Fino a dieci anni fa il business che muoveva il mondo si chiamava petrolio. Era l’oro nero a determinare il valore delle imprese e a garantire fortune miliardarie. Oggi quel ruolo è passato al digitale. A guidare la classifica dei colossi globali non ci sono più Exxon o Shell, ma Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet, Meta, Tesla, il cui valore di mercato, in alcuni casi, è anche maggiore del PIL delle nazioni più ricche. Un cambio epocale, che ha trasformato radicalmente gli equilibri economici e politici globali.
Eppure, in Italia, le aziende sembrano ancora lontane dal comprendere appieno questa rivoluzione. Su un campione di oltre 400 imprese analizzate dalla Luiss Business School, soltanto il 14% ha una reale consapevolezza del potenziale della Business Intelligence. E tra queste, più dei tre quarti appartengono ai settori ICT e telecomunicazioni, lasciando indietro comparti come costruzioni, logistica e manifattura.
Il dato come asset strategico
Il tema è stato al centro dell’evento “Il dato intelligence come asset strategico”, organizzato nella prestigiosa Villa Blanc, a Roma, nell’ambito della Rome Future Week, la settimana capitolina dedicata all’innovazione e alla tecnologia. A guidare il confronto diverse voci d’eccezione, tra cui Giuseppe F. Italiano, Prorettore per l’Artificial Intelligence e Digital Skills dell’Università Luiss Guido Carli, Matteo Caroli, Associate Dean per la sostenibilità e l’impatto della Luiss Business School, e Renato Loiero, consigliere alla Presidenza del Consiglio ed ex Direttore dei Servizi di Bilancio del Senato.
“It’s a digital world”, verrebbe da dire parafrasando una nota espressione. “In pochissimo tempo – ha sottolineato Italiano – siamo passati da un’economia dominata dal petrolio a una dominata dal digitale. Non significa che le compagnie petrolifere abbiano perso peso: continuiamo a guidare auto, a riscaldare le case, a consumare energia. Ma il valore delle aziende si è spostato: da realtà che valevano centinaia di miliardi a colossi tecnologici che oggi valgono diversi trilioni. È un cambio senza precedenti nella storia moderna, con enormi implicazioni socio-politiche.”
Secondo il docente, i dati sono oggi la nuova “raffineria”: grezzi non hanno valore, ma una volta integrati e arricchiti possono generare efficienza, decisioni migliori e nuovi modelli di business. “Il problema – ha aggiunto – è che troppe aziende non hanno una strategia chiara. I dati ci sono, ma mancano piattaforme adeguate e soprattutto consapevolezza.”
Lo studio della Luiss Business School, PMI ancora indietro
Le piccole medie imprese italiane sono ancora molto indietro. Lo conferma la ricerca presentata da Matteo Caroli: la Business Intelligence rimane una leva poco sfruttata. Se nelle grandi imprese comincia a consolidarsi, potenziata anche dall’uso dell’intelligenza artificiale, tra le aziende più piccole prevale ancora l’idea che “si conosce già” la propria realtà e non servano strumenti analitici. Una convinzione che rischia di limitare competitività e innovazione.
I dati parlano chiaro:
- 14% delle imprese considera la Business Intelligence molto importante;
- 27% la utilizza in maniera completa;
- 40% non svolge alcuna attività in questo ambito.
Chi ci crede di più? ICT e telecomunicazioni, con il 76% di adozione. Fanalini di coda costruzioni e logistica, ferme rispettivamente al 35% e 33%.
Sul fronte investimenti, il 44% dichiara di aver già speso abbastanza e di voler incrementare le risorse nei prossimi anni. Un 13,4% afferma di aver investito molto. Il potenziale, dunque, non manca: servono però formazione e supporto consulenziale per trasformare i dati in un vantaggio competitivo reale.
Oltre il numero, la cultura del dato
Come ha ricordato Renato Loiero, consigliere alla Presidenza del Consiglio, “non tutto ciò che può essere contato conta”. La sfida non è raccogliere quantità sempre maggiori di dati, ma saperli interpretare, governare e tradurre in decisioni strategiche.
Da qui due condizioni fondamentali:
- Qualità del dato, per garantire analisi affidabili.
- User experience, perché gli strumenti devono essere semplici, chiari ed efficaci per manager e imprenditori.
Ma soprattutto serve una nuova cultura del dato. Una cultura che non si limiti a usare strumenti di analisi per fotografare il presente, ma che sappia sfruttare intelligenza artificiale e algoritmi predittivi per anticipare scenari futuri.
La situazione in Italia
Il quadro restituito dalla Luiss Business School è quello di un Paese che rischia di restare indietro. Eppure, paradossalmente, proprio l’Italia potrebbe giocare un ruolo di rilievo. “Le macchine possono analizzare – ha ricordato Italiano – ma siamo noi a guidare l’evoluzione. L’Italia ha un vantaggio unico: la creatività, la capacità di immaginare. Un valore che resta imprescindibile nell’era digitale.”
In altre parole, non vince chi corre più veloce, ma chi corre nella direzione giusta. E i dati, se usati con intelligenza, possono essere la bussola.