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Il cinema in sala muore (-70 % di incassi) ma il Governo resta a guardare

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Pubblicata la anemica “Relazione sul Fondo Unico per lo Spettacolo” (Fus): 338 milioni di euro di sovvenzioni allo spettacolo, a fronte dei 750 milioni a cinema e audiovisivo. Una scialba fotografia, non la base per un dibattito pubblico e plurale sui finanziamenti pubblici alla cultura

Nonostante la notevole massa di danari pubblici che il Governo sta iniettando nel sistema cinematografico ed audiovisivo (nel 2021, si è arrivati a ben 750 milioni di euro, come rivendica con orgoglio il titolare del Ministero della Cultura Dario Franceschini), la fruizione di film nelle sale cinematografiche italiane sta registrando risultati che definire… sconfortanti è un eufemismo: senza dubbio, la mazzata finale è stata determinata dai recenti provvedimenti dell’esecutivo, che hanno imposto, oltre al cosiddetto “super green pass” anche la mascherina di tipo Ftp2, ed hanno vietato la somministrazione di cibo e bevande (vedi “Key4biz” del 21 dicembre 2021, “Super green pass e tampone anche per andare al cinema?”).

Secondo le elaborazioni Cinetel, gli incassi degli ultimi giorni registrano un – 70 % rispetto al “box office” dello stesso periodo dell’anno pre-pandemico 2019: se le prossime settimane confermeranno questo trend – e non ci sono segnali di prevedibile controtendenza – lo scenario è semi-letale per il cinema italiana (chi vuole approfondire tecnicamente, consulti il sito specializzato CineGuru Screenweek, curato da esperti del calibro di Robert Bernocchi e Davide Dellacasa). Il sito specializzato MyMovies titolava sabato scorso, lapidariamente, “Crollo verticale degli incassi”.

Come temevamo, in assenza di una robusta campagna promozionale, che il Ministero della Cultura avrebbe dovuto promuovere, si assiste al requiem del cinema in sala. 

Abbiamo più volte, anche su queste colonne, proposto al Ministro Dario Franceschini di mettere a disposizione almeno 10 se non 20 milioni di euro per una seria campagna promozionale all’altezza della crisi in atto, coinvolgendo attivamente anche la Rai Radiotelevisione Italiana spa (che tra le sue “mission” ha anche quella di sostenere l’industria cinematografica nazionale). 

La mano pubblica (Ministero e Rai) dovrebbero comprendere che non basta far crescere la quantità di film prodotti: si deve stimolare il pubblico ad andare a vederli: in primis al cinema!

Da inizio pandemia, anche se queste colonne, dedichiamo attenzione alla sostanza (le decisioni) ed alla forma (la comunicazione) del “policy making” governativo, ed anche i provvedimenti delle ultime settimane confermano lo stato confusionale e le continue contraddizioni dell’esecutivo guidato da Mario Draghi: ci domandiamo se esista una logica nell’assunzione di alcune decisioni, o se, ancora una volta, prevalgano gli aspetti emotivi. Altro che “scienza e coscienza”: si assiste ad un balletto di contraddizioni, ad una continua improvvisazione al governo. Nasometria.

La chiusura totale imposta alle discoteche può essere in parte compresa, anche se potevano essere assunti provvedimenti di prevenzione sanitaria meno radicali, ma le nuove ridicole imposizioni imposte ai cinematografi (in sintesi, stop ai popcorn!) si caratterizzano per una incapacità di comprendere come funzionano alcune dinamiche sociali (la vita reale): vorremmo sapere da quanto tempo il Ministro Roberto Speranza, il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) Silvio Brusaferro ed il Coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico (Cts) Franco Locatelli non mettono piede in una sala cinematografica… 

Intanto, a proposito di cinema ed audiovisivo, non viene ancora pubblicata la “valutazione di impatto” della Legge Cinema ed Audiovisivo, della quale sono state date alcune anticipazioni ormai due mesi fa, in occasione della Festa del Cinema di Roma (vedi “Key4biz” del 21 ottobre 2021, “Legge cinema e audiovisivo: presentata la valutazione di impatto”): le ragioni di questo ritardo sono veramente incomprensibili, e ci si domanda – ancora una volta – se non sia opportuno che questo rapporto di ricerca venga presentato in modo adeguato, stimolando un dibattito pubblico e plurale sui risultati della valutazione. 

Alcuni osservatori sono infatti convinti che l’iniezione di risorse pubbliche stia determinando una “inflazione” di prodotti (sovrapproduzione) che non trovano sbocco sul mercato: certamente, la gran parte dei film cinematografici “made in Italy” (oltre 200 lungometraggi ogni anno, ormai) realizzati con il sostegno (determinante) dello Stato non arriva nelle sale cinematografiche, e forse una riflessione critica in argomento sarebbe opportuna. 

Per “chi” viene prodotta questa novella cinematografia nazionale?!

È di ieri invece la notizia che è stata finalmente pubblicata, sul sito web della Direzione Generale dello Spettacolo (retta da Antonio Parente) e della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo (retta da Nicola Borrelli) del Ministero della Cultura, la tradizionale “Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo e sull’andamento complessivo dello spettacolo”, relativa all’anno 2020. 

Il documento viene redatto ai sensi dell’articolo 6 della Legge n. 163 del 30 aprile 1985, la famosa cosiddetta “legge madre” sullo spettacolo (“madre” perché avrebbe dovuto figliare leggi di settore, che, a distanza di decenni, non hanno visto la luce, se non per quanto riguarda il cinema, nel 2016, con la legge cosiddetta Franceschini, e nel 2017 per lo spettacolo dal vivo).

Il Ministro della Cultura presenta ogni anno al Parlamento una relazione sull’utilizzazione del Fus, nonché sull’“andamento complessivo” dello spettacolo.

Conosciamo da decenni questa dinamica, e da tanti anni andiamo denunciando – “vox clamantis in deserto” – l’assurdità di un documento che resta sostanzialmente chiuso nei cassetti ministeriali: in verità, grazie al web, da qualche anno, esso viene messo a disposizione della comunità professionale, ma permane sostanzialmente un rapporto di ricerca semi-clandestino.

La Relazione sul Fus non viene mai presentata (discussa) pubblicamente. 

Il Ministero la trasmette al Parlamento.

Gli uffici parlamentari diligentemente protocollano ed archiviano. 

Non un comunicato stampa. Non un dibattito parlamentare. Non un pubblico convegno.

A cosa serve, quindi, questa benedetta “Relazione sul Fus”?! 

Da alcuni anni, soltanto chi redige questa rubrica dedica attenzione giornalistica alla Relazione: per il resto, silenzio assoluto, disinteresse totale. Dei giornalisti e delle lobby e dell’accademia.

Sulla relazione in questione (sulla precedente, relativa all’anno 2019), l’unico commento è infatti stato pubblicato giustappunto, oltre un anno fa, da “Key4biz” del 17 settembre 2020: vedi “Pubblicata la relazione Fus, ma manca la valutazione d’impatto”. 

Incredibile, ma vero. Ce ne potremmo fare (triste) vanto.

I maligni sostengono che questo silenzio assoluto è determinato da due concause: i beneficiati delle sovvenzioni pubbliche se le tengono belle strette, e non hanno interesse a che si scateni un pubblico dibattito; chi è escluso dalle sovvenzioni, è ormai rassegnato alla dinamica in atto, e non si lamenta (se non in privato), confidando che, “al prossimo giro”, possa entrare nella eletta schiera dei beneficiati…

Un meccanismo malato anzi perverso, rispetto al quale le voci in dissenso sono rare. 

Federico Mollicone (Fratelli d’Italia): “il Fus, viziato da un’assegnazione clientelare dei fondi”

In argomento, va segnalato quel che ha scritto recentemente il Responsabile Cultura di Fratelli d’Italia, il deputato Federico Mollicone, sul mensile “Cultura Identità” diretto da Edoardo Sylos Labini (nell’edizione in edicola il 3 dicembre scorso): “per la legge delega sullo Spettacolo abbiamo evidenziato la necessità di una radicale riforma che vada a istituire – al posto del Fondo Unico dello Spettacolo – un unico Fondo per le Arti Nazionali. L’emergere di importanti studi di settore – fra cui il prestigioso Istituto Bruno Leoni – affermano che l’erogazione dei fondi Fus è stata viziata da un’assegnazione clientelare dei fondi stessi, basata più sulle relazioni tra gestori e politica che sulla qualità dell’opera finanziata. Un sistema di concorrenza sleale tra beneficiari e non-beneficiari, che non solo porta ad un generale e preoccupante abbassamento della qualità dei progetti artistici, ma anche a una distorsione del mercato culturale italiano”.

Si ricorda che Mollicone ha recentemente dato alle stampe “L’Italia in scena. La cultura, l’innovazione, la pandemia. Tre anni di battaglie fuori e dentro il Palazzo per costruire la Destra di Governo”, per i tipi di Pagine (clicca qui, per la videoregistrazione della presentazione alla Camera, il 29 novembre scorso, su RadioRadicale).

L’Osservatorio dello Spettacolo: depotenziato e definanziato, ormai sostanzialmente inutile

Scrivevamo su queste colonne un anno fa, e ri-scriviamo oggi (senza toccare una virgola): la Relazione è curata dal sempre più debole Osservatorio dello Spettacolo del Ministero, una struttura di ricerca interna istituita ormai 36 anni fa, nell’economia della famigerata legge istitutiva del Fondo Unico per lo Spettacolo(da cui l’acronimo “Fus” giustappunto), nel lontano 1985, fortemente voluto dall’allora ministro, il socialista Lelio Lagorio. Si tratta della legge n. 163 del 30 aprile 1985, che – nel bene e nel male – incredibilmente “governa” ancora – nella sostanza – l’intervento pubblico nel settore.

Il Fondo Unico per lo Spettacolo era stato istituito nel 1985 nel tentativo di ridurre la frammentazione dell’intervento statale, nella prospettiva di una conseguente approvazione di apposite leggi di finanziamento settoriale.

Nelle intenzioni del legislatore, quell’Osservatorio sul Fus doveva divenire lo strumento cognitivo – analitico e predittivo – delle politiche pubbliche in materia di spettacolo, ovvero il laboratorio tecnico di valutazione degli effetti dell’intervento pubblico nel settore… 

Quella legge nasceva in un periodo storico del nostro Paese nel quale molti – soprattutto negli ambienti governativi dell’allora Partito Socialista (Psi) – credevano nel concetto tecnico di “programmazione”, soprattutto di “programmazione economica”…

L’Osservatorio dello Spettacolo non è però mai divenuto realmente quel che la legge avrebbe voluto, ed ha finito per essere corresponsabile – nel corso del tempo – del perdurante deficit cognitivo complessivo del sistema: questo deficit cognitivo è una delle concause del carattere conservativo ed inerziale di gran parte delle politiche culturali italiane. 

La patologia riguarda infatti non soltanto lo spettacolo, ma anche settori come l’editoria, la fonografia, la multimedialità, etcetera.

Nel corso del tempo, la funzione dell’Osservatorio è stata depotenziata, il suo budget è stato definanziato, e la sua attività è stata ridotta a poco più di una rendicontazione contabile (peraltro assai sommaria), con un approccio ragionieristico di modestissima concreta utilità. 

La Relazione sul Fus si pone quindi, ormai da anni, come una scialba fotografia, uno smorto resoconto quantitativo.

Il documento è curato dal funzionario ministeriale Fabio Ferrazza (presso la Dg Cinema e Audiovisivo, paradossalmente), che onestamente precisa anche quest’anno che la relazione è “un testo di tipo descrittivo” (pag. 23): evidente e dichiarata la totale assenza di approccio analitico-critico.

La Relazione dovrebbe oggetto – in un Paese normale – di una pubblica presentazione e di un dibattito plurale, ed invece non viene degnata nemmeno di un intervento del Ministro (nemmeno una “prefazione”, che in fondo non si nega a nessuno…).

Invece… nemmeno un comunicato stampa! 

Un atto rituale, un adempimento burocratico. Senza dimenticare un layout grafico discretamente arcaico, che certo non invoglia alla lettura (nonostante il tomo rechi un’indicazione di stampa a cura di Gangemi Editore, che pure è editore di qualità.

Come dire?! Lo prevede la legge, si è “costretti” a produrla, ma tanto – ormai si sa negli ambienti professionali e politici – nessuno la degna di attenzione.

La Relazione sul Fus: polvere (digitale) nei cassetti ministeriali e parlamentari

Si ricordi che la legge istitutiva del Fondo Unico per lo Spettacolo (la n. 163 del 1985) aveva previsto la seguente ripartizione dell’allora “fondo unico”: 42 % agli enti lirici, 25 % al cinema, 15 % al teatro, 13 % alla musica e danza, 1,5 % ai circhi e spettacoli viaggianti, 3,5 % per il funzionamento degli organi istituzionali ed altre spese. Dal 1989, la ripartizione è decisa dal Ministro, sentito l’organo consultivo Consiglio Nazionale dello Spettacolo. Dal 1998, è stata introdotta una aliquota specifica per la danza.

Nel 2020, il Fus ha avuto un budget di 339 milioni di euro, così ripartiti: 52,4 % alle fondazioni lirico-sinfoniche (177,5 milioni di euro), 21,0 % al teatro (71,3 milioni), 17,9 % alla musica (60,8 milioni), 3,5 % alla danza (11,9 milioni), 2,6 % ai “progetti multidisciplinari” e ai “progetti speciali” ed “azioni di sistema” (8,7 milioni), 1,6 % a circhi e viaggianti (5,4 milioni), 0,9 % a “residenze” ed “under 35” (2,9 milioni), e lo 0,15 % per l’Osservatorio dello Spettacolo (ovvero 505mila euro).

Dall’anno 2017, il settore cinema non è più parte del Fus, e gode di una dotazione autonoma, fissata nel livello minimo di 400 milioni di euro. 

Senza dubbio, il settore cinematografico ed audiovisivo ha beneficiato molto, moltissimo, dallo scorporo dal Fus.

Nell’ultimo anno pre-Legge Cinema e Audiovisivo (esercizio 2016), il Fus aveva avuto uno stanziamento di 407 milioni di euro complessivamente (cinema incluso). 

Nel 2017, dopo lo scorporo del cinema, scende a quota 334 milioni, ma il cinema ed audiovisivo beneficia di 400 milioni di euro.

Su queste “ripartizioni” (a livello “macro” tra “spettacolo dal vivo” e “cinema e audiovisivo”, e poi all’interno dei due macro-settori), dovrebbe essere sviluppato un ragionamento critico complessivo (dopo una seria analisi di valutazione di impatto), ma il tema non sembra essere all’ordine del giorno del Governo e del Parlamento.

Complessivamente, lo Stato italiano sostiene lo spettacolo (incluso il cinema) per circa 750 milioni di euro all’anno.

Il Fus: secondo l’Osservatorio dello Spettacolo, la dotazione è scesa del 62 % dal 1985 al 2020 

Secondo i calcoli dell’Osservatorio, dal 1985 al 2020, il Fus a valore costante (“milioni di euro” a prezzi 1985) sarebbe calato del 62 % (dai 364 milioni del 1985 ai 138 milioni del 2020), ma il dato è falsato dallo scorporo del cinema. 

Il dato corretto è quello relativo all’ultimo anno dell’effettivo fondo “unico”, il 2016: in quell’anno, il Fus era (“prezzi 1985”) a quota 164 milioni di euro, a fronte dei 364 milioni del 1985, con un calo, quindi del 55 %.

Se però si affiancano ai 334 milioni correnti del 2017 anche i 400 milioni del cinema, si arriva ad un totale di 734 milioni di euro, che grosso modo corrisponde a 300 milioni di euro a prezzi 1985: di fatto, nonostante la recente forte iniezione a favore del cinema, dal 1985 al 2020 i sostegni pubblici allo spettacolo hanno complessivamente registrato un calo di circa il 20 % dal 1985 ad oggi.

5 Regioni assorbono la metà del Fus. Il Lazio, da solo, un 14 %, a fronte di una popolazione che è il 10 % di quella nazionale. Briciole alla Basilicata

Il totale dei contributi assegnati nel 2020 è stato di 824, con una concentrazione territoriale impressionante: primeggia la Lombardia (16,2 %), seguito dal Lazio (14,3 %), dall’Emilia Romagna (8,8 %), dalla Toscana (8,6 %), dalla Campania (7,0 %)… 

Queste 5 Regioni assorbono, da sole, il 50 % del numero totale di contributi assegnati (824) dal Fus, e già questo dato dovrebbe stimolare una riflessione critica sugli squilibri territoriali dell’intervento della mano pubblica. 

Il caso del Lazio è eclatante: conquista un 14 % del totale del Fus, a fronte di una popolazione regionale che corrisponde soltanto al 9,7 % del totale nazionale. 

All’estremo opposto, la Basilicata: è piccola, è vero, ha una popolazione di poco inferiore all’1 % nazionale, ma beneficia soltanto dello 0,2 % del Fus (dicesi zero-virgola-due!). Ciò basti.

Questi ed altri potrebbero essere gli stimoli che potrebbero provocare una sana discussione, pubblica civile politica, sulla semi-clandestina Relazione. 

Una parte significativa della Relazione (da pagina 165 a 197) è dedicata a “Lo spettacolo in Italia”, e propone una serie di dati che non ci sembra aggiungano alcunché rispetto alle elaborazioni della Siae – Società Italiana Autori e Editori, che, a sua volta, ha al proprio un interno un suo “Osservatorio dello Spettacolo”, che produce da decenni un suo studio annuale, denominato l’“Annuario dello Spettacolo”, la cui ultima edizione, relativa all’anno 2020, è stata presentata il 27 aprile 2021 (vedi “Key4biz” del 28 aprile 2021, “Siae, il 2020 ‘annus horribilis’ per la cultura italiana (-76% di pubblico)”. Francamente, non si comprende il senso di questa duplicazione (peraltro, in questo capitolo della Relazione sul Fus, il cinema, che era uscito dalla porta, rientra – incomprensibilmente –dalla finestra, almeno come andamento dei consumi): il dataset della Siae è peraltro ricchissimo e potrebbe essere oggetto di ulteriori analisi ed approfondite elaborazioni.

Un terzo della Relazione sul Fus, da pagina 199 a 286, è dedicata ad una “Appendice”, che propone l’elenco di tutti i contributi assegnati: ancora una volta, si riproduce la patologia tante volte denunciata su queste colonne (ed altre ancora): si riporta semplicemente il soggetto beneficiario, la sede ed il contributo, senza alcuno specifico riferimento all’attività svolta (se non genericamente, per indicatori macro, per il settore di riferimento). Ennesima riproduzione del fenomeno della “trasparenza a metà”.

Alcuni semplici quesiti, all’attenzione di Governo e Parlamento, per una auspicabile valutazione di impatto dell’intervento della mano pubblica nel settore culturale

Sarebbe tanto complicato proporre un dataset che indichi sinteticamente (finanche telegraficamente) di quale attività, iniziativa, progetto, si tratta in relazione allo specifico contributo?! 

Sarebbe tanto complicato evidenziare un link ad una pagina web che sintetizzi di cosa diavolo si tratta o almeno un collegamento al sito web del soggetto beneficiario?! 

Sarebbe tanto complicato ragionare in una logica di “open data” e di trasparenza nella gestione dei finanziamenti pubblici?!

Sarebbe tanto complicato correlare i dati delle sovvenzioni con i dati della fruizione da parte dei cittadini, e finanche con una analisi qualitativa (basata per esempio su un digesto delle recensioni dei critici settoriali)?!

Ci auguriamo che Parlamento e Governo riescano prima o poi a cogliere l’importanza di queste istanze.

Se non si produce un “sistema informativo” trasparente ed accurato, è impossibile – ribadiamo: impossibile! – consentire valutazioni di impatto, analisi che incrocino la “domanda” con l’“offerta”, che consentano di comprendere se la mano pubblica alloca in modo adeguato (efficiente ed efficace) le risorse dei cittadini (perché – ricordiamo – tali sono, in fondo).

E quindi il “governo del Fus” continua ad essere basato su logiche conservative ed inerziali, con “variazioni sul tema” determinate dalle discrezionalità delle “commissioni di esperti” (che – ricordiamolo – sono nominati, “de facto”, dal Ministro “pro tempore”).

Nessuna valutazione d’impatto: nessuna chance di identificare e correggere quindi le storture di un sistema che certamente coloro che ne beneficiano non hanno interesse ad identificare e svelare. 

Che tutto resti coperto dalla cortina di nebbia, così il “manovratore” può continuare ad operare indisturbato.

Clicca qui, per la “Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo e sull’andamento complessivo dello spettacolo (anno 2020)”, curata dall’Osservatorio dello Spettacolo del Ministero della Cultura, Mic Dgca, Roma, 27 dicembre 2021