La querelle

ilprincipenudo. Caso Giannini-D’Alessandro: la fuga dei cervelli anche nei media

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Il caso Giannini-D’Alessandro stimola riflessioni sulla fuga di cervelli italiani, una quota importante degli ormai oltre 100mila espatriati l’anno

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

La querelle provocata dalla dichiarazione di rivendicato orgoglio della Ministra Stefania Giannini rispetto a fondi europei acquisiti dalla “ricerca italiana”, contestata in modo netto da una delle ricercatrici che ha vinto il bando, merita attenzione anche sulle colonne di un quotidiano telematico come “Key4biz”, specializzato – come recita la testata – nella digital economy e la cultura del futuro.

Riassumiamo la vicenda, che s’è sviluppata anzitutto e soprattutto in ambito “social media”: venerdì scorso, la Giannini posta sul suo profilo Facebook la seguente dichiarazione, commentando i risultati della “call” per l’Erc (European Research Council) Consolidator Grant 2015, in relazione a 30 italiani vincitori del prestigioso bando: “Un’altra ottima notizia per la ricerca italiana. Colpisce positivamente il dato del numero di borse totali ottenute dai nostri ricercatori, che ci posiziona al terzo posto insieme alla Francia. Ma, soprattutto, colpisce il fatto che siamo primi per numero di ricercatrici che hanno ottenuto un riconoscimento. Complimenti ai nostri ricercatori e alle nostre ricercatrici!”.

La Ministro commentava quel che era segnalato su “Miur Social”: “#Ricerca ‘Consolidator Grants’ 2015 dell’Erc (https://erc.europa.eu/), assegnati 585 milioni. I Grant sono in tutto 302. L’Italia è terza (con riferimento alla nazionalità dei ricercatori) con 30 borse ottenute da ricercatori italiani, insieme alla Francia. Un ottimo risultato per i nostri studiosi! Le donne sempre più protagoniste dei Consolidator Grant. Le italiane sono infatti prime per numero di riconoscimenti ottenuti”.

Una delle vincitrici del bando, Roberta D’Alessandro (si è aggiudicata ben 2 milioni di euro per una ricerca in ambito linguistico), ha contestato l’impropria rivendicazione della titolare del Miur, con un post subito rilanciato da “La Stampa”:Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati” il duro incipit. “La mia Erc e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi Erc non compaiono, né compariranno mai. E così, io, Francesco e l’altra collega, Arianna Betti (che ha appena ottenuto 2 milioni di euro anche lei, da un altro ente), in 2 mesi abbiamo ottenuto 6 milioni di euro di fondi, che useremo in Olanda. L’Italia ne può evidentemente fare a meno. Prima del colloquio per le selezioni finali dell’Erc, ero in sala d’aspetto con altri 3 italiani. Nessuno di noi lavorava in Italia. Immagino che qualcuno di loro ce l’abbia fatta, e sia compreso nella sua “lettura personale” della statistica.  Abbia almeno il garbo di non unire, al danno, la beffa, e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono. Proprio come noi”.

In effetti, dei 30 italiani vincitori, ben 17 lavorano per un centro di ricerca… straniero!

Un durissimo attacco frontale, comprensibile e giustificato quello della D’Alessandro (divenuta docente ordinaria nei Paesi Bassi a 33 anni), perché naturale è il fastidio e la rabbia per chi verosimilmente, se avesse trovato in Italia aperte le porte (dell’accademia, dell’università e del mondo della ricerca ed in generale della cultura), non avrebbe mai lasciato il proprio Paese, e si trova invece costretto a leggere dichiarazioni di… “millantato credito” – ovvero di rivendicazioni per meriti… altrui – per le bontà delle italiche cose (e magari di Super-Renzi!).

La protesta di D’Alessandro, grazie ai “social”, è anche diventata veramente “virale”,  assurta a simbolo di chi lotta, in questa Italia malata, nel nome della ricerca ma non ottiene mai i giusti riconoscimenti.

Continua la giovane ricercatrice: “Vada a chiedere alla vincitrice del concorso per linguistica informatica al Politecnico di Milano (con dottorato in estetica, mentre io lavoravo in Microsoft), quante grant ha ottenuto. Vada a chiedere alle due vincitrici del concorso in linguistica inglese, senza dottorato, alla Statale di Milano, quanti fondi hanno ottenuto. Vada a chiedere alla vincitrice del concorso di linguistica inglese, specializzata in tedesco, che vinceva il concorso all’Aquila (mentre io lo vincevo a Cambridge, la settimana dopo) quanti fondi ha ottenuto. Sono i fondi di queste persone che le permetto di contare, non i miei”.

La protesta di D’Alessandro – che ha registrato in poche ore oltre 39mila “like” su Fb – si è rivelata un vero boomerang per la Ministro, ed immaginiamo che a Viale Trastevere (sede del Ministero dell’Istruzione, Ricerca, Università) stiano predisponendo una “unità di crisi”, perché un crash comunicazionale di questo tipo compete con la surreale vicenda della berlusconiana Ministra Maria Stella Gelmini, che nel 2011 si lanciò in un comunicato stampa entusiasta per la scoperta dei “neutrini” grazie ad un presunto tunnel nel Gran Sasso…

In verità, i consulenti per la comunicazione dei nostri ministri dovrebbero consigliare prudenza, prudenza, prudenza: l’eccessivo entusiasmo e l’eccessiva fretta rappresentano un mix terribile. Se, prima, un comunicato stampa era frutto di una redazione minimamente accurata, ora la smania di “postare” su Twitter o Facebook un commento a caldo (troppo a caldo, spesso!) determina rischi di errori clamorosi e di scivoloni ridicoli…

Da sabato, molti quotidiani hanno dedicato ampio spazio alla vicenda, oggi con una paginata intera – tra le altre testate – de “la Repubblica”, intitolata “Caro ministro, l’Italia non mi ha voluto, mi dicevano brava, ma poi vincevano altri”.

Ricordiamo che, secondo elaborazioni della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) rese note nell’ottobre 2015, sta crescendo, di anno in anno, il numero degli italiani che fanno le valigie, e si trasferiscono all’estero. Nel 2014, gli espatri sono stati oltre 100mila (per l’esattezza 101.297), con una crescita del 7,6% rispetto al 2013. In dieci anni, i flussi sono cresciuti del 49%. Una parte significativa di questi neo-emigrati sono proprio laureati qualificati che non trovano lavoro in Italia: secondo alcune stime sono oltre 40mila gli “under 40” che emigrano ogni anno. Da sola, Londra registra oltre 2mila arrivi al mese!

Vogliamo manifestare il nostro sostegno e la nostra simpatia nei confronti della D’Alessandro: e vogliamo portare acqua al mulino della sua sana protesta, sulla base della nostra personale esperienza professionale.

Chi redige queste noterelle presiede infatti un centro di ricerca indipendente, fondato nel 1993, specializzato sulle politiche culturali e le economie mediali. Nell’arco di oltre venti anni, abbiamo dato lavoro a quasi 150 ricercatrici e ricercatori, e possiamo vantarci di aver avuto nel nostro laboratorio cervelli d’eccellenza come Giovanni Gangemi (da un paio di anni funzionario Agcom), Elena Cappuccio (responsabile studi di Confindustria Radio Televisione), Flavia Barca (già assessore alla cultura a Roma nella Giunta Marino), Andrea Marzulli (direttore della sezione cinema della Siae), Bruno Zambardino (consulente per i tavoli Mibact-Mise sulla riforma dell’audiovisivo), Rita Borioni (consigliere di amministrazione Rai)…

Purtroppo, il carattere ondivago della committenza, le dimensioni modeste del mercato della consulenza indipendente, così come l’assenza di sostegni pubblici continuativi (e finanche una qual certa eterodossia di approccio), hanno impedito ad IsICult di “stabilizzare” questi consulenti e collaboratori, ognuno dei quali ha poi sviluppato un proprio egregio percorso professionale.

L’elenco potrebbe continuare, ma fermiamo subito la nostra piccola rivendicazione d’orgoglio (ad ognuno il suo…, e ci auguriamo più fondata di quella della Ministra Giannini).

Quel che vogliamo qui segnalare è che avremo, nel corso di oltre vent’anni, accolto almeno il triplo di candidati, ovvero di giovani neo-laureati (o meno giovani e magari con due lauree), che son venuti a bussare alla nostra porta (spesso perché trovavano chiusa quella dell’università), per un colloquio di lavoro: quindi riteniamo – fors’anche peccando di presunzione – di poter sostenere che abbiamo involontariamente conosciuto un “campione” in qualche modo “rappresentativo” di un interessante segmento del mercato della ricerca in Italia.

Alcuni dei ricercatori che abbiamo conosciuto ed apprezzato sono “emigrati”, cervelli sottratti alla mediologia italiana: ne vogliamo citare tre, perché son casi emblematici, che confermano la protesta della D’Alessandro.

Uno dei migliori cervelli con cui abbiamo avuto il piacere di lavorare per un paio di anni è Alessandro D’Arma, che dal 2007 lavora accademicamente all’University of Westminster, presso la cui la School of Media, Arts and Design è attualmente Senior Lecturer, specializzato giustappunto sulla “media policy” e la “political economy of media industries”.

Poche settimane fa, ha pubblicato per i tipi di Lanham Lexington Books, Lanham/Boulder, “Media and Politics in Contemporary Italy”. From Berlusconi to Grillo”: si tratta del primo saggio in lingua inglese che propone una lettura organica del sistema mediale italiano negli ultimi vent’anni. Alessandro avrebbe potuto (ed ancora potrebbe, ovviamente) lavorare in Italia, dando un contributo importante alla ricerca mediologica nazionale. Perché Alessandro non è professore ordinario in un’università italiana?!

Un altro caso di “emigrata” d’eccellenza: Alessia Di Giacomo, che ha lavorato con IsICult per quasi quattro anni, e che sicuramente sarebbe stata felice di lavorare a Viale Mazzini, ma che dal 2008 è stata invece accolta, vincendo un concorso pubblico, dal “public service broadcaster” spagnolo, ed è presto divenuta dirigente di Rtve (Radiotelevisión Española), attualmente con responsabilità dell’area vendite dei canali tematici per i bambini. Ve la immaginate una giovane ricercatrice spagnola che partecipa ad un concorso pubblico bandito in Italia?! Perché Alessia non è dirigente Rai?!

Un altro caso ancora: Luca Di Mauro. Non possiamo annoverare Luca tra i nostri collaboratori, perché ci siamo limitati a sostenere la sua tesi di laurea. Luca sarebbe stato ben lieto di lavorare in Agcom ed in Rai, ma ha presto compreso che, con un “capitale relazionale” debole, sarebbe stata una intrapresa assai ardita oltre che ardua. Nel suo giro familiare, emergeva infatti un deficit significativo: assenza di parentele o clientele con ministri, sottosegretari, cardinali, segretari di partito…

E, in quegli anni, Viale Mazzini non promuoveva bandi per assunzioni di cervelli giovani. Abbiamo consigliato a Luca: “resta in Italia, ma attrezzati di santissima pazienza ed infinita ostinazione, i numeri li hai, ma sappi che dovrai faticare tanto; se vuoi faticare meno, non hai altra soluzione che andare nel Regno Unito, in Usa, in Francia…”.

Luca ha pensato bene di emigrare nel Regno Unito, recependo il nostro rattristato consiglio: dapprima Research Fellow al Centre for European Policy Studies (Cesp) di Bruxelles, è stato poi Economic Advisor nelle due autorità britanniche sulle tlc ed i media, Oftel e Ofcom, per poi divenire esperto nazionale presso la Dg Competition della Commissione Europea. Giunto a quei livelli, una qualche nostalgia per l’Italia l’ha riportato per qualche anno nelle nostre lande, chiamato come Chief Economist da Sky Italia.

Ricordiamo ancora che ci raccontò che furono molti i colloqui prima dell’assunzione, ma che il “decision making” fondamentale della selezione non fu sviluppato a Roma, bensì a Londra.

Siamo convinti che, se Luca avesse bussato, in Italia ovvero dall’Italia, alle porte di Sky Italia, probabilmente non avrebbe ottenuto nemmeno un colloquio. Sicuramente, una sua email a Rai o Mediaset, all’inizio della sua carriera, non avrebbe provocato il desiderio di conoscerlo: abbiamo toccato con mano la delusione di decine di ottimi ricercatori che hanno tentato colloqui, senza ricevere nemmeno uno straccio di risposta di cortesia, da italiche istituzioni e grandi imprese. Dopo l’esperienza italiana, Luca ha poi deciso di tornare a lavorare in Commissione Europea, ove attualmente si interessa di antitrust ed economia industriale in materia di energia, proprietà intellettuale ed information technology. Perché Luca non è dirigente Agcom?!

Sia ben chiaro: lungi da noi far di ogni erba un fascio.

Anche in Italia, con grande pazienza ed infinita testardaggine, si riesce a trovar lavoro, e talvolta ben riconosciuto, apprezzato, remunerato, anche nel settore dei media (e della cultura in genere). Anche se, spesso, i migliori cervelli finiscono per essere dirottati su… binari morti, dato che, in molte italiche carriere, prevale la relazionalità sul merito.

Potremmo proporre almeno una decina di casi, ma non vogliamo mettere in imbarazzo o provocare fastidio in bravi professionisti, le cui capacità sono oggettivamente sottodimensionate da frustranti percorsi di carriera che non hanno premiato certo la qualità del loro lavoro.

Il problema di fondo, in Italia, è la stramaledetta fatica necessaria per superare le “barriere all’entrata” e – semmai superate – la vischiosità dei processi carrieristici. Il problema è senza dubbio più grave nel “pubblico” – dalla Rai all’Agcom – che nel “privato” – dalle tv commerciali alle case editrici – ma riguarda l’intero “sistema” delle industrie culturali e creative italiane.

Le cause di questa “società chiusa” sono varie, prima tra esse il cosiddetto “familismo amorale” (concetto sociologico introdotto nel 1958 dal politologo americano Edward Banfield, che non a caso prese spunto da studi condotti in un paesino della Lucania particolarmente arretrato), ovvero l’assenza di un ethos comunitario, di relazioni sociali trasparenti, di una cultura meritocratica, di una pubblica amministrazione deburocratizzata.

A distanza di oltre cinquant’anni da quegli studi sul campo, crediamo che una qualche ricerca sulla formazione della classe dirigente delle industrie culturali e creative italiane – ovvero sull’arretratezza dei suoi processi selettivi – potrebbe fornire stimoli interessanti per una riflessione critica complessiva sul nostro Paese.

Concludiamo con un’esperienza personale, che crediamo sintomatica: nella nostra gioventù, abbiamo tentato 3 volte 3 di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia (Csc), la più alta accademia di formazione artistico-professionale per i mestieri del cinema e dell’audiovisivo in Italia.

Il concorso veniva bandito ogni due anni, e mediamente gli “eletti” erano circa 50 su oltre 1.000 candidati.

Chi qui scrive poteva allora già vantare studi in economia e commercio alla Luiss, poteva vantare qualche piccolo saggio pubblicato sulle collane del Nuovo Cinema di Pesaro edite da Marsilio, molti articoli giornalistici sull’industria della cultura… La prima volta, non ce l’abbiamo fatta, e nemmeno la seconda. Al terzo tentativo, abbiamo avuto il piacere di essere classificati al 6° posto, per i sei borsisti ammessi per il corso di “Organizzazione della produzione cinematografica ed audiovisiva”. Giunge il telegramma: “ammesso”, grande contentezza.

Passano due settimane, e perviene un altro telegramma, che ci segnala che il Consiglio di Amministrazione del Csc aveva deciso di “riallocare i posti a bando”, per cui i posti per “Produzione” non erano più 6 bensì 5, ed i posti per “Regia” passavano da 6 a 7! Un caro amico – sociologo ma dotato anche di laurea in giurisprudenza, e con esperienza di ricorsi amministrativi in ambito accademico – mi sconsigliò il lungo ricorso al Tar, e mi aiutò a redigere una precisa “memoria legale” che evidenziava la scorrettezza inequivocabile della procedura selettiva, e prospettava finanche una denuncia alla magistratura, per il rischio di eventuali profili penali.

Fui convocato al Csc, e mi fu proposto di entrare come… “stagista”.

Manifestai la mia contrarietà, e, dopo travagliata riunione del Cda, fui “ri-ammesso”, a pieni titoli, finanche con scuse formali da parte dell’allora Presidente del Centro, il decano dei critici cinematografici italiani, quel compianto Giovanni Grazzini per decenni firma alta del “Corriere della Sera”.

Si dirà, “un caso qualsiasi, non sintomatico” di una complessiva mala gestione del sistema.

Sarà.

Però un allora membro del cda del Csc, il produttore Mario Gallo (titolare della Filmalpha, e – tra l’altro – scopritore di Nanni Moretti, anche lui ci ha lasciato qualche anno fa), mi raccontò… alcuni dettagli del “dietro le quinte”, ovvero che il Consiglio di Amministrazione prendeva certamente in considerazione i titoli e gli elaborati dei candidati, valutava l’esito dei colloqui, ma non poteva non prendere in considerazione anche le… “stellette” (?!).

Il sistema era infatti così codificato, convenzionalmente (anche le raccomandazioni vanno trattate con metodo, no?!): 3 “stellette” per candidato segnalato da ministro o segretario di partito, 2 “stellette” da sottosegretario ovvero cardinale, 1 “stelletta” da parlamentare qualsiasi o comunque segnalatore ritenuto importante dalla commissione.

Zaccone Teodosi, nel suo dossier – ahinoi – non aveva nemmeno 1 stelletta. Ed invece un candidato a regia emerse con tardiva stelletta, per cui fu necessario “riallocare” il posto di Zaccone a favore del tardivamente raccomandato… Queste vicende accadevano trent’anni fa, eravamo nella Prima Repubblica. Un ottimista renziano sosterrebbe che “queste cose” non accadono più. Non ne siamo convinti.

Così come siamo convinti che i tentativi della pugnace Roberta D’Alessandro di penetrare il sistema accademico e della ricerca italiano si siano scontrati con il solito “muro di gomma” di un’Italia che resta prevalentemente un sistema chiuso, familistico, clientelare, a-meritocratico. In Italia, il merito è spesso l’eccezione, non la regola: ed è un accessorio, non l’essenziale!

Come sostiene D’Alessandro nell’intervista pubblicata oggi da “il Fatto Quotidiano”, un 10% di clientela raccomandatizia c’è verosimilmente anche nei Paesi Bassi, ma in Italia la quota “raccomandatizia” è della “metà”. Una percentuale intollerabile e soffocante.

Crediamo che sia tutta da scrivere la storia di un Paese che non sa investire su giovani, e quindi sul proprio futuro.

Una parte importante del “capitale umano” italiano fugge all’estero, tanta è la disperazione per le caratteristiche del sistema nazionale.

I segnali sono evidenti da anni, forse decenni: ci limitiamo a ricordare che nel 2009 la casa editrice San Paolo dava alle stampa “La fuga dei talenti. Storie di professionisti che l’Italia si è lasciata scappare”, di Sergio Nava, “un viaggio-denuncia nell’Italia che esilia i suoi talenti migliori e i suoi professionisti più preparati, lasciando le posizioni di comando nelle mani di una “casta” che privilegia due categorie di persone: i raccomandati e gli arrivisti sociali”.

Il blog di Nava, a distanza di anni, continua a testimoniare dinamiche inquietanti, ed i “file” aumentano. Qualche anno prima, nel 2001, Augusto Palombini aveva pubblicato “Cervelli in Fuga – Storie di menti italiane fuggite all’estero”, Avverbi Editore, e nel 2005 “Cervelli in Gabbia – Disavventure e peripezie dei ricercatori in Italia”, entrambi con prefazione di Piero Angela…

La “mobilità intellettuale” non è, in sé, un dramma, ma quando i dati quali-quantitativi evidenziano fenomeni di fuga di talenti di queste dimensioni (nell’ambito della ricerca così come delle arti), una profonda riflessione critica deve essere avviata.