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Guerra Ucraina–Russia: l’Europa diventa zona rossa

Ecco quali sono le aree più instabili del mondo secondo l’Inform Annual Report

Negli ultimi giorni il dibattito internazionale si è riacceso attorno all’ipotesi di un nuovo piano di pace per porre fine alla guerra tra Ucraina e Russia, rilanciato dall’amministrazione Trump. Ma mentre sul piano politico si moltiplicano ipotesi e dichiarazioni, i numeri dell’Inform Annual Report 2024, il rapporto elaborato dall’Unione Europea attraverso il suo sistema di analisi dei rischi umanitari, tracciano un quadro molto più concreto: il conflitto resta uno dei principali fattori di instabilità in tutta la regione europea.

L’effetto domino della guerra in Ucraina

L’indice che misura la gravità attuale delle crisi – una scala da 0 a 5 che registra quanto una popolazione sia già esposta a violenze, sfollamenti e carenze nei servizi essenziali – assegna all’Ucraina un valore di 4,3, tra i più alti al mondo. La Russia, colpita soprattutto dal movimento interno di sfollati, si ferma a 2,7, ma l’effetto domino supera da tempo i confini dei due Paesi. Le nazioni vicine mostrano infatti livelli di pressione crescenti: 2,2 per la Polonia, 1,6 per la Moldova, 1,7 per la Romania, 1,6 per la Slovacchia e 1,2 per l’Ungheria. È la dimostrazione numerica di come la guerra abbia ridisegnato l’asse orientale dell’Europa, spostando fragilità e vulnerabilità anche in contesti non direttamente coinvolti nei combattimenti.

A questi dati si affianca un secondo indicatore, anch’esso rilevato dal report, che non misura la crisi così com’è oggi, ma la sua probabilità di peggiorare: il rischio strutturale. Qui la scala cambia – va da 0 a 10 – e fotografa la combinazione tra instabilità politica, capacità dello Stato di rispondere all’emergenza e vulnerabilità della popolazione. Anche su questo fronte, i numeri non sono incoraggianti: l’Ucraina raggiunge un indice di 5,1, mentre la Russia arriva a 4,4, valori che collocano entrambi i Paesi in fascia alta.

L’Africa è l’area del mondo più martoriata

Chi pensa che le grandi emergenze globali nascano solo da terremoti o alluvioni si sbaglia: oggi il fattore più determinante è l’uomo. Oltre il 70% delle crisi registrate dal 2020 dipende da guerra, violenza o instabilità politica, e nei Paesi coinvolti in un conflitto il rischio umanitario è quasi doppio rispetto al resto del mondo. A pesare non sono solo i combattimenti, ma il contesto in cui avvengono: economie fragili, istituzioni deboli e comunità vulnerabili – sfollati, rifugiati, gruppi senza protezione – che hanno minori strumenti per reagire. È l’intreccio tra instabilità e fragilità strutturale a spingere molte aree oltre la soglia d’emergenza, trasformando le guerre in un moltiplicatore che amplifica ogni altra vulnerabilità, dai servizi sanitari che collassano all’accesso ridotto a cibo e acqua.

Negli ultimi dieci anni il rischio medio globale non è diminuito, ma ha fatto l’esatto opposto: è salito, spinto da un mix sempre più stretto tra conflitti, povertà crescente e fragilità politica. La geografia del rischio è cambiata, ma non in meglio. L’area più colpita resta l’Africa, dove instabilità croniche, governi deboli e violenze armate alimentano crisi che si rinnovano continuamente. Ma a sorprendere è l’andamento delle Americhe, che registrano l’aumento più recente e più netto, trainato dall’espansione delle violenze e dai nuovi flussi di sfollati interni. Anche l’Europa mostra una tendenza in crescita: dopo il 2022, l’invasione russa dell’Ucraina ha spinto l’indice verso l’alto, riportando il continente all’interno delle aree in cui il rischio non è più un’ipotesi teorica, ma un dato misurabile.

Nella parte più alta dell’Inform Risk Index si concentrano i Paesi che affrontano le crisi umanitarie più gravi e persistenti. Come si vede anche dal grafico, in testa c’è la Repubblica Centrafricana, che con un punteggio di 8,7 registra il livello di rischio più alto al mondo. A seguire compaiono la Somalia e il Sud Sudan, entrambe ferme a 8,5, mentre l’Afghanistan raggiunge 8,1. Subito dopo si collocano il Ciad con 7,8 e la Repubblica Democratica del Congo con 7,7. Chiudono la top ten tre crisi ormai strutturali: lo Yemen (7,5), il Sudan (7,3) e Haiti (7,2), seguiti dal Myanmar con 7,1.

Appena sotto questa soglia si trovano però Paesi che restano nella fascia di rischio molto alto. Il Burkina Faso e l’Etiopia si attestano entrambi su 7,0, confermando la pressione crescente sul Sahel e sul Corno d’Africa. Subito dopo c’è un gruppo di Stati comunque critici: l’Iraq, il Mozambico e la Papua Nuova Guinea con 6,7; Kenya, Niger e Nigeria con 6,6; e infine il Pakistan, che raggiunge 6,1. È una distribuzione che mostra con chiarezza come i livelli più alti di instabilità si concentrino soprattutto tra Africa, Medio Oriente e Asia, dove conflitti, fragilità politica e vulnerabilità socioeconomica si sommano e alimentano crisi sempre più difficili da contenere.

L’Inform Risk Index è un ranking internazionale con una scala da 0 a 10. Misura il rischio di crisi umanitarie combinando tre elementi: l’esposizione a conflitti o disastri, la vulnerabilità socio-economica della popolazione e la capacità dello Stato di reagire. Un punteggio alto indica una maggiore probabilità di una crisi intensa e duratura. Superare la soglia del 7 significa entrare nella categoria “molto alto”, dove guerre attive, istituzioni fragili e povertà elevata si sommano e generano instabilità. I dati mostrano un punto chiave: l’area più instabile del mondo non è l’Europa, ma un gruppo di Paesi africani, mediorientali e asiatici che da anni occupano la parte più alta della scala.

Ecco dove la violenza raggiunge i livelli più alti

L’Inform Severity Index, come già detto, è una scala da 0 a 5 che misura quanto è grave, in questo momento, una crisi umanitaria. Quando un Paese supera quota 4, significa che è alle prese con un livello di violenza, instabilità e sofferenza civile già nella fascia più alta possibile. In pratica: sono i fronti di guerra – o di violenza estrema – più pesanti del mondo oggi.

In cima compare il Sudan, che raggiunge un valore di 4,8, in ulteriore aumento. Subito sotto ci sono due conflitti storici e irrisolti: la Somalia e lo Yemen, entrambe ferme a 4,7. A quota 4,6 si collocano la Siria e il Myanmar, mentre tre Paesi condividono un indice di 4,4: il Sud Sudan, l’Afghanistan e la Repubblica Democratica del Congo. Seguono due crisi che continuano a peggiorare: il Venezuela con 4,3, in aumento, e il Ciad con lo stesso livello. L’elenco include poi la Repubblica Centrafricana e Haiti, entrambe a 4,2, e prosegue con Paesi che restano comunque nella fascia di gravità più elevata: la Nigeria con 4,1, la Palestina con 4,1, in aumento, e il Bangladesh, anch’esso a 4,1.

Mezzo secolo di intese per chiudere conflitti

Abbiamo visto quali sono i Paesi più a rischio di guerra. Ma negli ultimi 50 anni sono stati decine gli accordi di pace firmati per porre fine a conflitti sanguinosi e, spesso, civili. Naturalmente non tutti gli accordi sono stati rispettati: alcuni sono falliti del tutto, altri hanno retto solo per periodi limitati. Restano però la prova che quando una guerra inizia è comunque possibile sedersi a un tavolo e tentare di fermarla. Un tema tornato al centro anche in questi giorni, con Donald Trump che, dopo essere intervenuto nel conflitto in Medio Oriente tra Israele e Hamas, sta provando a rilanciare un piano per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina. Ecco, allora, un elenco – non esaustivo – degli accordi di pace firmati negli ultimi anni.

Gli accordi di pace

•Accordo di pace di Nouakchott (1992) – Mauritania e Fronte Polisario

•Accordo di pace di Oslo (1993) – Israele e Palestina

•Accordo di pace di Dayton (1995) – Bosnia-Erzegovina

•Accordo di pace di Good Friday (1998) – Irlanda del Nord

•Accordo di pace di Lomé (1999) – Sierra Leone

•Accordo di pace di Cotonou (2000) – Costa d’Avorio

•Accordo di pace di Pretoria (2002) – Zimbabwe/Congo

•Accordo di pace di Nairobi (2002) – Repubblica Democratica del Congo

•Accordo di pace di Comprehensive Peace Agreement (2005) – Sudan/Sud Sudan

•Accordo di pace di Jeddah (2005) – Yemen

•Accordo di pace di Libreville (2007) – Gabon/Repubblica del Congo

•Accordo di pace di Doha (2012) – Afghanistan/Talebani

•Accordo di pace di Bamako (2015) – Mali

•Accordo di pace di Colombia (2016) – Governo colombiano e Farc

•Accordo di pace di Khartoum (2018) – Sud Sudan

•Accordo di pace di Bougainville (2019) – Papua Nuova Guinea

•Accordo di Doha tra Stati Uniti e Talebani (2020) – Accordo per l’uscita delle truppe americane e l’avvio del processo di pace in Afghanistan

•Accordo di normalizzazione Serbia–Kosovo (2020) – Intesa per la normalizzazione dei rapporti economici mediata dagli Stati Uniti

•Accordi di Abramo (2020) – Accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein

•Accordo di normalizzazione Israele–Sudan (2020) – Avvio delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi

•Accordo di normalizzazione Israele–Marocco (2020) – Ripresa e piena normalizzazione dei rapporti diplomatici

•Accordo di cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh (2020) – Dichiarazione di fine della Seconda guerra del Nagorno-Karabakh tra Azerbaigian, Armenia e Russia

•Accordo di pace di Pretoria / Ethiopia–Tigray Peace Agreement (2022) – Accordo tra governo etiope e TPLF per la cessazione delle ostilità nel Tigray

•Accordo di pace con il Dimasa National Liberation Army (2023) – Accordo firmato in Assam tra governo indiano e gruppi armati DNLA/DPSC

Fonte: Area Studi Mediobanca
I dati sono aggiornati al 2024

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