siano considerati, come avviene nel settore privato ormai da almeno dieci anni, altrettanto essenziali dei sistemi amministrativo-contabili per il controllo e il governo di un’organizzazione. Così come la strutturazione e la direzione dei flussi economici disegnano i rapporti e le relazioni aziendali, altrettanto accade per i flussi informatici. La pubblica amministrazione deve far crescere al suo interno ruolo e importanza del sistema informatico ed usarlo sinergicamente con gli altri sistemi di governo aziendali per ottenere flessibilità, efficienza dei processi ed efficacia verso i cittadini. Un buon nucleo di competenze è già presente, sia a livello centrale che locale, ma bisognerà adeguatamente irrobustirlo, agendo anche in cooperazione con tutte le forze sociali competenti e disponibili, se si vuole davvero raggiungere questi obiettivi.

Intervenire in questo senso sulla pubblica amministrazione è essenziale per la crescita dell’Italia. Prima di tutto perché focalizzarsi sui risultati è l’unico approccio corretto per misurare se il miglioramento tecnologico davvero produce l’innovazione di cui il cittadino ha bisogno o no. Poi perché la pubblica amministrazione è uno dei mercati più grandi dell’intero settore dell’Information Technology ed è quello su cui la politica riesce ad intervenire in modo più diretto. La pubblica amministrazione è per il politico come la propria azienda per il top-manager. Anche il politico, infatti, deve rispondere ai suoi “azionisti”, cioè i cittadini, e può intervenire direttamente su come lavora e come funziona la sua struttura.

La pubblica amministrazione, per le sue dimensioni e la sua centralità rispetto al sistema paese, è una componente essenziale per determinare il futuro dell’Italia e potrebbe costituire l’obiettivo strategico in grado di guidare e favorire lo sviluppo nel prossimo futuro.

Si tenga inoltre presente che al momento attuale la produzione italiana nel settore dell’informatica è praticamente rivolta tutta al mercato interno. Il nostro paese, caso unico fra tutti i Paesi del G7, non esporta quasi per niente software. Da questo punto di vista l’Italia è una fortissima anomalia, l’unico assente tra tutti i paesi con un’economia fortemente industrializzata. Questa situazione, che in sé e per sé appare drammatica, sul piano industriale, può però essere ottimisticamente considerata un’opportunità. È chiaro infatti che l’informatica è per l’Italia un settore che offre un’enorme spazio di crescita sui mercati internazionali, una grande opportunità di espansione economica. Il problema è che un’industria italiana del software non si improvvisa da un giorno all’altro. Certamente vanno prese misure da subito in tal senso. Però quello che richiederà molto tempo, perché è un problema di formazione ed assimilazione di nuovi concetti nella testa delle persone, è la reale e profonda consapevolezza da parte della classe dirigente del paese delle capacità e delle opportunità dell’informatica. Questa è una carenza di tipo culturale che richiede interventi di lungo respiro.

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Chi mi ha seguito fin qua, avrà avuto modo di sviluppare le sue riflessioni.

(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)

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