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ilprincipenudo. Nuovo ‘contratto di servizio’ Rai: tutte le novità (il testo in esclusiva)

Angelo Zaccone Teodosi

La notizia non ha appassionato né i grandi quotidiani né le testate specializzate, ma forse ciò è dovuto a quella strisciante rassegnazione che sembra caratterizzare gli analisti delle politiche mediali italiane: eppure, il nuovo “contratto di servizio Rai 2018-2022”, che è stato licenziato dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza martedì scorso 19 dicembre, è degno di interesse, e – pur nel perdurante fiume di parole e nella vacuità della retorica del complessivo assetto semantico – contiene alcune piccole ma significative novità.

Tecnicamente, si è trattato dell’esame dello “schema di Contratto di servizio tra il Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A.”, per il periodo 2018-2022, su cui la Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi (presieduta da Roberto Fico – M5S –, ma la seduta di approvazione del contratto è stata presieduta da Giorgio Lainati – Forza Italia –, Vice Presidente della Commissione) è chiamata ad esprimere il proprio parere. Ciò ai sensi dell’articolo 1., comma 6, lettera b), numero 10), della legge n. 249 del 1997 (istitutiva dell’Agcom), che prevede che “La Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi esprime parere obbligatorio entro trenta giorni sullo schema di convenzione e sul contratto di servizio con la concessionaria del servizio pubblico; inoltre, vigila in ordine all’attuazione delle finalità del predetto servizio pubblico”.

Il parere della Commissione è stato approvato, nella sua versione ultima con ulteriore riformulazione curata dai relatori Maurizio Lupi (Ap-Cpe-Ncd) e Danila Nesci (Movimento 5 Stelle), nel pomeriggio di martedì 19 dicembre 2017.

In sintesi: innovazioni rivoluzionarie? No. Innovazioni significative? Poche. Innovazioni interessanti? Qualcuna.

Vincenzo Vita (già Sottosegretario alle Comunicazioni nei Governi Prodi, D’Alema ed Amato), sulle colonne de “il Manifesto” ha scritto il 20 dicembre che “l’articolato risalta per la continuità con il passato”, ed ha sostanzialmente ragione nel rimarcare il carattere non innovativo del contratto: alcune questioni cruciali e strategiche, come la certezza di medio periodo dei ricavi (canone in primis) ed il rapporto con i nuovi padroni dell’infosferaGoogle in primis – non sono stati nemmeno affrontati.

Un quesito fondamentale sorge naturale: come può uno Stato chiedere ad un concessionario di implementare gli obblighi, se non riesce a garantire certezza di risorse in prospettiva pluriennale?

Anche la definizione del “perimetro” di “servizio pubblico” non viene meglio precisata in questa versione del “Contratto di servizio”, nonostante le istanze in tal senso manifestate sia dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) sia dall’European Broadcasting Union (Ebu).

A livello semantico, va poi osservato che si usano formule talvolta simpaticamente “ipotetiche”, ovvero sfuggenti: per esempio, viene richiesto alla Rai di “valutare la possibilità di realizzare un portale online, privo di contenuti pubblicitari, dedicato esclusivamente all’offerta di canali e servizi per bambini e adolescenti”. Nota: si richiede di “valutare la possibilità”… non di “realizzare”! No comment.

D’altronde, il principale “capo-redattore” di questo testo è, per Viale Mazzini, un dirigente di lungo corso come Stefano Luppi (Vice Direttore Relazioni Istituzionali) ed è abbastanza naturale che, affidando sempre alla stessa persona un ruolo così delicato e strategico, questa finisca per procedere con logica conservativo-inerziale.

Si ricordi che il “Contratto di servizio” è un atto previsto nell’economia dei rapporti tra Stato e Rai, regolati anzitutto dalla “Convenzione” tra il Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai per la concessione per il servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, convenzione approvata con il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 28 aprile 2017 (vedi “Key4biz” del 12 aprile 2017, “Concessione Stato-Rai: parere ‘bipartisan’ in Vigilanza”).

Dopo l’approvazione da parte della Vigilanza, è previsto un altro passaggio governativo, prima della firma definitiva. Si rimarca che il parere della Vigilanza è “obbligatorio”, ma… non vincolante. E ciò basti, per comprendere il margine di manovra che l’Esecutivo ha ancora.

Da quanto è dato sapere, in queste ore sono in corso febbrili riletture (e riscritture?!), ed il testo potrebbe essere approvato dal Consiglio dei Ministri previsto per domani sabato 23 dicembre. Se dovesse saltare – causa turbolenze varie – viene dato per certo che il “Contratto di servizio” verrà approvato entro la fine del corrente anno. Potrebbero esserci quindi novità di rilievo, rispetto alla versione approvata il 19 dicembre dalla Commissione di Vigilanza.

Tra le novità che riteniamo più interessanti del “Contratto di Servizio” introdotte in Vigilanza, crediamo che vada evidenziata una più precisa definizione del canale in lingua inglese. La versione approvata recita: “La Rai è tenuta a presentare al Ministero, per le determinazioni di competenza, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente Contratto nella Gazzetta Ufficiale, un progetto di canale in lingua inglese di carattere informativo, di promozione dei valori e della cultura italiana, mediante la produzione di programmi originali e opere realizzate appositamente per un pubblico straniero, nonché volto alla diffusione dei prodotti rappresentativi delle eccellenze del sistema produttivo italiano e di opere cinematografiche, documentaristiche e televisive selezionate per valorizzare l’identità del Paese e sottotitolate, garantendone la divulgazione anche in forma non criptata per almeno il 40 per cento del palinsesto. La Rai è tenuta a realizzare tale progetto entro i sei mesi successivi alla sua presentazione al Ministero”. Sarà fondamentale comprendere quante risorse assegnare al canale, onde evitare esperimenti del passato rivelatisi fallimentari. E, qui invece, purtroppo il nuovo “Contratto di servizio” nulla precisa (vedi anche alla voce “incertezza delle risorse”, e, quindi, delle possibili loro allocazioni). Richiedere a Viale Mazzini di realizzare un canale “international” senza prevedere ed assegnare risorse adeguate è una logica alla “armiamoci e partite”…

Interessante anche una qual certa enfasi sulla “coesione sociale”, rispetto alla quale la Rai è tenuta a “raggiungere i diversi pubblici attraverso una varietà della programmazione complessiva, che presti una particolare attenzione alle offerte che favoriscano la coesione sociale di tutti i cittadini” (comma 3 dell’articolo 2, intitolato “Principi generali”). E, ancora, la Rai “è tenuta a dotarsi di un sistema di analisi e monitoraggio della programmazione che sia in grado di misurare l’efficacia dell’offerta complessiva in relazione agli obiettivi di coesione sociale (…), anche attraverso l’elaborazione di specifici dati di ascolto” (lettera n-bis dell’art. 1, intitolato “Obblighi specifici”).

Tra i principi generali (art. 2 comma 1, lettera b.), è stato meglio definito che Viale Mazzini deve “avere cura di raggiungere le diverse componenti della società, prestando attenzione alla sua articolata composizione in termini di genere, generazioni, appartenenza etnica, culturale e religiosa, nonché alle minoranze e alle persone con disabilità, al fine di favorire lo sviluppo di una società inclusiva, sussidiaria, equa, solidale e rispettosa delle diversità e di promuovere, mediante appositi programmi ed iniziative, la partecipazione alla vita democratica”.

Certo, si tratta di “principi generali”, ma è apprezzabile che siano stati meglio definiti. E, senza dubbio, questo contratto dedica finalmente attenzione alle persone con disabilità.

Va però lamentato che nessuna particolare attenzione viene prevista per gli stranieri, così dimenticando che un 10 % della popolazione italiana è ormai formata da immigrati, ed anche loro sono tele-spettatori a tutti gli effetti. Non è infatti stato purtroppo accolto dalla Commissione l’emendamento 2.8 a firma Pino Pisicchio (Capo Gruppo del Gruppo Misto) che saggiamente prevedeva: “stimolare l’integrazione interculturale degli immigrati e dei migranti, dei rifugiati, dei richiedenti asilo, e in generale degli stranieri, con particolare attenzione ai minori, anche attraverso una programmazione dedicata nelle lingue delle rispettive comunità e specifici programmi dedicati all’apprendimento della lingua italiana”.

Accolto però un altro emendamento, innovativo, proposto da Pino Pisicchio (Gruppo Misto), che finalmente introduce la “media literacy” in Rai: “z) Digital e media literacy (educazione all’uso dei media): la Rai, anche attraverso accordi con istituzioni centrali e locali, con istituti di studio specializzati, con fondazioni e associazioni di promozione sociale, progetta e realizza specifici progetti di digital literacy e media literacy con l’obiettivo di sensibilizzare in generale la cittadinanza e, in particolare, gli studenti di ogni ordine e grado rispetto a un uso autocosciente e critico dei media, con particolare attenzione alla televisione e al web” (introdotta alla lettera… “z.” – sic – del comma 1 dell’art. 23, “Obblighi specifici”).

Commendevole anche la richiesta di “valutare la realizzazione di un Osservatorio permanente su ‘Disabilità e media’, finalizzato a monitorare il trattamento mediatico delle persone disabili, e ad approfondire le migliori e più innovative pratiche in materia di accessibilità e partecipazione, anche in un’ottica di comparazione internazionale”.

Altro “Osservatorio” introdotto è in materia di “strumenti finalizzati a contrastare la diffusione di fake news”, anche se non si comprende perché esso debba essere un “osservatorio interno” (sic) alla Rai.

Apprezzabile una maggiore attenzione rispetto al pluralismo “di genere” (con uno specifico articolo inserito “ex novo” in Commissione: 8-bis, intitolato “Parità di genere”), come da proposta emendativa a firma Alberto Airola, Lello Ciampolillo, Mirella Liuzzi (Movimento 5 Stelle), anche se si notano qua e là curiosi innesti che fanno riferimento alla “famiglia” (intesa – si comprende – nella sua architettura… tradizionale).

Da segnalare anche la positiva decisione di istituire, come proposto da Vinicio Peluffo (Pd), una specifica struttura aziendale Rai dedicata allo sviluppo del genere documentario: era un’istanza che l’associazione italiana dei documentaristi Doc/it (presieduta da Agnese Fontana) manifestava da anni, anzi decenni (uno dei “cavalli di battaglia” del Past President Alessandro Signetto), e finalmente viene accolta, facendo sì che Rai non sia più un caso unico (negativo) nel panorama delle televisioni pubbliche di tutta Europa.

La parte del “Contratto di servizio” relativa agli obblighi di programmazione e di investimento è stata “aggiornata” alla luce di quanto previsto dalla “legge cinema e audiovisivo” Franceschini-Giacomelli, e dai relativi decreti attuativi, e non ha gran senso qui approfondire oltre (vedi “Key4biz” del 27 novembre 2017, “Battaglia sulle ‘Quote obbligatorie’ per cinema e fiction made in Italy. I rilievi di Netflix (terza parte)”). Si prevede che il testo definitivo dell’“Atto di Governo” n. 469 – ovvero il decreto legislativo che determina il rafforzamento degli obblighi imposti ai broadcaster (modifica dell’articolo 44 del Tusmar) – verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2017.

Paradossale, infine, che questa nuova versione del “Contratto di servizio” non sia stata oggetto di una riunione del Consiglio di Amministrazione Rai: non risulta sia prevista una convocazione avente per oggetto questa dinamica, che pure dovrebbe essere ritenuta essenziale e prioritaria per l’azienda.

Da segnalare, sempre in argomento “Rai”, che ieri l’altro, mercoledì 20, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni si è espressa, attraverso un “ordine del giorno” di Antonio Martusciello (“in quota” Forza Italia), in merito agli esposti presentati da Mediaset per condotte illecite della concessionaria pubblica in materia di vendita di spazi pubblicitari e di affollamenti pubblicitari”. La Rai, secondo il “Testo Unico” della Radiotelevisione (“Tusmar”, ovvero il Decreto Legislativo 31 luglio 2005, n. 177, e successive modificazioni), ha attualmente un tetto orario del 12 % e settimanale del 4 %. In relazione a questo vincolo, finora ha prevalso fin dal 1992 – come intese l’allora Garante monocratico Giuseppe Santaniello, così interpretando la “legge Mammì” (la n. 223 del 1990) – una interpretazione che Mediaset ritiene eccessivamente permissiva: è stato inteso per le 3 reti generaliste e non per singolo canale, consentendo a Viale Mazzini di stressare la raccolta sulla “rete ammiraglia”, superando il tetto del 4 % a settimana, a condizione che le altre stessero “sotto” nel totale. Agcom ha chiesto un parere “pro veritate” al proprio Servizio Giuridico. In sostanza, Rai può attualmente trasmettere fino a 432 secondi di pubblicità all’ora, ma la media settimanale delle 3 reti non può superare i 144 secondi l’ora. Mediaset, invece, vorrebbe che ogni canale rispettasse il tetto settimanale con l’obiettivo di svuotare di spot Rai1 (oggi intorno al 6 %), ricaricando Rai3 (che è vicina 3 % di affollamento, ma ha tariffe più basse per gli inserzionisti). L’eventuale “travaso” che deriverebbe da una disciplina più restrittiva sarebbe in buona parte a beneficio della “rete ammiraglia” Canale 5: non trovando spazio su Rai1, gli investitori migrerebbero infatti verso il canale della tv commerciale con il target più simile. Una mossa del genere toglierebbe alla Rai fino a 100 milioni di euro di pubblicità l’anno, che verrebbero trasferiti in larga parte a Mediaset… Altra questione dolente dell’esposto Mediaset riguarda la vendita sottocosto degli spot che Rai pratica ormai intensamente. E nel nuovo “contratto di servizio” è stato introdotto l’obbligo che la Rai renda pubblici gli incassi per i singoli spot trasmessi da ogni programma: una mossa per evitare che Viale Mazzini venda pubblicità sottocosto, ma che finisce per favorire la concorrenza, limitando il margine di manovra e di elaborazione di strategie ad hoc della tv di Stato.

Da segnalare anche che Rai è alla ricerca di un “advisor” per il proprio “piano industriale”: si ricordi che l’ultimo piano industriale di Viale Mazzini è stato presentato nel 2012 dall’allora Direttore Generale Luigi Gubitosi, e la società di consulenza cui fu la McKinsey. La scadenza del bando è prevista per il 15 gennaio 2018, ed è in ballo un affidamento da ben 1 milione di euro. Naturale sorge un quesito: ma con tutte le risorse professionali di cui dispone internamente, è proprio necessario rivolgersi ad una struttura esterna, la quale spesso finisce semplicemente per “infiocchettare” meglio (con presentazioni efficaci in Power Point piuttosto che con policrome infografiche) dati ed analisi, di scenario e di mercato ed aziendali, di cui Viale Mazzini dispone sicuramente “in house”?! Se la Rai non avesse deciso di smantellare il proprio Ufficio Studi, e se fosse dotato di una Direzione Marketing non concentrata prevalentemente sul prodotto, questa necessità di “esternalizzazione” non avrebbe senso. Peccato che la Commissione di Vigilanza non abbia accolto l’emendamento proposto da Pino Pisicchio (Capo Gruppo del Gruppo Misto), che aveva previsto: “La Rai garantisce una verifica accurata dell’offerta proposta, anche alla luce delle migliori esperienze di altri servizi pubblici radiotelevisivi europei, attraverso un Ufficio Studi e Strategie, struttura interna che coadiuvi il consiglio di amministrazione della società concessionaria nella elaborazione di scenari predittivi, di valutazioni di impatto, di analisi critiche di verifica della qualità, e che sviluppi interazioni con le scuole e le università, anche attraverso iniziative editoriali e multimediali” (emendamento 23.22, presentato il 14 dicembre).

Nella stessa direzione andava anche l’emendamento presentato da Francesco Verducci (Partito Democratico): “La Rai è tenuta a costituire, nell’ambito delle attività del consiglio di amministrazione, un centro di analisi e ricerca specializzato che: i) sia di supporto agli indirizzi formulati dal consiglio di amministrazione; ii) realizzi studi e indagini (in particolare di natura sociologica, economica, giuridica) inerenti l’attività dei media di servizio pubblico; iii) promuova la creazione di un network internazionale di esperti e università; iiii) curi la pubblicazione di riviste scientifiche specializzate; iiiii) favorisca l’attività di ricercatori qualificati” (emendamento 23.39, presentato il 14 dicembre).

Da apprezzare comunque che un segnale, timido (troppo timido), è stato manifestato, se è vero che la Commissione ha in qualche modo “tenuto conto” delle due proposte, ed in effetti un “cenno” – sfuggente assai, purtroppo – all’“Ufficio studi” emerge: laddove, nel testo entrato in Commissione, si prevedeva che Rai sia tenuta alla “definizione di un coerente modello organizzativo”, è stato aggiunto “che preveda anche l’istituzione di uno specifico ufficio studi incaricato di realizzare studi e indagini inerenti l’attività dei media di servizio pubblico”. Come dire? Meglio qualcosa che niente. La Consigliera di Amministrazione Rita Borioni (“in quota” Partito Democratico) ha evidenziato che “il parere stabilisce anche che si dovrà finalmente (ri)dare vita a un ufficio studi per la realizzazione di indagini e studi sull’attività dei media di servizio pubblico, dopo anni di assenza in Rai”.

Conclusivamente, la Commissione ha approvato un testo che appare evolutivo, pur lievemente, rispetto a quello che ha ricevuto per avviare il proprio esame.

La “prossima puntata” è rappresentata dal testo definitivo che verrà approvato dal Consiglio dei Ministri, e quindi… a presto su queste colonne!

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