Audiovisivo

EntARTainment. Festival di Venezia, il futuro del cinema tra sale e streaming

di Bruno Zambardino, in collaborazione con Armando Maria Trotta |

Venezia di quest’anno, splendida settantaduenne con la dignità ed il fascino di una terra di frontiera contesa tra il domani e l’ieri, è il primo passo per un mondo che cambia, quello dell’audiovisivo.

In un tempo in cui lo Stivale si mostra rinnovato al mondo, con una nuova foggia fatta di Giubilei ed Esposizioni Universali, ciò che Venezia ha da offrire al mondo non può essere da meno.

Non vogliamo tanto soffermarci sulle opere premiate all’edizione n. 72 della Mostra del Cinema di Venezia che ha appena chiuso i battenti, ribattezzata “Lido Latino” per aver riscoperto e premiato la cinematografia latinoamericana. Ma porci piuttosto una semplice domanda sul ruolo di un festival sempre al centro di critiche accese e discussioni animate.

La rubrica EntARTainment, ovvero libere riflessioni sull’economia dei media e della creatività tra nuovi linguaggi, mercati globali e moderne fruizioni. A cura di Bruno Zambardino Docente di Economia del Cinema e dello Spettacolo alla Sapienza e Direttore Osservatorio Media I-Com, in collaborazione con Armando Maria Trotta, autore cinematografico. Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.
Cosa si mostra, a una mostra?

Perdonate il gioco di parole, ma il punto è esattamente questo: cosa dovremmo porre all’attenzione del mondo?

Alcuni diranno “i nostri pezzi migliori”, “quelli apprezzati dal grande pubblico” (oltre che dalla critica) “dobbiamo saperci vendere bene!”, di conseguenza il pensiero scivola alle vecchie glorie o, comunque, a quelle col certificato di garanzia dato dall’acclamazione popolare.

Eppure, qualcuno ha avuto modo di dire “i registi migliori li abbiamo messi in giuria!”; altri ancora, basandosi sui fatti di Maggio e sul nostro poker d’assi francese a Cannes, hanno sentenziato che una scelta del genere non solo non giova alla collettività (basandosi evidentemente su teorie economiche “nashiane” applicate al glamour cinematografico) ma getta anche qualche ombra sulla credibilità della kermesse lagunare, accrescendo l’appetito per quella d’oltralpe da parte di illustri esponenti della nostra settima arte.

Ma siamo davvero sicuri che sia così?

O forse, abbandonando Nash, potremmo rivolgerci ad Guglielmo di Occam ed urlare “a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire!”.

Che quella del Direttore Barbera (in odore di riconferma insieme all’inossidabile Presidente della Biennale Baratta), in realtà, sia una scelta artistica perfettamente in linea con lo zeitgeist italiano del duemilaquindici?

Un festival poco in sintonia con il mercato e tutto rivolto ad un meticoloso lavoro di ricerca che per alcuni però significa privilegiare le scelte d’élite (alcuni critici hanno parlato di “ottica da “super cineclub e di “bizzarro disprezzo del pubblico”)” anziché trovare una nuova e più solida identità.

Registi esordienti, giovani autori ed attori ai quali prestare attenzione ma non solo per via della loro giovinezza ma anche per il coraggio di sperimentare nuovi linguaggi ed affrontare temi complessi che possono (e devono) mettere a disagio come quelli raccontati dal film che ha conquistato il Leone d’Oro e diretto dell’esordiente venezuelano Lorenzo Vigas. Un’opera che indaga sulla relazione tra età differenti, sull’identità sessuale dal punto di vista psicologico emozionale.

E’ tutto giovane in questo mondo rimesso a nuovo, le televisioni che prima si nutrivano di Cinema adesso, ché sono cresciute abbastanza, danno da mangiare ad un anziano padre che a detta di tutti non gode di ottima salute. E così Netflix, quella specie di ordigno nucleare che esploderà nel nostro Bel Paese a metà Ottobre, produce un film e lo mette in concorso (come succedeva un tempo, per potersi dire assolti dal peccato originale dell’americanità, essendosi bagnati la fronte con le acque salvifiche del Canal Grande). “Beasts of no Nation” di Cary Fukunaga, il “True Director” della prima fortunatissima stagione del noir in salsa creola che ha come protagonista l’ormai amatissimo Matthew McConaughey, è forse il primo film che qualora dovesse mai approdare nelle sale italiane farebbe competizione a sé stesso (forte del prestigioso premio Mastroianni per il miglior attore emergente, ottenuto da Abraham Attah), visto che ne è prevista in contemporanea la programmazione per ottobre proprio sulla piattaforma streaming SVOD della casa di produzione d’oltreoceano.

Insomma, il futuro è fatto di modi diversi di fruire e di concepire i prodotti audiovisivi così come di sfruttare e di autorappresentarsi sui red carpet di tutto il mondo. Solo qualche anno fa, svincolare l’offerta festivaliera dalla programmazione in sala sarebbe stato sinonimo dell’insuccesso dell’opera, ma come non poter puntare oggi, per un prossimo futuro, a canali dedicati on demand che distribuiranno (quasi gratuitamente) tutti i film in concorso, come già accade per alcuni titoli fruibili sul portale di Repubblica?

Venezia lo sa bene, tanto bene che nella maggior parte delle tavole rotonde e dei convegni promossi durante la kermesse ci si è interrogati sul futuro della sala cinematografica e sulle minacce (reali e potenziali) della prepotente avanzata dello streaming con tutto ciò che ne consegue in termini di nuove abitudini di consumo soprattutto da parte dei giovani. Fanno riflettere da questo punto di vista le considerazioni amare di Woody Allen in una intervista che di recente ha rilasciato all’Espresso e ripresa da Wired.

In conclusione, la Venezia di quest’anno ha saputo regalarci un bellissimo ricordo del futuro e della complessità delle vicende umane raccontate in modo sublime non solo nel film che ha vinto il Leone d’Oro (che dire ad esempio dell’emozionante e cinico Anomalisa,  giustamente premiato dalla giuria diretta da Cuaròn); la Venezia di quest’anno, splendida settantaduenne con la dignità ed il fascino di una terra di frontiera contesa tra il domani e l’ieri, è il primo passo per un mondo che cambia, quello dell’audiovisivo.

Sempre più contenuti per un olimpo cinematografico che si rinnova ad un ritmo incessante e, solo in parte, sembra rinunciare al divismo che per decenni lo ha corrotto.