Il report

ilprincipenudo. Un altro studio sull’industria culturale italiana: ma dov’è il quadro completo?

di di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Un altro studio sull’industria culturale italiana, affidato dalla Siae alla multinazionale della revisione Ernst & Young. Utile tassello di conoscenza ma siamo lontani da un puzzle completo ed accurato

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Tra una settimana, a Milano presso la Triennale, la Società Italiana Autori Editori presenta uno studio sulle industrie culturali e creative in Italia, affidato alla multinazionale della revisione E&Y. Un evento sul quale è opportuno proporre alcune riflessioni di scenario, per contestualizzare questa iniziativa certamente commendevole, ma che, impropriamente – e certo con discreta presunzione – si autoproclama (fin dalla titolazione) “Primo studio sull’Industria della Cultura e della Creatività in Italia”.

Il ritardo dell’Italia in materia di politiche culturali ed economia mediale è il risultato storico di una insensibilità sia dei governi che si sono avvicendati nei decenni sia di un’accademia che ha dedicato modestissima attenzione alle caratteristiche “strutturali” del sistema della cultura, dei media, dello spettacolo, delle arti.

Due le principali concause: la “cultura” in Italia spesso intesa come accessoria, secondaria, subordinata rispetto a priorità alte (l’economico piuttosto che il sociale); la “cultura” analizzata soprattutto nella sua componente estetica, artistica, creativa, sottovalutando le variabili economiche, giuridiche, tecnologiche (la sovrastruttura rispetto alla struttura, volendo utilizzare le categorie del marxismo). Potremmo anche ricordare il retaggio della concezione crociana della cultura che relegava le discipline scientifiche in una specie di “girone B” e certo non auspicava uno studio “strutturale” della cultura stessa.

Nel corso degli ultimi decenni, qualcosa s’è mosso, anche in Italia: per prima, a livello associativo, l’Associazione per l’Economia della Cultura – Aec, fondata nel 1986, che ha promosso una rivista trimestrale dal titolo omonimo – “Economia della Cultura” giustappunto – edita dapprima da Marsilio e poi da Il Mulino, giunta nel 2015 al suo 25° anno di esistenza; in quell’ambito, sono stati promossi i primi studi sul sistema culturale nazionale, dovuti ad appassionati ricercatori come Paolo Leon e Carla Bodo. Nel 1994, è stato pubblicato il primo avanguardistico “Rapporto sull’economia della cultura in Italia” (relativo al decennio 1980-1990) per i tipi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e nel 2004 il secondo, edito da Il Mulino (relativo al decennio 1990-2000). Su questa scia, sono venuti poi altri studi, promossi da nuovi soggetti: Federculture (associazione nazionale degli enti pubblici e privati, istituzioni e aziende operanti nel campo delle politiche e delle attività culturali) e poi Symbola (Fondazione per le Qualità Italiane), la lobby promossa da Ermete Realacci: il rapporto annuale di Federculture (fortemente voluto dal Past President Roberto Grossi) è giunto nel 2015 alla sua 11ª edizione, mentre la ricerca Symbola “Io sono cultura” è giunta nel 2015 alla 5ª edizione…

Quel che accomuna queste iniziative è la volontà di evidenziare l’importanza economica dei settori culturali e creativi, ma, al tempo stesso, queste ricerche sono accomunate da un deficit di accuratezza metodologica (a partire dalla incerta definizione del “perimetro” e dall’utilizzazione di fonti statistiche erratiche, dall’Istat alle Camere di Commercio), che determina spesso numeri in libertà, impressionanti come fuochi d’artificio ma come tali effimeri, ovvero dalle assai deboli basi statistiche. Manca poi una vera vocazione all’analisi critica dei dati, come se bastassero i “numeri” per una autentica interpretazione dei fenomeni sociali.

Ed il “pubblico”, invece?!

Tace, ovvero… il deserto: su queste colonne (a partire dalla prima edizione di questa rubrica, nel luglio del 2014, non a caso intitolata “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri”), tante volte abbiamo denunciato l’assenza di “think tank” adeguati: il dicastero che dovrebbe intervenire sembra disinteressarsi della materia, avendo depotenziato e definanziato le due strutture interne che pure sarebbero – sulla carta – preposte: l’Ufficio Studi e l’Osservatorio dello Spettacolo.

L’ultimo (lodevole) tentativo ministeriale fu promosso con Francesco Rutelli: nel settembre del 2008 fu presentato a Bologna il primo “Libro Bianco sulla Creatività italiana”, frutto di più di anno di lavoro di un gruppo di esperti coordinati dal compianto Walter Santagata, ricerca che era stata commissionata dall’allora Ministro dei Beni e le Attività Culturali Francesco Rutelli, che aveva per ciò creato un’apposita commissione (denominata “Creatività e Produzione di Cultura in Italia”). A quel lavoro avanguardistico (pubblicato nel 2009 per i tipi dell’Università Bocconi), non è mai stata prestata particolare attenzione da parte dei “decision maker” (così come dalla comunità professionale e dall’accademia universitaria), né i ministri che si sono succeduti poi hanno mostrato alcuna sensibilità rispetto all’esigenza di disporre di strumenti cognitivi metodologicamente validati… Quel rapporto (che includeva peraltro nel “perimetro” anche la “digital economy”, dedicando un capitolo a “Computer, Software e ICTs”) meritava e merita un aggiornamento ed un’evoluzione che né Sandro Bondi, né Giancarlo Galan, né Lorenzo Ornaghi, né Massimo Bray, né – da ultimo – Dario Franceschini hanno mai promosso: perché?!

Iniziative come quelle di Federculture e Symbola, così come quest’ultima della Siae, sono il risultato dell’assenza di una vocazione della “mano pubblica” italiana a studiare, misurare, valutare il senso del proprio intervento nel settore culturale e mediale. Si governa con una cassetta degli attrezzi inadeguata, affidandosi alla nasometria del Ministro di turno.

L’accusa di disinteresse cognitivo va certamente mossa anche nei confronti dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, la cui relazione annuale è ormai il fantasma di quel che dovrebbe essere (basti ricordare quel che produce l’omologa britannica, Ofcom, per provocare il pianto rispetto alla volontà Agcom di conoscere realmente l’economia dei settori di propria competenza).

Undici i settori analizzati in questa ricerca di E&Y sull’“Italia Creativa”: architettura, arti performative, arti visive, cinema, libri, musica, pubblicità, quotidiani e periodici, radio, televisione e “home entertainment”, videogiochi. Mancano all’appello i musei e le biblioteche e più in generale i beni culturali, che pure sono anch’essi elementi fondanti del “sistema cultura” di una nazione. Mancano anche all’appello la moda, il design… senza voler estendere il perimetro (come tende a fare invece Symbola) oltre, includendovi il turismo e l’enogastromico (ovvero l’industria del gusto)…

Ben 18 le associazioni di categoria che – viene annunciato – hanno collaborato allo studio E&Y per Siae: Aesvi, Agis, Aie, Anem, Anes, Anica, Apt, Cnappc, ConfCultura, Confindustria Cultura Italia (Cci), Confindustria Radio Televisioni (Crtv), Dismamusica, Fem, Fieg, Fimi, Nuovo Imaie, Pmi, Univideo. Lo studio dedicato all’Italia ricalca una precedente esperienza Ernst & Young realizzata in Francia, ed una ricerca presentata nel dicembre scorso a Parigi, commissionata dalla Cisac, la Confederazione Internazionale delle Società di Autori e Compositori.

Si ricordi che Ernst & Young è una delle maggiori multinazionali della consulenza, specializzata anzitutto in revisione di bilancio, analisi contabili, fiscalità, con oltre 200mila dipendenti in tutto il mondo e più di 700 uffici in ben 150 Paesi. E&Y è una delle cosiddette “Big Four”, ovvero le quattro società di revisione che a livello mondiale si spartiscono la grande parte del mercato. Le altre tre oligopoliste sono PricewaterhouseCoopers (Pwc), Deloitte & Touche, e Kpmg, essendo finita nel fango la quinta consorella, quella Andersen (ex Arthur Andersen) fallita nel 2002 a seguito dello scandalo Enron. Va ricordato, per comprendere le dimensioni di queste multinazionali ed il loro coinvolgimento ai massimi livelli dell’economia e finanza mondiale, che nel gennaio del 2008, Andrew M. Cuomo, prima di insediarsi come Governatore dello Stato di New York, ancora nel suo ruolo di Procuratore Generale, intentò una causa contro Ernst&Young, per il suo presunto ruolo nel collasso di Lehman Brothers nel 2008, ovvero quel che è stato definito il “crack supremo” che ha determinato disastri nell’economia planetaria (di cui ancora tutti noi paghiamo le conseguenze). Secondo l’accusa Ernst & Young, avrebbe aiutato la banca di investimenti a fornire informazioni fuorvianti agli investitori sulle proprie condizioni finanziarie, a fronte di consulenze nell’ordine di circa 100 milioni di dollari: nell’aprile del 2015, la vicenda giudiziaria s’è chiusa, con una sorta di “transazione” risarcitoria nell’ordine di 10 milioni di dollari, una somma modesta a fronte dei 150 milioni di dollari di danni Stato di New York aveva rivendicato. Da osservare en passant che la notizia non ha registrato alcuna ricaduta nei media italiani (diverte osservare che, cercando con Google “Ernst & Young” e “Lehman”, circoscrivendo a “ultimo anno” e “lingua italiana”, non emerge 1 risultato 1!), mentre qualche chiazza di fango è arrivata ad E&Y dal coinvolgimento di Francesca Immacolata Chaouqui in uno degli scandali del filone “Vatileaks”: l’eccentrica giovanotta è stata infatti per qualche mese consulente “External Relations & Communication” di E&Y, prima di essere cooptata dallo staff del Vaticano, nel luglio del 2013, a far parte della Cosea, la controversa Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione delle strutture economiche e amministrative della Santa Sede, guidata dallo spagnolo monsignor Lucio Angel Vallejo Balda.

In ogni caso, incidenti di percorso (piccoli o grandi che siano), non è qui in dubbio la qualità professionale o la capacità analitica di un gigante come Ernst & Young, ma si manifestano perplessità sul senso di un approccio economicistico-contabilistico, e – soprattutto – ci si domanda perché un soggetto come la Siae abbia ritenuto di affidare una ricerca di questo tipo (così delicata e strategica al contempo) ad una multinazionale della consulenza finanziaria specializzata in revisione di bilanci aziendali, e non ad una società italiana specializzata nella consulenza sulla cultura ed i media. Ce ne sono almeno una decina: basti citare le più note, come e-Media, Fitzcarraldo, ItMedia, Labmedia, Eccom, Cles, Makno

Stupisce che, nella ricerca, siano state coinvolte sì molte associazioni imprenditoriali (datoriali) e certamente la Siae (che ha finanziato lo studio), ma non le associazioni rappresentative sia delle anime creative dell’industria (100autori, Anac, Anart, Writers Guild ItaliaWgi, Sindacato Nazionale Scrittori…), sia del versante più squisitamente sindacale (per esempio, il Sindacato Lavoratori della Conoscenza – Slc della Cgil), così come le associazioni dei consumatori ed utenti (basti pensare all’Aiart). Eppure, anche l’anima creativa del settore ha evidentemente un ruolo, netto e preciso, nell’economia politica dell’industria culturale, così come l’anima sindacale, e – non da meno – quella dei fruitori finali. “Stakeholder”, nelle industrie culturali e creative, non sono soltanto i rappresentanti delle “industrie”.

Da ricordare peraltro che un’altra “consorella” della revisione, qual è PricewaterhouseCoopers già da anni produce una ricerca scenaristica a livello planetario, “Pwc Entertainment & Media”, dotata anche di analisi previsionali, e peraltro con uno specifico capitolo dedicato all’Italia: la 7ª edizione dell’“Outlook in Italy 2015-2019” è stato presentato nel settembre dell’anno scorso (vedi “Key4biz” del 22 settembre 2015). Sarà divertente osservare le differenze nelle stime delle dimensioni economiche dei vari settori, tra Pwc e E&Y: ne vedremo sicuramente delle belle…

Da segnalare infine che, quattro anni fa, anche chi redige queste noterelle ha diretto uno studio dedicato giustappunto all’“Italia Creativa”, ovvero più precisamente la ricerca intitolata “Italia: a Media Creative Nation”, un progetto promozione culturale che si poneva come inedito tentativo di analisi organica dell’insieme delle industrie creative e culturali italiane, analizzate soprattutto rispetto all’esigenza della miglior tutela del diritto d’autore. Il sotto-titolo della ricerca IsICult per Mediaset è “Il contributo delle industrie audiovisive alla socio-economia delle nazioni”. La ricerca è stata commissionata dal Gruppo Mediaset ed è stata presentata nell’ottobre del 2011 a Roma presso la Biblioteca Casanatense, con la partecipazione dell’allora Ministro e di varie autorità istituzionali (tra cui il Presidente dell’Agcom, che intervenne a chiusura della kermesse) e di molti esponenti delle comunità della cultura italiana (imprenditori, autori, artisti, tecnici…). Il panel dei “discussant” è stato formato da Riccardo Tozzi per l’Anica, da Aldo Grasso come decano dei critici televisivi italiani, da Giancarlo Leone in rappresentanza della Rai, da Oscar Giannino come giornalista economico, da Fedele Confalonieri come Presidente di Mediaset, con la conduzione di Maurizio Costanzo. In un video curato dal giornalista Antonello Sarno, vennero proposti i pareri di alcune decine esponenti di prestigio della cultura italiana: tra i “testimonial”, si annoverava Ermanno Olmi, Pupi Avati, Colin Firth, Antonio Banderas, Marco Bellocchio, Alessandro Gassman, Caterina Caselli, Monica Bellucci, Gaetano Blandini… L’iniziativa ha registrato un’eccellente ricaduta stampa e mediale, e si è posta come precisa presa di posizione – anche rispetto alle istituzioni competenti in materia di diritto d’autore online (era in gestazione il famoso “regolamento” Agcom sul diritto d’autore “online”) – rispetto ad un qual certo rischio di “invadenza” da parte degli “over-the-top”, Google in primis, nel terreno culturale. Nel novembre 2011, la ricerca è stata presentata anche a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo, in edizione inglese. Il progetto “Italia: a Media Creative Nation” è poi stato messo in stand-by, anche se il sito web dell’iniziativa è ancora online (ed è stato aggiornato fino ad inizio 2014, prima di essere posto in “stand-by”).

In qualche modo, l’iniziativa Siae (con E&Y) sembra seguire la traccia avviata da Mediaset (con IsICult).

Sia consentito di osservare che forse E&Y dovrebbe però, con sana modestia ed onestà intellettuale, cassare quell’aggettivo (“Primo”) dal titolo del proprio “Studio sull’Industria della Cultura e della Creatività in Italia”: insomma, si tratta infatti dell’… “Ennesimo” studio! Peraltro, anche uno dei capitoli della ricerca di Santagata per il Mibac del 2008 era intitolato proprio “Italia Creativa”, con il sottotitolo significativo “Strategie e azioni per la crescita e il posizionamento internazionale dell’Italia nell’economia della creatività e delle industrie culturali”. Suggerimenti inascoltati, ahinoi.

Ancora una volta naturale sorge il quesito: perché debbono soggetti privati (quali sono Federculture piuttosto che Aec, Symbola piuttosto che – di fatto – la stessa Siae) ad investire risorse per realizzare “tasselli” di un “puzzle” cognitivo che dovrebbe essere lo Stato a voler costruire, con decisione e coraggio (coinvolgendo tutte le parti in gioco), nel rispetto del dettato einaudiano del “conoscere per deliberare”?!

Lo studio E&Y produrrà, ancora una volta, cifre (sicuramente mirabolanti!) sull’importanza della cultura nell’economia nazionale: dati senza dubbio utili, presentati con ricca infografica, ma certamente non innovativi. Serve altro. Si deve andare oltre. Basta numeri “in libertà”, belle slide, e variopinti scenari: servono analisi critiche ed elaborazioni strategiche.

Nessuno crediamo metta più in discussione la “centralità” della cultura nella socio-economia nazionale: quel che in verità ancora manca in Italia è un’analisi approfondita di criticità e potenzialità, sia sul versante industriale sia sul versante creativo. Quel che ancora manca è un’analisi di impatto dell’intervento della mano pubblica nel settore: dalle sovvenzioni al teatro al cinema, all’editoria giornalistica alle emittenti radiotelevisive locali, eccetera eccetera eccetera. Quel che ancora manca è una valutazione sul rapporto tra industrie culturali/creative ed economia digitale.

Si resta in attesa.

Clicca Qui, per leggere il comunicato stampa Siae di annuncio della presentazione di “Italia Creativa. Tutte le cifre dell’Industria della Cultura e della Creatività in Italia”, Milano, 20 gennaio 2016.

Clicca Qui, per leggere lo studio E&Y per Cisac (Confederazione Internazionale delle Società di Autori e Compositori), “Cultural Times. The first global map of cultural and creative industries”, presentato a Parigi il 3 dicembre 2015.

Clicca Qui, per leggere lo studio IsICult per Gruppo Mediaset, “Italia: a Media Creative Nation. Il contributo delle industrie audiovisive allo sviluppo socio-economico delle nazioni. Diritto d’autore e creatività”, presentato a Roma l’11 ottobre 2011.

Clicca Qui, per leggere un estratto dello studio promosso dal Mibac, “Libro Bianco sulla Creatività”, curato da Walter Santagata, presentato a Bologna il 26 settembre 2008.