Spettacolo

Pubblicata la relazione FUS, ma manca la valutazione d’impatto

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Pubblicata la relazione ministeriale sul “Fondo Unico per lo Spettacolo”, 346 milioni di euro di sovvenzioni statali nel 2019 (a fronte dei 400 al cinema) ma manca l’approccio critico e la valutazione di impatto.

Questa mattina è stata pubblicata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact) la “Relazione sul Fus”, ovvero – più esattamente – la “Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo e sull’andamento complessivo dello spettacolo” per l’anno 2019, un tomo di quasi 300 pagine, reso disponibile in contemporanea sia sul sito web della Direzione Generale Spettacolo dal Vivo (diretta da Onofrio Cutaia) sia sul sito della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo (diretta da Nicola Borrelli).

Si tratta di un rapporto che meriterebbe grande attenzione, sia da parte degli operatori del settore, sia da parte delle istituzioni, e che invece non gode di alcuna ricaduta mediatica.

La Relazione è curata dal sempre più debole Osservatorio dello Spettacolo del Ministero, una struttura di ricerca interna istituita ormai 35 anni fa, nell’economia della famigerata legge istitutiva del Fondo Unico per lo Spettacolo (da cui l’acronimo “Fus” giustappunto), nel lontano 1985, fortemente voluto dall’allora ministro, il socialista Lelio Lagorio. Si tratta della legge n. 163 del 30 aprile 1985, che – nel bene e nel male – incredibilmente “governa” ancora l’intervento pubblico nel settore.

Il Fondo Unico per lo Spettacolo era stato istituito nel 1985 nel tentativo di ridurre la frammentazione dell’intervento statale, nella prospettiva di una conseguente approvazione di apposite leggi di finanziamento settoriale (la legge istitutiva del Fus era stata non a caso soprannominata “legge madre”), leggi che sono giunte in porto a distanza di molti decenni, soltanto nel 2016 per il cinema e soltanto nel 2017 per lo spettacolo dal vivo.

Nelle intenzioni del legislatore, quell’Osservatorio sul Fus doveva divenire lo strumento cognitivo – analitico e predittivo – delle politiche pubbliche in materia di spettacolo, ovvero il laboratorio tecnico di valutazione degli effetti dell’intervento pubblico nel settore… Quella legge nasceva in un periodo storico del nostro Paese nel quale molti – soprattutto negli ambienti governativi dell’allora Partito Socialista (Psi) – credevano nel concetto tecnico di “programmazione”, soprattutto di “programmazione economica”…

L’Osservatorio non è però mai divenuto realmente quel che la legge avrebbe voluto, ed è stato corresponsabile del deficit cognitivo complessivo del sistema: questo deficit cognitivo è una delle concause del carattere conservativo ed inerziale di gran parte delle politiche culturali italiane. La patologia riguarda infatti non soltanto lo spettacolo, ma anche settori come l’editoria, la fonografia, la multimedialità, etcetera.

L’Osservatorio dello Spettacolo: depotenziato e definanziato

Nel corso del tempo, la funzione dell’Osservatorio è stata depotenziata, il suo budget è stato definanziato, e la sua attività è stata ridotta a poco più di una rendicontazione contabile, con un approccio ragionieristico di modestissima concreta utilità.

La Relazione sul Fus si pone quindi, ormai da anni, come una scialba fotografia, uno smorto resoconto quantitativo.

A pagina 21 del documento, il curatore, Fabio Ferrazza, precisa che la relazione è “un testo di tipo descrittivo”.

Evidente la totale assenza di approccio critico.

La Relazione dovrebbe comunque essere oggetto – in un Paese normale – di una pubblica presentazione e di un dibattito plurale, ed invece non viene degnata nemmeno di un intervento del Ministro.

Nemmeno un comunicato stampa!

Un atto rituale, un adempimento burocratico. Come dire?! Lo prevede la legge, si è costretti a produrla, ma tanto – ormai si sa negli ambienti professionali e politici – nessuno la degna di attenzione.

Polvere (digitale) nei cassetti ministeriali e parlamentari.

E quindi “il governo” del sistema continua ad essere affidato al Ministro “pro tempore”, con un Parlamento che – anche quando decide di intervenire normativamente in modo attivo rispetto all’iniziativa governativa – non dispone della strumentazione tecnica minima indispensabile per comprendere cosa accada realmente nel settore dello spettacolo.

La tabella proposta a pagina 35 della “Relazione” evidenzia alcuni dati che dovrebbero stimolare una riflessione sulla poca attenzione che lo Stato italiano assegna alla cultura e specificamente allo spettacolo.

Nell’arco di 35 anni, lo Stato ha tagliato del 55 % il sostegno allo spettacolo dal vivo

Un dato basti per tutti: considerando il “Fus” non a “prezzi correnti”, bensì – come è giusto fare – a “prezzi costanti” (avendo come base – prezzo fisso – l’anno di istituzione, il 1985), sarebbe passato dai 363,5 milioni di euro del 1985 ai 136 milioni del 2019, con un decremento del 63 %.

Questo dato è impreciso, però, perché dall’anno 2017 non è più compresa la quota destinata alle “attività cinematografiche”, invece presente fino al 2016.

Quindi, una comparazione organica dovrebbe fermarsi all’anno 2016, ultimo di un “Fondo Unico” reale: erano 363,5 milioni di euro nel 1985, erano 164,3 nel 2016, con un decremento (sempre in euro 1985), nell’arco di un trentennio, del 55 per cento.

Un dato che, in sé, la dice lunga su quanto lo Stato italiano abbia a cuore teatro, musica, danza e lo spettacolo dal vivo in generale: un dato che grida vendetta.

Va comunque dato atto che i governi a guida sinistrorsa hanno cercato di compensare i tagli determinati dai governi a guida destrorsa, ma, analizzando le dinamiche nel lungo periodo, emerge comunque il disastro del sostanziale disinteresse statale verso il settore. Soltanto verso il cinema (e l’audiovisivo) il Ministro Dario Franceschini ha mostrato una estrema sensibilità, che ha determinato, dall’anno 2017, un significativo allargamento dei cordoni della borsa.

2016, Legge Franceschini: il divorzio normativo tra “spettacolo dal vivo” e “cinema/audiovisivo”

Nel 2016, c’è stato una sorta di “divorzio” normativo tra cinema e spettacolo dal vivo.

A fine 2016, infatti, quel che doveva essere, dalla genesi, un “Fondo Unico” (“unico” proprio perché si era cercato di ricondurre l’intervento dello Stato nel settore all’interno di una strategia organica di sistema) è divenuto “unico” soltanto nominalmente: dal 2017, è diventato operativo un altro “Fondo” – denominato “Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel Cinema e nell’Audiovisivo” – attraverso la legge cosiddetta Franceschini (legge n.  220 del 14 novembre 2016), che ha “staccato” il settore del cinema (e dell’audiovisivo) dallo “spettacolo”.

Quindi, dal 2017, da un lato, abbiamo “lo spettacolo dal vivo” (teatro, musica, danza, attività circensi…), e, dall’altro lato, “il cinema e l’audiovisivo”: quel tentativo di regia unica e di coordinamento organico tra tutti i settori dello spettacolo è stato completamente vanificato.

È stata una scelta corretta, questa separazione?

Riteniamo di no, perché, se è vero che la cinematografia e l’audiovisivo hanno caratteristiche sempre più “industriali”, un governo complessivo del sistema dello spettacolo andrebbe a beneficiare di un intervento determinato da una strategia organica a favore di tutti i settori (anche con lo sviluppo delle più opportune interazioni e potenziali sinergie, a fronte della attuale compartimentazione).

Strategia organica e sistemica che d’altronde dovrebbe essere radicalmente ri-definita alla luce della “disruption” determinata nell’ultimo decennio dalla digitalizzazione e dal web.

Peraltro, se il cinema, con la legge Franceschini approvata a fine 2016, ha registrato una sorta di “salto di qualità” (a distanza di oltre 50 anni dalla vecchia legge che governava il settore, la n. 213 del 4 novembre 1965), soprattutto a livelli di finanziamenti pubblici (sono stati assegnati al settore ben 400 milioni di euro l’anno), il settore dello spettacolo dal vivo, a distanza di un anno, a fine 2017 ha visto approvare una nuova normativa, che non ci sembra sia stata altrettanto innovativa (né il settore ha registrato un incremento del budget pubblico comparabile a quello della cinematografia).

Nel 2019, lo Stato ha assegnato allo spettacolo dal vivo 345 milioni di euro, a fronte degli oltre 400 del cinema e dell’audiovisivo, per un totale di circa 750 milioni di euro.

Totale assenza di “valutazioni di impatto” nel settore dello spettacolo

In ogni caso, quel che sicuramente manca ad entrambe le nuove leggi (cinema e audiovisivo a fine 2016, spettacolo dal vivo a fine 2017) è la volontà di analizzare veramente a fondo, in modo serio, l’efficacia dell’intervento dello Stato, ovvero le ricadute reali della “mano pubblica”.

Il settore dello spettacolo – così come l’industria culturale tutta – non è mai stato oggetto in Italia di analisi quali-quantitative approfondite, e quindi tutto il “policy making” è stato dettato dai convincimenti contingenti del Ministro di turno e dalla forza delle lobby in campo (in primis, Agis ed Anica, e, più recentemente – per lo specifico audiovisivo – Apa, senza dimenticare ovviamente Confindustria Radio Televisioni).

Abbiamo certezza che nessuno dei ministri che si sono avvicendati al Collegio Romano abbia mai utilizzato la Relazione annuale sul Fus per ragionare veramente sulle modificazioni dell’assetto normativo del sistema… O per mettere mano agli infiniti decreti ministeriali di applicazione delle leggi vigenti: un ginepraio di decine e decine di decreti, una sorta di “cortina fumogena” burocratico-amministrativa, che ostacola la comprensione dei processi decisionali e non consente all’osservatore esterno di comprendere le logiche di assegnazione delle risorse.

E ci piacerebbe sapere quanti dei componenti delle competenti commissioni parlamentari abbiano anche soltanto sfogliato la Relazione sul Fus, e quanti sfoglieranno (leggeranno?!) questa novella, pubblicata oggi…

Elenco di contributi, migliaia di beneficiari, senza una minima descrizione per quali attività: nessuno disturbi il manovratore?

Si segnala anche che quasi un terzo delle 300 pagine della “Relazione Fus” è formata dalla “Appendice B”, intitolata “Elenco dei contributi assegnati a valere sul Fondo Unico dello Spettacolo”: un atto dovuto in termini di trasparenza, ma un documento ancora assolutamente inadeguato, perché, per centinaia e centinaia di beneficiari, viene riportato soltanto il nome del soggetto, la sede (soltanto la Regione, nemmeno la città!), l’entità del contributo, senza alcuna indicazione delle attività oggetto della sovvenzione statale (se non un riferimento generico al “decreto ministeriale” di assegnazione). Incredibile, ma vero: non c’è nemmeno il titolo del progetto, ovvero una indicazione minima descrittiva di perché sono stati assegnate poche migliaia o molte centinaia di migliaia di euro di contributi! Trattasi di trasparenza apparente, non di autentica trasparenza nella gestione della “res publica” culturale.

In questo modo – va rimarcato – nessuno può disturbare il conducente, il regista, il capitano, il manovratore.

In Italia, nessuno ha mai deciso di sviluppare seriamente valutazioni di impatto, ovvero ricerche che consentissero di misurare l’efficacia delle norme e delle sovvenzioni rispetto al tessuto culturale del Paese, né dal punto di vista dell’offerta né dal punto di vista della domanda.

Mai è stata realizzata una ricerca minimamente seria del tessuto imprenditoriale ed industriale del sistema della cultura in Italia.

Mai è stata effettuata una analisi che consentisse di comprendere cosa andassero a determinare nel “sistema” sociale, economico, semantico le sovvenzioni dello Stato.

Nessuno si è mai posto il problema della differenziazione dell’offerta, della estensione dello spettro espressivo, dell’incontro della domanda e dell’offerta nei vari segmenti di mercato, della sperimentazione e dell’innovazione, dell’applicazione delle nuove tecnologie ai processi produttivi, delle conseguenze della diffusione del web nella fruizione

Imminente la terza edizione della “valutazione di impatto” (economico soltanto, però) della Legge Franceschini

Va dato atto che un piccolo, modesto e finora purtroppo inefficace, tentativo di innovazione è stato introdotto dalla “Legge Franceschini”, soprattutto per volontà dell’allora (ed ancora oggi, essendo rientrato nell’incarico nel marzo 2020) Direttore Generale del Cinema e dell’Audiovisivo Nicola Borrelli Borrelli (vedi, in argomento, “Nicola Borrelli torna a guidare la Direzione Cinema ed Audiovisivo”, su “Key4biz” del 3 marzo 2020): è stata prevista, per la prima volta nell’apparato normativo del sistema culturale italiano, una… “valutazione di impatto”.

L’art. 12, comma 6, della legge n. 220 del 14 novembre 2016 (la “Franceschini”, appunto) infatti ha previsto che il Mibact predisponga una “relazione annuale” sullo stato di attuazione degli interventi di cui alla legge con riferimento all’impatto economico, industriale e occupazionale e all’efficacia delle agevolazioni tributarie previste (il tanto decantato “tax credit”). Come si nota, di valutazione di impatto si tratta, senza dubbio, ma tutta la dimensione socio-culturale (che è quella più delicata e strategica, per il sistema, in termini di espressività, ricerca, sperimentazione, pluralismo, e finanche democrazia culturale…) viene trascurata. Ci si concentra soltanto giustappunto sugli aspetti economici, industriali, occupazionali.

È anche vero che, sganciando il “cinema” dallo “spettacolo dal vivo”, la Relazione sul Fus sarebbe stata d’altronde “monca” (ed in effetti così è), e quindi è comunque divenuto indispensabile affiancarle un altro documento. Si segnala però e si lamenta che le due relazioni (“Fus” e “Cinema e Audiovisivo”) non mostrano alcuna interazione. È peraltro curioso (ed anche un po’ paradossale) che l’Osservatorio dello Spettacolo sia allocato – per misteriose ragioni burocratiche – presso la Direzione Cinema e Audiovisivo.

Le edizioni finora pubblicate di questa “relazione parallela” sul cinema (o sorella della “Relazione Fus”) sono state deludenti, ed anche in questo caso si è trattato di documenti semi-clandestini, esattamente (anzi peggio) come per la relazione sul Fus: in effetti, dell’ultima valutazione di impatto della Dg Cinema e Audiovisivo – incredibile ma vero – ha scritto, in tutta Italia, soltanto “Key4biz” (vedi, in argomento, “Dal Cinema America alla Rai, da Cinecittà alla Regione Lazio: 4 casi di scarsa trasparenza”, su “Key4biz” del 26 giugno 2020).

La prima edizione della “valutazione di impatto” della Legge Cinema e Audiovisivo è stata affidata alla società specializzata britannica Olsberg Spi Ltd (con sede a Londra) in rti (raggruppamento temporaneo di imprese) con l’italiana Lattanzio Monitoring & Evaluation, e la seconda edizione a PtsClas spa in rti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nonostante alcuni errori marchiani della seconda edizione (che abbiamo segnalato anche su queste colonne), il Ministero ha deciso di ri-affidare a Cattolica e PtsClas la terza edizione (a fronte di un budget di 100mila euro): non resta che augurarsi che questa volta venga prodotto un rapporto di ricerca all’altezza delle previsioni di legge (e non – come avviene per la “Relazione Fus” – un documento burocratico). Il bando per la terza edizione – prorogato più volte – è scaduto il 20 maggio 2020, ed il decreto direttoriale di assegnazione è stato firmato il 18 giugno 2020: il bando prevedeva che la relazione sulla Legge Cinema e Audiovisivo (relativa all’anno 2019) dovesse essere consegnata entro l’11 settembre 2020, e quindi verosimilmente tra qualche giorno sarà resa di pubblico dominio. Torneremo presto sulla questione, quindi.

Nessuno, infine, si è posto il problema dell’impatto della digitalizzazione rispetto all’assetto (storico e attuale) del sistema culturale nazionale: si osservi quanto sia ancora in ritardo l’intervento normativo italiano anche rispetto alla delicata (e strategica) materia del diritto d’autore (vedi alla voce perdurante “monopolio Siae”)….

Si è governato e si governa inerzialmente e quindi conservativamente.

Si spera che questo andamento “mediterraneo” possa essere prima o poi superato da una auspicabile novella ed innovativa volontà del Governo (o di un Esecutivo che verrà) di dotarsi di una adeguata “cassetta degli attrezzi”.

Si poteva approfittare della “occasione” della pandemia, per mettere radicalmente in discussione tutto l’apparato normativo che regola conservativamente i settori del sistema culturale italiano, dotandosi finalmente di bussole cognitive evolute: purtroppo non è avvenuto, ed ha prevalso ancora una volta il gattopardismo.

Clicca qui, per leggere la “Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo e sull’andamento complessivo dello spettacolo” per l’anno 2019, pubblicata dal Mibact (Dg Spettacolo dal Vivo e Dg Cinema e Audiovisivo) il 17 settembre 2020.