Il bilancio

ilprincipenudo. Cultura, spettacolo e tlc: che fine ha fatto il ‘new deal’ di Renzi?

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale) |

Nelle cose della cultura e dei media, non registriamo l'atteso new deal che Renzi prometteva: osserviamo piccoli movimenti positivi, ma il deficit di policy making strategico si rinnova

Quando abbiamo deciso, con il direttore di “Key4biz” Raffaele Barberio, di promuovere questa rubrica, ormai un anno fa (riavviando una collaborazione con la testata che pur datava dalle sue origini), non nutrivamo la speranza che l’iniziativa avrebbe contribuito significativamente all’evoluzione dello stato dell’arte della ricerca sulle politiche culturali e l’economia dei media del nostro disastrato Paese.

#ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Pensavamo di poter fungere da stimolo e da pungolo. I risultati – va riconosciuto – non sono stati all’altezza delle nostre aspettative (illusioni?!).

Dal 4 luglio 2014 (edizione n° 1 di questa rubrica “#ilprincipenudo”: “L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri”) ad oggi (edizione n° 37 della rubrica), la situazione è peggiorata: le recenti produzioni documentative di strutture come il Mibact (Ministero dei Beni e le Attività Culturali e il Turismo) e l’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) confermano inequivocabilmente la distanza (da misurare in anni-luce) con la capacità di analisi scenaristica di soggetti omologhi come il Cnc (Centre National du Cinéma et de l’Image Animée) del francese Ministère de la Culture et de la Communication o come il britannico Ofcom (Office of Communications).

Va detto a chiare lettere: in Italia, della ricerca (per quanto qui interessa: della ricerca sulla cultura, i media, le tlc, lo spettacolo, le arti…) non importa un fico secco a nessuno.

Si “governa” spannometricamente, si naviga a vista, si elaborano “policy” basate su una inquietante assenza di conoscenza.

Le ragioni di questa grave patologia sono storiche e complesse, e non consola rievocare, a distanza di decenni – ancora una volta – le “lezioni inutili” di Einaudi ed il suo certamente disatteso “conoscere per governare”.

L’opacità è funzionale al predominio delle soggettività.

Non potendo conoscere lo stato reale delle cose, il cittadino, l’operatore, lo stakeholder è costretto a osservare l’agire del “policy maker”, senza avere chance di criticare con adeguata tecnicalità l’agire del politico. Nelle pieghe di bilancio, i “poteri forti” consolidano il proprio dominio, e nella non-conoscenza si annida il mal governo e finanche la corruzione.

Il problema è duplice: l’accesso ad informazioni teoricamente pubbliche ma spesso burocraticamente secretate (ed in questo va dato atto ai grillini di essere alfieri di iniziative che ricordano le migliori battaglie civili del Partito Radicale di alcuni decenni fa) e la possibilità di disporre di letture organiche delle informazioni (la trasparenza è, infatti, condizione necessaria ma non sufficiente per l’interpretazione dei fenomeni).

L’ultimo mese ha confermato, da una pluralità di fonti, quanto sconfortante sia la situazione: sono state presentate le nuove edizioni di due strumenti di conoscenza che si vorrebbero porre come “bussole” del sistema informativo delle industrie culturali italiane, ovvero la quinta edizione del report Symbola, associazione presieduta da Ermete Realacci,  “Io sono cultura” (26 giugno 2015), e la undicesima edizione del “Rapporto annuale” di Federculture, associazione presieduta da Roberto Grossi (8 luglio 2015). Entrambi forniscono, di anno in anno, dati in gran quantità (rielaborando fonti primarie) ed analisi (settoriali) certamente utili, ma con approcci frammentari e dispersivi ed incerte metodologie (peraltro mutanti di edizione in edizione, con un turn-over impressionante di collaboratori che si avvicendano, e che propongono ogni volta interpretazioni differenti: grande pluralità di “point-of-view”, ma altresì grande dispersione e deficit di lettura organica e sistemica).

Questi rapporti finiscono – paradossalmente – per assumere una impropria funzione supplente rispetto alle funzioni informativo-cognitive che dovrebbero svolgere le “istituzioni preposte”, dai ministeri alle varie autorità.

Questa lacunosità e frammentarietà delle informazioni disponibili determina, tra le conseguenze deleterie, che le lobby (grandi e piccole) possano esercitare la propria attività sparando numeri in libertà, ed approfittando dell’assenza di “data set” oggettivi di riferimento. Ognuno porta l’acqua (e dati e tesi) al proprio mulino ed influenza il “policy making” a seconda della propria forza lobbistica.

Ennesima riprova di questo, si è avuto in occasione della presentazione delle assemblee annuali di AerAnti-Corallo (l’altro ieri 8 luglio) e di Confindustria Radio Televisioni (ieri 9 luglio): la prima, focalizzata nella difesa delle emittenti radio televisive locali (si segnala il rischio di chiusura di 144 emittenti tv), la seconda tutta concentrata nel criticare lo strapotere latente ed i privilegi fiscali degli “over-the-top” (ma si enfatizza la grande ricchezza “free” del panorama tv italiano). Nel consesso AerAnti-Corello, una qualche voce critica rispetto all’assetto attuale. Nel consesso Confidustria RadioTv, una lettura complessivamente positiva dello stato delle cose. In entrambi i casi, flussi di dati soggettivi e parziali. Tanto, nessuno controlla, nessuno verifica, nessuno valida. Il Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli è intervenuto alle due kermesse: anche per lui – temiamo – “va tutto ben”. Unica sua preoccupazione: l’incapacità di export internazionale dell’audiovisivo. Ma conferma che sono in corso lavori congiunti tra Mise e Mibact: magari utilizzano dati (strampalati?) Istat ed Ice sull’import-export dei prodotti culturali italiani. Attendiamo di vedere i risultati.

Visioni soggettive e parziali, inevitabilmente partigiane.

Tra qualche giorno (il 15 luglio), verrà presentato anche la quinta edizione del Rapporto Annuale (2014) “Il mercato e l’industria del cinema in Italia”, curato dalla Feds – Fondazione Ente dello Spettacolo (una delle anime della Conferenza Episcopale Italiana – Cei): per alcuni aspetti, questo report è il migliore, almeno in termini di coerenza metodologica, ma, anche in questo caso, permane qualche riserva.

Nello stesso giorno (15 luglio), la Società Italiana Autori Editori annuncia la pubblicazione del nuovo “Annuario Siae” direttamente “online”: quest’anno, la tradizionale presentazione dei dati statistici Siae sullo spettacolo non avverrà per mezzo di conferenza stampa. I dati raccolti nell’Annuario 2014 saranno pubblicati direttamente sul sito della Società Italiana degli Autori ed Editori (www.siae.it), e disponibili per la consultazione in vari formati a partire dal 15 luglio 2015…

Curiosa decisione: quanti andranno a leggerli, in assenza di conferenza stampa?! Forse gli indicatori di fruizione sono così sconfortanti che la Siae non vuole amplificare le criticità del sistema italiano dello spettacolo?!

Secondo i dati Federculture, un quinto degli italiani non fruisce di alcun consumo culturale (a parte la tv, ovviamente, ma qui si intende “cultura” come teatro, cinema, musica, musei, libri…): ciò basti, ad evidenziare il disastro socio-culturale del nostro Paese.

E stendiamo un velo sulla diffusione della banda larga: Angelo Marcello Cardani è preoccupato, e dichiara “L’Italia registra un livello di copertura del 36 % contro il 68 % dell’Ue a 28 e di conseguenza un digital divide (doppio rispetto a quello europeo e con situazioni regionali che arrivano al 100 %, ovvero totale assenza di reti a banda ultralarga)”. Prendiamo atto che Cardani non sia esattamente contento, e forse non canticchia “madama la Marchesa”, ma… concretamente, Agcom cosa sta facendo?!

Come è possibile che – a parte noi e qualche altra rarissima eccezione – questo deprimente stato delle cose non sia oggetto di pubblica denuncia?!

L’ultima edizione della Relazione Annuale dell’Agcom (presentata il 7 luglio scorso) conferma la deriva cognitiva in atto: quel che allarma non è la riduzione a metà delle dimensioni del tomo rispetto al passato (ben venga la sintesi, se di sintesi si tratta), ma il complessivo impoverimento dei dati di scenario e di sistema messi a disposizione.

La nuova architettura espositiva del volume (unico plus: una impaginazione grafica meno arcaica) provoca il sospetto di una cosciente volontà di ridurre le informazioni disponibili pubblicamente, e finisce per confermare le tesi “perverse” che abbiamo fin qui manifestato: meno si sa, meno i portatori di interesse possono controllare, meno – complessivamente – si disturba il manovratore.

La delusione, da ricercatori, giornalisti, cittadini, rispetto all’ultima edizione della Relazione Agcom è estrema. Eppure, avevamo notizia che alcuni componenti dell’Autorità volessero imprimere una svolta rispetto all’impostazione della Relazione. Così non è stato. Si è passati dalla padella alla brace: meno dati, meno trasparenza. E, per favore, non si invochi l’alibi della “spending review”.

Magra consolazione, per l’analista critico e vigile, viene dal comunicato stampa diramato qualche giorno fa dalla storica Anac, la quale lamenta l’ottimismo oltranzista del Ministro Dario Franceschini. Anac – ci piace osservare – utilizza la stessa formula che noi abbiamo proposto decine di volte in nostri articoli ed interventi, ovvero quel… “tutto va ben, madama la Marchesa”.

Si ricorda che il “Tutto va ben, madama la Marchesa” è un motivetto inciso in Italia negli anni Cinquanta da Nunzio Filogamo, ma ha origine in una canzoncina francese che narra di un servitore che cerca di rassicurare una marchesa al telefono, mentre le comunica che il suo palazzo è andato a fuoco in seguito al suicidio del marito:

Comunicato Anac 6 – 7- 2015. Stanno tutti bene (nel cinema italiano)? Difficile condividere l’ottimismo che ispira le dichiarazioni ufficiali sullo stato del cinema italiano, simili a quelle del prudente maggiordomo che rassicurava per telefono la sua padrona: “tutto va ben, madama la Marchesa, tutto va ben, va tutto bene”. Anche se qui nessun castello è andato a fuoco e nessun Marchese si è suicidato, sono morte in Italia centinaia di sale cinematografiche (42 soltanto a Roma) e quelle che resistono vanno avanti con difficoltà rischiando di chiudere o di trasformarsi senza significative garanzie sulla destinazione di uso culturale. Intanto, nell’attesa di una nuova legge che sistemi il settore, vengono diffusi dati stravaganti e poco attendibili (elaborati dall’Anica) sul numero di film italiani prodotti (200 film?).

Inoltre, continuano meccanismi di elusione degli obblighi di investimento nel cinema da parte delle televisioni, né si prevede nessun intervento specifico per un cinema innovativo d’autore, definito “difficult”, più volte sollecitato dagli Autori.

Ma ciò che ci colpisce ancor più è che la questione di Cinecittà Studios sia come uscita dall’agenda delle priorità. È in atto da anni una politica di implacabile svuotamento dell’azienda più conosciuta nel mondo per il ruolo che ha avuto nella fabbricazione e nella affermazione del nostro cinema, dal neorealismo alla commedia italiana, al cinema contemporaneo.

Alla chiusura del laboratorio di sviluppo e stampa, alla sostanziale dismissione del cinefonico, al generale degrado dei teatri di posa, agli appalti di servizi digitali mai arrivati a regime di efficienza, al fallimento della Deluxe per la postproduzione, sono inesorabilmente seguiti licenziamenti e riduzioni dell’organico dei lavoratori, che hanno dovuto ricorrere – malgrado il conclamato ritorno delle produzioni straniere a Cinecittà – alla cassa integrazione e ai contratti di solidarietà. Nessun rispetto per le singole professionalità, nessuna certezza per l’utilizzo non speculativo delle aree di terreno pubblico appartenenti a Cinecittà. No, caro Ministro, non va tutto ben”.

Siamo lieti che almeno la storica Anac si renda ben conto che… “il principe è nudo” (si perdoni l’autocitazione!): quei dati che l’Associazione Nazionale Autori Cinematografi segnala come poco attendibili non sono però – va precisato – “dell’Anica”, ma dati ufficiali e istituzionali, essendo il risultato delle attività della cosiddetta “Unità di Studi congiunta Dg Cinema/Anica” su dati Direzione Generale Cinema del Mibact.

Abbiamo già segnalato (denunciato?!) l’assurdità di un ministero che si affida ad una associazione di imprenditori (di una parte soltanto della filiera, peraltro) per proporre letture complessive dello stato di salute del settore. Come se il Ministero dell’Economia appaltasse a Confindustria le proprie elaborazioni sugli scenari economici nazionali. E tutti gli altri “player” e “stakeholder”, tra anime imprenditoriali ed anime artistiche del settore culturale italiano?! Ignorati.

Il sistema informativo della cultura italiana sembra essere impostato affinché il ministro di turno e l’assessore di turno possano simpaticamente sorridere, allorquando i servili portatori d’acqua intonano giustappunto il coretto “tutto va ben, signora la Marchesa”. Rari sono i casi di giornalismo critico, di analisi indipendenti, le agenzie stampa diramano meccanicamente quel che viene propinato loro, ed i quotidiani riempiono spesso paginate intere (anche “Il Sole 24 Ore”!) di dati fantasiosi e cifre in libertà (non certificate da nessuno): ciò riguarda la cultura, come le telecomunicazioni, come il turismo…

Questa degenerazione complessiva finisce anche per portare acqua al “pensiero positivo” renziano, e riguarda anche la Rai, che da anni non ha nemmeno più un suo ufficio studi. In occasione dell’assemblea di Federculture (che ha visto la Rai come neo-associato), il Direttore Generale uscente ha però rilanciato quel che aveva già annunciato il 18 aprile scorso ad Expo, ovvero l’idea di un inedito “indice della cultura” (?!). Il dispaccio Ansa non è stato ripreso da nessun quotidiano o altra testata, ma “Key4biz” gli dedica attenzione:

“(Ansa) – Roma, 08 lug – L’Italia sarà il primo paese al mondo con un Indice Cultura. Ad annunciare il progetto, il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, intervenendo oggi alla presentazione dell’11/o Rapporto annuale di Federculture 2015, “cui da oggi la Rai ha l’onore di aderire”. “Il paese – racconta Gubitosi piu’ tardi a margine con l’Ansa – sta riprendendo a crescere. Noi vorremmo che alla crescita economica si affiancasse anche una crescita culturale, ma mancano gli strumenti per la sua misurazione. Per questo abbiamo iniziato a lavorare con il Ministero dei Beni culturali e del turismo e con l’Istat per elaborare un Indice della cultura in Italia, una sorta di ‘Pil culturale’. Contatteremo anche l’Unesco per capire come poterlo strutturare. Fino a oggi non esistono indici di questo tipo, saremmo tra i primi al mondo a compiere un tale esperimento. L’idea è di riuscire a dire, una volta l’anno, quanta gente è andata in museo, quanti studenti frequentano e quanti sono fuori corso, quant’è la domanda di cultura e quant’è l’offerta. Perché – incalza – come Rai e come paese dobbiamo sicuramente incentivare l’offerta, ma allo stesso tempo anche stimolare la domanda, affinché la gente si senta spinta ad andare a vedere un museo piuttosto che uno spettacolo teatrale”. Intanto un piccolo record l’Italia può vantarlo già: “E’ il paese in Europa – aggiunge Gubitosi – in cui più telespettatori al giorno guardano un programma di storia. Ci stiamo impegnando perchè i programmi di Rai Cultura siano sempre di più sulle reti generaliste. Sin da questi giorni, ad esempio, andranno in onda ogni sera in terza serata su Rai1”. Ma a fronte dei dati di Federculture, che raccontano punte di astensionismo dalle attività culturali fino all’80-90% in alcune aree e in alcuni settori, come si stimola il desiderio di cultura? “Bisogna abituare la gente al bello – risponde il direttore generale di Viale Mazzini -. Ad esempio, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, il prossimo 4 e 5 ottobre, sarà a San Pietroburgo e a Mosca. Ma andrà anche nel Sud d’Italia nella prossima primavera, in zone dove non ci sono grandi orchestre residenti, a portare anche li’ la grande musica”. (Ansa)  

Evitiamo commenti, lasciamo a Gubitosi i suoi record… Ci permettiamo semplicemente di invitare il Dg che verrà a ri-dotare la Rai di un ufficio studi… E, poi, magari, si andrà a bussare alla porta dell’Unesco.

Un passaggio della relazione introduttiva in occasione della presentazione rapporto annuale Symbola sulla cultura e della novella ricerca “I.t.a.l.i.a. Geografie del Nuovo Made in Italy” (si precisa che “Italia” è qui l’acronimo di “Italy, dall’Industria al Turismo, dall’Agroalimentare al Localismo, dall’Innovazione all’Arte”, sic) evidenzia inequivocabilmente il rischio sempre latente di strumentalizzazione ideologica dei dati e delle analisi: Renzi (non Matteo, ma Fabio, cognome omonimo ma non parente del premier, e, più semplicemente, Segretario Generale di Symbola) dichiara a chiare lettere come sia indispensabile e opportuno proporre letture ottimiste del “sistema Italia”… E chi se ne impipa – aggiungiamo noi – se queste interpretazioni forzatamente positive sono basate su fantasiose (anzi stravaganti, come scrive l’Anac) elaborazioni dei dati!

Non a caso Fabio Renzi, nella sua relazione, dichiara che le ricerche Symbola sono in linea con l’azione comunicazionale avviata qualche mese fa dal Mise. Sostiene questo Renzi minore:

“Un’Italia di cui andare orgogliosi, che smentisce con numeri e storie, con prestazioni e visioni, molti dei pregiudizi che Symbola, quasi per statuto, si impegna a combattere e sfatare. Come ha fatto lo scorso gennaio anche il Ministero dello Sviluppo Economico, quando a Davos durante il World Economic Forum ha presentato il video “Italy: The Extraordinary Commonplace” (per la regia di Enrico Mazzanti, agenzia Leo Burnett Italia, produzione Akita Film, n.d.r.). Dove, attraverso un gioco di sagaci rovesciamenti, ciò che alla fine emerge è la conferma, sì, di un luogo comune: ma quello dell’Italia come Paese in grado di emozionare con la bellezza delle sue città, dei suoi paesaggi, della sua natura, e di stupire con l’eccellenza del made in Italy, dei suoi tanti talenti nel mondo della ricerca, della cultura e dello spettacolo”.

A fronte di queste iniezioni di entusiasmo filogovernativo e di quest’autoesaltazione ottimistica, lasciamo i cantori del principe a bearsi di quanto sia “magnificent” l’Italia: noi restiamo saldi nella nostra posizione di osservatori critici piuttosto scettici. “Hic manebimus optime”.

Nelle cose della cultura e dei media, non registriamo quel tanto atteso “new deal” che Renzi prometteva: osserviamo piccoli movimenti, taluni positivi (dall’“Art Bonus” al “tax credit”), ma complessivamente una perdurante assenza di autentica volontà riformatrice. Il deficit di “policy making” strategico si rinnova.

Quel che sta accadendo intorno alla tanto decantata riforma della Rai conferma la preoccupazione e lo sconforto, e ricorda molto lo stranoto aforisma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”.

(ha collaborato Lorena Pagliaro)