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Facebook, Twitter, Trump e la libertà di espressione. Chi ha ragione?

Facebook ha sospeso, e Twitter ha definitivamente cancellato il profilo di Donald Trump (88 milioni di followers). Da quello che ho capito, i passaggi che hanno determinato la cancellazione del profilo sono stati tre: un contenuto inappropriato, l’istigazione alla violenza, e il fatto che all’istigazione sia seguita la violenza stessa (l’attacco a Capitol Hill).

Naturalmente ciò che ha “fatto notizia” non è stato il provvedimento in sé, ma il fatto che oggetto del provvedimento sia stato il Presidente degli Stati Uniti, l’uomo più potente del mondo. Certo un Presidente sconfitto, a pochi giorni dalla cessazione del mandato presidenziale. Ma pur sempre il Presidente degli Stati Uniti.

Un provvedimento – e una realtà – che si colloca in un contesto diverso dal nostro, dove la freedom of speach (il First Amendment del 1791) è garantita dalla Costituzione americana in modo particolarmente forte, e dove l’equilibrio tra pubblico e privato propende per il secondo. Difficile ed illusorio fare paragoni. Già, perché l’esclusione è stata deliberata in base al contratto di “affiliazione” al social, da un organo privato, senza, per quel che ho capito, l’intervento di alcun organo giurisdizionale.

Da noi cosa sarebbe successo?

È pensabile l’esclusione dai social – che so – del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, o di un segretario di partito? Probabilmente l’esclusione di un segretario di partito di opposizione sembrerebbe, ai più, un vulnus al sistema democratico. Una reazione, dunque, di matrice politica. Per l’esclusione Presidente del Consiglio – naturalmente se sussistessero i tre presupposti di cui sopra –  non saprei che dire.

Ma qui, per vero, la democrazia centra poco. È della libertà di espressione di cui stiamo parlando. Noi siamo abituati a che la libertà di espressione sia collegata – e possa essere limitata – solo da un provvedimento giurisdizionale. Il principio va oltre le solite polemiche sulla crisi della giustizia e della magistratura. Il punto è che la il procedimento giurisdizionale garantisce un giusto processo, la presenza di un avvocato, la possibilità di difendersi nel rispetto del principio del contradditorio e la terzietà del magistrato.

Si dirà: un meccanismo che richiede tempi troppo lunghi, che si disperde e si annulla nelle lungaggini processuali incompatibili con la immediatezza di internet. Su internet e nell’ecosistema digitale tutto è veloce ed immediato. E allora? La risposta c’è già: il processo telematico – che applicato in forma snella alle controversie sui social e ai diritti degli utenti – garantirebbe celerità e rispetto del diritto di difesa.

Resta un punto curioso, che si collega alla realtà del mondo virtuale. I social network sono diventati – nel bene e nel male – lo strumento della partecipazione popolare alla vita sociale e politica. La piattaforma universale di comunicazione ed interazione. E sono diventati – ahimè – il mezzo quotidiano con il quale chi ci governa comunica con noi cittadini. La politica è divenuta un twit o una pagina Facebook. Ad essi – come si è visto – è affidata la nostra comunicazione privata e – ahimè – pubblica. E’ ammissibile un “bando digitale” – una moderna ” damnatio memoriae” –  pronunciato da un privato?  In America studiosi e giuristi stanno incominciando a discutere su questo tema. Discutono sullo sfondo del loro ordinamento giuridico. Ma Twitter e Facebook non sono né italiani né europei. Sono enti privati, fondati su regole private, di diritto statunitense.

“Ragioniamoci sopra” direbbe forse il Governatore del Veneto…

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