“L’intervento dell’Autorità è stato dovuto al mancato accordo tra Meta e Gedi, che partivano da cifre incredibilmente distanti. Abbiamo adesso la prova di quanto ho segnalato fin dall’esordio del Regolamento Agcom, ovvero che l’applicazione di un’aliquota fino a 70% crea irrigidimento e polarizzazione delle parti su posizioni contrapposte, alimentando il contenzioso”, dichiara in una nota la Commissaria Elisa Giomi a margine del Consiglio di Agcom in cui si è trattato il tema della determinazione dell’equo compenso dovuto dall’azienda americana al Gruppo editoriale per la condivisione delle sue pubblicazioni su Facebook.
Non solo: “Né l’editore né Agcom, spiega Giomi, sono riusciti a chiarire quali e quante siano le pubblicazioni giornalistiche che Facebook avrebbe utilizzato e per le quali Gedi richiede un corrispettivo, che peraltro avrebbe dovuto essere reso noto prima dell’utilizzo, come accade in qualunque transazione economica”.
La nota prosegue spiegando come il meccanismo di calcolo dell’equo compenso è reso ancora più scivoloso dall’introduzione da parte di Agcom del “tempo speso per informarsi” dagli utenti italiani sulle piattaforme come variabile di riferimento per quantificare i ricavi pubblicitari che le stesse traggono dalle pubblicazioni giornalistiche. “Da studiosa dei media e delle loro dinamiche di consumo – commenta Giomi – prima ancora che da componente Agcom, credo che ciò costituisca un’interpretazione distorta del modello di business basato sull’economia dell’attenzione”.
“Quel tempo infatti non identifica quali e quanti contenuti informativi sono stati fruiti. E, soprattutto, a monetizzare il tempo speso online sulla pubblicazione giornalistica, sotto forma di ricavi da abbonamento o ricavi da pubblicità, sono direttamente gli editori, non le piattaforme. Con queste premesse, il rischio è di trasformare il compenso da equo a forzato, perché sganciato dal reale valore della controprestazione dell’editore”, incalza la Commissaria e prosegue, “e tutto questo avviene proprio nel giorno in cui arriva la valutazione dell’Avvocato generale Ue Maciej Szpunar sul caso Meta/Italia, in vista del pronunciamento della Corte sul ricorso di Meta per annullare una decisione di Agcom, contestando la compatibilità della normativa italiana con il diritto dell’Unione. La valutazione ritiene i poteri attribuiti ad Agcom – compresa la definizione di criteri indicativi di remunerazione – “ammissibili se rimangono in un quadro di assistenza e non privano le parti della loro libertà contrattuale”.
E aggiunge: “In questo caso mi chiedo come sia possibile, per la parte acquirente, che è di nuovo Meta, esercitare libertà contrattuale se il venditore, Gedi, e l’arbitro, ovvero Agcom, non riescono a quantificare le pubblicazioni e quindi a determinare il valore della prestazione o ancor peggio si introducono variabili come il tempo, destinate a fuorviare tale valutazione. In questo modo l’acquirente non è messo in condizione di stabilire la convenienza economica e quindi di esercitare una scelta consapevole di acquisto, come accadrebbe a chiunque di noi che entrando in un negozio non potesse conoscere il prezzo o vedere la merce che gli interessa”.
E conclude: “E’ la stessa Avvocatura generale ad asserire che se gli editori non autorizzassero le piattaforme all’uso delle pubblicazioni sarebbero i primi a farne le spese e continua dicendo che le norme intendono stabilire proprio le condizioni -ovvero i compensi- delle pubblicazioni effettivamente utilizzate. Ma con i criteri introdotti da Agcom, ogni stima del compenso diventa un esercizio metodologicamente errato, ed il trasferimento di denaro da piattaforme ad editori appare arbitrario e forzoso. Anziché fissare il compenso in via amministrativa e su istanza di parte, in violazione della libertà di iniziativa economica e contrattuale dei privati, Agcom avrebbe dovuto al contrario favorire la negoziazione in buona fede, come nello spirito della Direttiva europea. E come io stessa avevo proposto delineando un meccanismo di incentivi a raggiungere un accordo e l’istituzione di un ufficio per la gestione dei tentativi di conciliazioni tra le imprese separato dalla definizione delle controversie”.