Sprechi

ilprincipenudo. Dalle tlc al cinema, quanti inutili convegni. Ma i budget per la ricerca sono azzerati

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

L’inflazione convegnistica è una patologia del sistema mediale e culturale italiano: invece di allocare fondi alle attività di ricerca e studio, si sprecano risorse per iniziative che quasi sempre lasciano il tempo che trovano.

#ilprincipenudo è una rubrica settimanale promossa da Key4biz a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.
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Se qualche osservatore attento ha nutrito seri dubbi sull’impostazione, approssimativa ed improvvisata, della prima iniziativa del Semestre Italiano, la vacua kermesse di “Digital Venice” (dal 7 al 12 luglio 2014), l’inflazione di iniziative convegnistiche che ha caratterizzato l’edizione n° 71 della Mostra del Cinema organizzata a Venezia (dal 27 agosto al 6 settembre 2014) ha battuto il record storico. E stimola una opportuna riflessione critica.

“Cui prodest”? Qual è la causa primaria di questa curiosa fenomenologia di… parole-parole-parole?!

Venezia 2014 ha proposto oltre una decina di convegni e convegnetti, e forse una trentina di occasioni di incontro simili, tra iniziative promosse dall’Anica, dall’Anec-Agis, dalle “Giornate degli Autori”, da Microcinema, da associazioni minori e “player” marginali, eccetera. Tutti alla ricerca affannosa di una “finestra”, o comunque di una finestrella, vetrina o vetrinetta che fosse.

Iniziative tutte o quasi – va precisato – che sono il frutto di sovvenzionamenti pubblici, anzitutto della Direzione Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo: non si chieda chiarezza budgetaria e trasparenza amministrativa, perché non c’è, ma sappiamo per certo che si tratta di iniziative che hanno richiesto risorse complessivamente per alcune centinaia di migliaia di euro.

Con quale concreta utilità per la comunità professionale (e finanche per la collettività tutta)? Nessuno può rispondere seriamente a questa domanda.

Premesso che un giornalista che avesse voluto seguire tutte queste iniziative avrebbe dovuto rinunciare a vedere i film in cartellone (e ciò basti), non sembra che le inflazionate kermesse abbiano lasciato traccia di sé, almeno a livello di stampa e media nazionali.

Peraltro, in epoca di digitalizzazione pervasiva, nessuna o quasi di queste iniziative ha beneficiato di una trasmissione in diretta streaming (ed anche questo la dice lunga), e si è quindi risolta in incontri riservati all’eletta (…) schiera dei “cinematografari” festivalieri.

Passerelle per una compagnia di giro, spesso presa da pseudo-filosofari autoreferenziali.

La questione è più grave di quel che può apparire, perché, a fronte di questa sovrabbondanza di “discorsi” e “riunioni” (parole-parole-parole…), si registra ormai da anni una continua riduzione dei budget che le istituzioni pubbliche (ma anche i soggetti privati) assegnano alle attività di ricerca e studio.

Dalla Rai a Mediaset, dall’Agcom al Mibact, le spese in “ricerca e sviluppo” vengono sempre più ridotte, e sono in alcuni casi ormai quasi azzerate. Due esempi, per tutti: di fatto, non investono più in ricerca né l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (fatto salvo il budget – notevole – per il cosiddetto monitoraggio del pluralismo politico, che pure dovrebbe essere oggetto di revisione radicale per la sua arcaica architettura), né il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo (che pure dispone di un Servizio Studi presso il Segretariato Generale e di un Osservatorio dello Spettacolo presso la Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo, ma entrambi si caratterizzano ormai per risorse francescane e funzioni fantasmiche).

Come è quindi possibile che, da un lato, si assista ad una grande abbondanza di “convegni”, e, dall’altro, ad una inquietante miseria di “ricerche”?! La spiegazione è semplice: organizzare un “convegno” è relativamente semplice, consente una qualche visibilità, è possibile con tempistiche rapide, e non costa molto; realizzare “ricerche” è invece discretamente complesso, richiede tempi spesso lunghi, non necessariamente determina benefici di immagine, e costa.

Il picco negativo della patologia è rappresentato dai convegni che si pongono come occasione di presentazione di indagini e studi, che sono in verità pseudo-ricerche, ovvero argomentazioni sotto forma di graziose slide elaborate su dettatura del committente: in questo caso, i ricercatori divengono servili portatori d’acqua di spregiudicati comunicatori. Verrebbe da aggiungere “cantori del principe”, ma questa metafora sarebbe eccessivamente generosa verso entrambe le categorie: i “cantori” sono infatti spesso stonati e velleitari, ed “prìncipi” sono in verità spesso decaduti o immaginari.

Si assiste anche ad una prevalenza delle ricerche quantitative su quelle qualitative: un “bel sondaggino” costa ormai poche migliaia di euro, e “produce” dati in qualche modo spendibili comunicazionalmente, al servizio dell’esigenza contingente della lobby di turno.

Una bella responsabilità va attribuita anche ai giornalisti ed ai media, che spesso prendono per buone stime in libertà, frutto di numerologie approssimative se non fantasiose, determinando un gioco di rimandi – spesso con dati in contraddizione tra loro – che produce una confusione che ricorda l’hegeliana immagine della notte in cui tutte le vacche sono grigie.

La responsabilità primaria di questa patologia va comunque ricercata nello Stato, in tutte le sue forme e livelli: Stato centrale, Regioni, enti locali.

Non soltanto vengono ridotti i budget assegnati in generale, alla cultura ed ai media, ma, all’interno di questi settori, vengono ridotte e talvolta azzerate le spese in “r&d”. I “sistemi informativi” delle industrie culturali italiane sono deboli, frammentari, disomogenei, carenti. Sostanzialmente inutili ai fini di un buon governo. Sono assenti analisi previsionali e valutazioni di impatto, sia a livello “macro” (nelle politiche di gestione dei fondi europei…), sia a livello “micro” (nei budget delle amministrazioni locali…).

Si “governa” a vista, si amministra nasometricamente.

Non ci si deve stupire, quindi, della complessiva sconfortante assenza di respiro progettuale nelle “policy” italiane in materia di cultura e media, così come in materia di tlc e turismo: basti osservare la sconfortante arretratezza del dibattito in materia di servizio pubblico radiotelevisivo, nonostante il Sottosegretario Giacomelli continui ad annunciare una grandiosa “consultazione” sulla Rai che sarà…

Quando non si vuole assumere seria responsabilità dei propri  incarichi e ruoli, quando si evita di studiare realmente le alternative agli assetti conservativi, quando si vuole schermare le manovre dei palazzi del potere, quando – in sostanza – di vuole riprodurre lo stato di cose esistenti… si stimolano convegni, seminari, workshop, incontri, dibattiti. Per… “fare ammuina”. Se qualcuno chiede risposte puntuali e rapide ai propri problemi, se qualcuno si interroga sui futuri possibili e sulle possibili alternative… ottiene dalla politica e dalla pubblica amministrazione soltanto la fissazione dell’ordine del giorno e la data di una prossima riunione (o consultazione), nella quale si rimanderà, ovviamente, ad un futuro incontro/dibattito/convegno, che, invece di produrre responsi concreti e proposte coraggiose, indicherà ancora il luogo e l’ora ed il tema e l’odg di un altro tavolo di discussione, l’annuncio di un bel convegno ancora…

Come si può ben governare un Paese, quando si uccide l’attività di ricerca e se ne azzerano progettualità innovative e potenzialità immaginifiche?

Parafrasando Vladimir Majakovskij: “Oh, poter fare ancora un convegno, per togliere di mezzo tutti quanti i convegni!” (correva l’anno 1922, è un verso di una poesia tratta da “Marcia di sinistra”; Majakovskij usava l’espressione “riunione”, invece di “convegno”, ma crediamo che il senso possa essere sostanzialmente lo stesso).