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Dossier “Cultura” nei programmi elettorali: altra puntata del monitoraggio IsICult

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Ieri a Roma l’incontro “Liberare la cultura” contro l’egemonia della sinistra. “Il Giornale dell’Arte” titola “disinteresse sovrano e ignoranza diffusa della classe politica”.

L’incontro “Liberare la cultura”, promosso dalla rivista di destra “CulturaIdentità”, tenutosi ieri pomeriggio a Roma alla Sala Umberto, è stato ben affollato, come prevedibile, anche a fronte della gran quantità di firmatari dell’appello promosso da Edoardo Sylos Labini e Giampaolo Rossi… Altrettanto prevedibile come la rassegna stampa odierna registri articoli (simpatizzanti) soltanto da parte di tre quotidiani editi anche (ancora?!) su carta ovvero “Il Giornale”, “Libero”, “Il Tempo”, e su “Il Secolo d’Italia”. Nessuna traccia dell’evento su altre testate.

Secondo Edoardo Sylos Labini, “in Italia, se non si appartiene al mondo identificato con la sinistra, rischi di non lavorare: è un dato di fatto, anche se si sta cominciando a squarciare il velo della ipocrisia… La cultura in Italia non è libera… Si usa per fare politica, anche nel servizio pubblico tv. Ma gli artisti possono essere di destra, di sinistra, di centro, non importa. Vanno giudicati per le loro opere d’arte e per la loro creatività”.

L’ex membro del Consiglio di amministrazione della tv pubblica Giampaolo Rossi ha denunciato che “c’è un grave problema di egemonia… La cultura italiana oggi soffre innanzitutto di un drammatico conformismo che le impedisce di sviluppare elementi di creatività, di ricercare nuovi talenti. E in qualche modo impatta anche nell’intera industriale culturale italiana”.

Tra gli interventi più appassionati quelli di Luca Barbareschi, Pino Insegno, Anna Falchi.

Luca Barbareschi: “la cultura gramsciana ha distrutto la creatività italiana”

Luca Barbareschi, sempre eccellente affabulatore e polemista controverso (ex parlamentare del Popolo delle Libertà e poi di Alleanza Nazionale dal 2008 al 2013, già Responsabile Cultura di An) si è scagliato contro “la cultura gramsciana che in tutti questi anni ha distrutto la creatività… La cultura italiana è morta… Dobbiamo investire perché ciò che si fa oggi sia ricordato fra 500 anni. Altrimenti, avremo solo un cumulo di ruderi. Ma per far questo, serve una cultura che sia libera da ogni ideologia. Se non facciamo questo, siamo finiti… Va difesa l’identità culturale italiana… l’idea che rifacciano ‘Il Gattopardo’ in inglese mi fa rabbrividire… Noi siamo italiani, né meglio né peggio degli altri. Parliamo la nostra bellissima lingua e abbiamo la fortuna di poter leggere in italiano Dante, Petrarca, Leopardi, D’Annunzio, Pirandello. E allora, perché abdicare e dare le nostre tasse solo alle multinazionali straniere, che hanno a cuore un altro core business e una narrazione che non è la nostra?”. Insegno ha sostenuto che “l’unico metro di giudizio, anche per un artista, dovrebbe essere il merito. Ma purtroppo non è pienamente così… La cultura debba essere trasversale, senza limiti e confini… E deve essere liberata da certi dogmi, perché la cultura non deve avere colore politico ma soltanto la volontà di fare cose belle e di valore”. Falchi ha dichiarato: “sto qui, come rappresentante del mondo dello spettacolo, perché qui si parla finalmente di cultura in modo più ampio. Credo fermamente nell’appello a liberare la cultura e a renderla finalmente una priorità. Troppe persone sono state dimenticate: invece, dobbiamo unirci e fare filiera”.

Enrico Ruggeri ha dichiarato all’Adnkronos che si deve “svecchiare la cultura e renderla più fruibile, soprattutto fra i giovani, è la grande battaglia che chiunque avrà in mano le sfere del potere nei prossimi anni dovrà affrontare”. Alla domanda se la cultura deve essere “identitaria” o “universale”, il cantautore ha risposto: “la cultura di per sé è pluralista… e fra le tante culture è presente naturalmente anche il concetto identitario. Anche se non ritengo che sia questa la priorità… Io sono qui per contribuire a rendere la cultura piacevole e spettacolare. Ho due figli adolescenti di 17 e 12 anni e quando parlo di cultura alzano gli occhi al cielo ritenendo che sia qualcosa di polveroso. Ma la cultura cinema, è musica, è letteratura, è pittura: per questo dico che va svecchiata”…

Così sintetizza gli obiettivi dell’iniziativa di “CulturaIdentità” di ieri Fabrizio de Feo sull’edizione odierna de “il Giornale”: “il messaggio è semplice: è arrivato il momento di spalancare le finestre e fare entrare aria nuova nella cultura italiana, di aprire davvero al pluralismo, anche contro l’invasione narrativa delle multinazionali dell’audiovisivo, di ricostruire una cultura nazionale davvero inclusiva. Creare, dunque, anche un’epica della storia italiana e fare in modo che ci sia un mercato di idee in competizione”.

Laura Pausini: “non canto canzoni politiche”

In occasione dell’incontro promosso da “CulturaIdentità”, è stata posta enfasi sulla posizione “controcorrente” assunta da due artisti come Laura Pausini ed Eros Ramazzotti, in relazione alla polemica su quel che ormai si può definire “il caso (mediatico-politoco) Bella Ciao”. Il 12 settembre la cantautrice, in occasione di uno show sulla tv spagnola (“El Hormiguero” un popolare quiz del canale Antena3), non ha voluto intonare “Bella Ciao”, sostenendo che “non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica”. Si sono scatenate grandi polemiche, anche a livello politico, in Spagna: la deputata socialista Adriana Lastra ha sostenuto che “rifiutarsi di cantare una canzone antifascista dice molto della Signora Pausini e niente di positivo”; il collega del Parlamento Europeo Ibán García ha rincarato la dose: “né con i democratici, né con i nazisti. Uguale”. Qualcuno ha addirittura parlato di… “Pausini-gate!”. Laura Pausini ha poi precisato, a seguito delle polemiche scatenatesi anche sui “social media”: “io non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta sembra ovvio a tutti. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica”. Il leader della Lega Matteo Salvini ha apprezzato la scelta della cantante romagnola. Da osservare che, curiosamente, nel giro di pochi mesi Laura Pausini è passata da un estremo polemico all’altro: a maggio, poco dopo la conduzione dell’Eurovision, era stata oggetto di una singolare protesta a Miami, essendo stata accusata di essere comunista e castrista per alcune foto in posa con membri della Sicurezza di Stato cubano, ed a Little Havana alcuni manifestanti hanno protestato contro di lei, passando con un rullo compressore sui suoi cd e inneggiato affinché lasciasse Miami…

Pochi hanno comunque osservato che la richiesta del conduttore della tv spagnola era dettata certamente non dall’evocazione della resistenza partigiana italiana, ma dall’uso della canzone come “soundtrack” della eccezionale serie televisiva “La Casa di Carta” (uno dei successi planetari di Netflix): nella serie ideata da Álex Pina e prodotta da Antena3 (ovvero Atresmedia e Vancouver Media), la canzone è una sorta di inno del gruppo di ladri professionisti che divengono però anche protagonisti di una sorta di “resistenza” anti-sistema (contro il capitalismo finanziario, in primis, in una logica alla fin fine alla Robin Hood)… Sulla storica canzone, si rimanda all’accurata analisi proposta dalla qualificata newsletter specializzata “Rockol” (vedi l’articolo del 14 settembre, a firma di Giampiero Di Carlo, “‘Bella Ciao’: credenze e verità”).

Pierpaolo Capovilla (ex “frontman” de Il Teatro degli Orrori, tra i personaggi più discussi della scena indipendente italiana degli ultimi trent’anni) si è schierato duramente contro Pausini, accusandola di essere “senza storia, senza dignità, senza niente di niente se non il conto in banca”. E, ancora, “la vergogna della canzone italiana nel mondo, che possa sparire per sempre. Non c’è più dignità, né orgoglio, nella nostra storia. Che schifo che fai, canzone italiana. Sprofonda nel tuo bel mare. Libera il mondo” (per un approfondimento, vedi “Rolling Stones” del 15 settembre). In difesa della scelta di Laura Pausini sono invece intervenuti artisti come Eros Ramazzotti, appunto, e Simone Cristicchi. Il primo ha sostenuto che si tratta di una canzone “troppo politica… Noi non facciamo politica, facciamo musica”. Il secondo, artista eterodosso e coraggioso, ha sostenuto: “anche se l’avesse cantata, si sarebbero scatenate polemiche, come è successo a me con ‘Magazzino 18’, quando fui attaccato dall’estrema sinistra perché ho raccontato i crimini commessi sul confine orientale nel dopoguerra dai partigiani di Tito. A me, hanno dato del fascista per anni non solo sui social ma anche nei teatri…”.

A proposito di artisti “scesi in campo”, va segnalato che durante questa campagna elettorale si è visto Giorgia Meloni raccogliere… i “consigli” di alcune star del sistema musicale, seppure un po’ appannate come Morgan (vedi “Morgan e Giorgia Meloni: “Le sto consigliando il programma elettorale, in particolare le parole da usare”  su “Il Messaggero” del 6 agosto 2022) e Loredana Bertè (Bertè contro Meloni: “Signora, lei di onorevole non ha niente. Ascolti Liliana Segre e tolga la fiamma dal simbolo”, su “Il Fatto Quotidiano” del 21 agosto 2022).

Da segnalare anche la polemica scatenatasi tra Chiara Ferragni e Giorgia Meloni. Qualche settimana fa, un post della “influencer” (che vanta 28 milioni di “follower”) critico verso Meloni per la politica restrittiva sull’aborto nelle Marche ha fatto irruzione nel dibattito pubblico: l’“influencer” ha condiviso su Instagram una storia in cui ha criticato la scelta della Regione di opporsi all’aborto farmaceutico nei consultori, sostenendo che si tratterebbe di “una politica che rischia di diventare nazionale se la destra vince le elezioni”. Non è la prima volta che l’imprenditrice digitale per antonomasia esprime pareri critici, sui politici italiani, e si espone a favore dei diritti civili: quasi un anno fa era intervenuta quando in Senato era stato affossato il Ddl Zan, creando un vero e proprio scontro mediatico, dichiarando “siamo governati da pagliacci senza palle”. Gli analisti e politologi sono comunque dubbiosi su quale potrà essere il concreto effetto nelle cabine elettorali.

Sergio Cerruti (Afi): assenza di proposte a favore della musica, spettacolo, intrattenimento nei programmi elettorali

In argomento… “musica”, da registrare la presa di posizione del Presidente dell’Associazione Fonografici Italiani (Afi) Sergio Cerruti (che dal 2019 è anche Vice Presidente di Confindustria Cultura), che ha lamentato il 15 settembre all’agenzia stampa Dire l’assenza di proposte sul settore dello spettacolo e dell’intrattenimento nei programmi elettorali in vista del voto del 25 settembre. Dopo un suo appello a non dimenticare la musica, “non è arrivato nessun commento se non dalla parte di uno: devo ringraziare l’onorevole Renzi, che, forse per esigenza personale, non è nuovo a sottolineature che riguardassero la musica e più in generale la cultura… Nel nostro studio ‘La musica che conta’, che sarà presentato presto, abbiamo scoperto che la musica impatta ogni giorno sulla vita dell’88 % degli italiani che ne usufruiscono in vario titolo. Questo dà un’idea di quello che è la storia culturale e musicale di questo Paese”… Il Presidente dell’Afi identifica quella che è una delle concause: “è un’ignoranza rispetto al settore, all’interno anche dei dicasteri. Chi conosce la struttura del governo, sa bene che questa preparazione non possiamo chiedere ai politici. Quello che andrebbe riformato è anche tutta la dirigenza dei ministeri dando spazio ai giovani e agevolando un ricambio generazionale”.

Marcello Veneziani, contro l’intolleranza dell’ideologia di sinistra: “il Pd frigna ma la cultura l’ha ammazzata lui”

A proposito di “centrodestra”, da segnalare l’effervescente articolo odierno di Marcello Veneziani, richiamato in prima pagina da “Libero”, dal titolo inequivocabile: “Il Pd frigna ma la cultura l’ha ammazzata lui”.

Sostiene l’eccentrico intellettuale: “ora che la destra è in odor di vittoria elettorale, le prefiche progressive denunciano il rischio di un impoverimento intellettuale. La verità è che il pensiero ‘corretto’ ha tracciano un confine: chi ne è fuori, è escluso dal dibattito. Ma è così che il pensiero muore”. Rispetto ai programmi elettorali, Veneziani sostiene che “in realtà quel che sconforta non è l’assenza della cultura nella campagna elettorale ma al di fuori di essa. Non è solo il mese del voto a mancare di cultura ma anche i restanti ii. Lo scandalo non è che nelle pagine politiche non si parli di cultura e non si confrontino proposte culturali sul voto; ci siamo abituati. Il vero scandalo è che non si parla di cultura neanche nelle pagine culturali, negli ambiti culturali. Anche le terze pagine, gli inserti, gli eventi, i programmi dedicati alla cultura parlano d’altro, smerciano catechismo correct, gossip, marchette interne alla setta e teatrino in margine alla cultura, ai festival e alla mondanità vanesia dei premi letterari. Non vedi traccia, neanche remota, di idee a confronto, di pensieri con traversi odi progetti culturali antagonisti che si sfidano… E invece il mortorio prevale nella cultura in tutte le sue espressioni”.

Queste argomentazioni di Veneziani sono condivisibili: in effetti, in Italia, il dibattito sulle politiche culturali è da anni assolutamente marginale. Il “mortorio” evocato sarebbe “colpa del clima destrorso che accompagna il voto; ma l’inerzia della cultura rimane tale anche se cambiano le motivazioni. Si conoscono le ragioni generali o generiche della penuria culturale: la cultura è schiacciata dalla tecnica, dai consumi e dall’arrogante volgarità di massa. Ma c’è una ragione specifica e primaria che mortifica la cultura: da tempo ormai non è possibile né praticabile alcun confronto di idee e non c’è un luogo ove questo sia possibile. Così la cultura deperisce, fino a sparire. Senza confronto mancano gli ingredienti essenziali della cultura: il senso critico, la capacità di fare paragoni, il libero esercizio dell’intelligenza, la polemica e la sfida delle idee”. Ci sarebbe una diffusa “intolleranza” determinata dalla “ideologia di sinistra” che “si è fatta mainstream, canone ufficiale, clima e narrazione di regime, con penalità per chi compie deviazioni”… “Non c’è un pensiero che affronti e critichi un altro pensiero… Chi non la pensa secondo il modulo… non è uno che ha altre idee, ma è nemico delle idee e dell’umanità e perciò va esecrato o ignorato. Il meccanismo è operativo anche nei grandi giornali, oltre che nella cupola intellettuale: sotterrare da vivo chi non è allineato. Capite bene che in questo modo non è più possibile animare la cultura, cioè paragonare idee diverse, avere un libero confronto su alcuni temi controversi. Per questo non si vede in giro la cultura ma non è colpa del basso livello elettorale: la cultura è negata quando tutto è ridotto ad accettare i cookie del conformismo”.

“Il Giornale dell’Arte”: nei programmi elettorali “arte e cultura politicamente irrilevanti… la prova del disinteresse sovrano e dell’ignoranza diffusa della classe politica”

Qualche lettore affezionato di questa rubrica “ilprincipenudo” – curata da IsICult (laboratorio di ricerca indipendente) per il quotidiano online “Key4biz” – ci ha segnalato che i nostri interventi di analisi critica sulla debolezza del “capitolo cultura” nei programmi elettorali si caratterizzano per eccessiva severità: gli rispondiamo che non siamo gli unici ad aver manifestato delusione e amarezza per questa dinamica.

Ci limitiamo a segnalare quel che ha scritto la più qualificata e diffusa (oltre 20mila copie di tiratura) testata del mondo dell’arte italiana, qual è il mensile “Il Giornale dell’Arte” (fondato nel 1983), diretto da Umberto Allemandi.

Nell’edizione di settembre 2022 in edicola, si leggono tesi come: “Nei testi delle promesse elettorali di partiti e coalizioni, arte e cultura sono politicamente irrilevanti”. Si titola “Arte e cultura politicamente irrilevanti” e si legge “i testi delle promesse elettorali di partiti e coalizioni sono la ‘prova provata’ del disinteresse sovrano e dell’ignoranza diffusa della classe politica per quanto concerne arte e cultura”.

Flaminio Gualdoni scrive: “solo un concentrato di luoghi comuni” ed ironicamente precisa “l’auspicio della pace nel mondo non c’è, sarebbe fuori tema e poi forse neanche di moda, ma tutto il resto dei luoghi comuni è concentrato nelle smilze paginette che le forze politiche dedicano nei loro programmi in vista delle elezioni del 25 settembre alla cultura e ai beni culturali” (una sezione del dossier de “Il Giornale dell’Arte” estrapola dai vari programmi il tema cultura e lo commenta criticamente: una lettura interessante ed utile, anche ad integrazione di quel che siamo andati scrivendo su queste colonne).

Eppure i leader dei partiti e delle coalizioni hanno avuto qualche settimana per dare il meglio.

Stimoli ve ne sono stati: citiamo, per esempio, la domanda posta dallo storico dell’arte e critico d’arte Vincenzo Trione sul “Corriere della Sera” del 9 agosto 2022, “Ma i leader che idea hanno della cultura?”. Scriveva allora Trione: “per il momento nei programmi dei partitito non c’è neanche una parola… Il centro-sinistra non rivendica alcuni importanti risultati ottenuti; il centro-destra non avanza proposte concrete. Eppure, siamo dinanzi a un settore non marginale ma rilevante, necessario, per la vita pubblica del Paese, dal punto di vista sia economico che soprattutto civile. Ove si intenda la cultura come spazio della condivisione e del dialogo tra mondi lontani; come patrimonio di conoscenze da frequentare, da interrogare e da arricchire continuamente con nuove conquiste; come dinamico campo del progettare e del creare”.

Nelle settimane successive, in verità di parole ne son poi venute in quantità, in primis nel programma del Partito Democratico (che ha ben rivendicato la politica guidata da Dario Franceschini), ma poi anche di Azione e da ultimo da Fratelli d’Italia. Ma, rivendicazioni “dem” a parte, si è trattato prevalentemente di parole generiche, di condivisibili intenti, di belle intenzioni, in assenza di un’analisi critica ed organica delle carenze del sistema culturale italiano.

Da segnalare anche un articolo sul sito de “Lavoce.info”, pubblicato oggi 21 settembre, a firma di Francesco Azzoni e Maria Elisa Mobili, che così sintetizza: “tutti i principali partiti citano le politiche culturali nel loro programma. Ma le proposte sono slegate dai veri bisogni del settore e molte volte si sovrappongono agli obbiettivi del Pnrr. Spesso contengono più retorica che soluzioni strutturali”.

Per approfondimenti critici sui vari programmi elettorali, merita di essere segnalata anche l’analisi proposta da “ateatro”. Si legge in un articolo del 22 agosto sulla nota “webzine di cultura teatrale”: “alcune forze politiche (centrodestra, M5s, Sinistra-Verdi) limitano la questione culturale a brevi paragrafi, con pochi slogan più o meno generici e prevedibili. Il Partito Democratico e Azione-Italia Viva presentano una proposta più ampia e articolata, a partire da due presupposti diversi. Il Pd sottolinea il legame tra istruzione e cultura, a cominciare dal mondo della scuola (e dagli squilibri territoriali), mentre a ispirare la proposta di Azione-Italia Viva è la scarsa partecipazione culturale degli italiani. Da questi condivisibili presupposti, nei due casi, un elenco di proposte, a volte più concrete a volte ancora generiche, che però stentano a delineare una efficace politica culturale. Lo spazio dedicato allo spettacolo dal vivo è scarsissimo (con la parziale eccezione della coalizione guidata da Carlo Calenda), anche se non mancano suggestioni interessanti”.

Si rimanda anche all’analisi di Livia Montagnoli su “Artribune” del 13 settembre.

Anna Coliva: il problema vero del sistema culturale italiano va risolto a partire da una riforma profonda della scuola

A distanza di un mese dalla “domanda” retorica di Trione, l’8 settembre scorso Anna Coliva firmava un editoriale sulla prima pagina de Il Messaggero” come la cultura fosse ancora “dimenticata nei programmi dei partiti”. La Direttrice Emerita della Galleria Borghese sposta la critica nei confronti della scuola, settore che anch’esso rientra senza dubbio nell’ambito di una definizione ampia di “cultura”, e scrive: “un’unica eccezione al tombale silenzio sulla cultura c’è stata, quella del programma dalle caratteristiche più liberali e meritocratiche avanzato dal Terzo polo che ha proposto l’estensione dell’obbligo scolastico anche alle classi superiori, ponendo come emergenziale la lotta all’abbandono scolastico nelle zone e nelle classi sociali particolarmente disagiate e in vaste aree del Paese, dove il concetto di scuola dell’obbligo è uno sbiadito codicillo”.

Una lettrice affezionata ci ha suggerito di estendere anche noi, sulle colonne di “Key4biz”, il perimetro e di proporre una analisi critica comparata dei programmi elettorali in materia di scuola, università, ricerca: è un compito improbo, e temiamo che una simile intrapresa potrebbe portarci a risultati non meno sconfortanti di quelli che abbiamo registrato in materia di “politiche culturali”. Coliva attribuisce la debolezza del tema cultura dai programmi elettorali ad una “afasia della politica” che “ha una causa che è bene mettere in chiaro per superarne l’effetto di inerzia”. Severa la sua analisi, che parte “da qualche equivoco che ha provocato distorsioni. Dato che indubbiamente la cultura produce benessere psichico come suo esito finale, benessere che qualcuno chiamerebbe spirituale, questa verità è servita per relegarla nel campo dello svago proprio a causa dell’uso disinvolto e superficiale che se ne è fatto. Ogni volta che si parla di cultura, anche da parte delle istituzioni addette, in realtà si parla di eventi, di astratta creatività, di turismo: di conseguenza i governi si sono dedicati soprattutto alla redditività dello svago sotto lo slogan “con la cultura si mangia”. Ne consegue che nei momenti di emergenza – e in corso ce ne sono parecchie – la prima cosa cui si rinuncia è lo svago. Ecco perché i partiti oggi non ne parlano, al massimo si rivolgono con meccanico autocompiacimento ai ‘beni culturali’, a vaghe teorie identitarie riguardo a un passato che costituisce una fuga facilmente giustificabile, inoffensiva, pacificamente condivisibile. I luoghi come luoghi comuni”. Sostiene ancora Coliva: “la cultura invece è un obiettivo obbligatorio e richiede un ritorno di impegno per la sua massima diffusione di base perché la società sia consapevole di sé. Il problema culturale è una vera emergenza nazionale che incombe qui e ora con la concretezza impietosa dei dati di ogni rilevatore internazionale dei livelli di alfabetizzazione e capacità funzionali che ci inchiodano agli ultimi posti di ogni classifica. Sono certamente onorevoli gli obiettivi della correttezza politica progressista insiti nella ‘cultura come spazio della condivisione e del dialogo tra mondi lontani’, ma questa stessa correttezza rischia di tradursi in nient’altro che in seducenti propositi di creatività generica, di suadente proclama culturale molto professionistico che riduce il problema a pratica virtuosa, a pedagogismo”. E quindi Coliva torna alla tesi di fondo, ovvero dell’esigenza di riformare il sistema scolastico: “per una seria politica della cultura che voglia affrontare l’emergenza reale dell’istruzione, la via è una sola ed è la scuola. Ed è questione da affrontare immediatamente, da ristabilirsi nei suoi scopi originari eliminando la serie infinita di riforme che ne hanno svilito il ruolo assieme all’autorevolezza, hanno ridicolizzato i criteri di selezione sia di allievi che di insegnanti, hanno introdotto stravaganze didattiche e globalismi da neofiti”.

Quale che sia il vincitore alle elezioni, non ci si deve attendere rivoluzioni o sconvolgimenti rispetto all’attuale assetto delle politiche culturali nazionali

Tornando alla “politica culturale” – intesa in senso stretto – va osservato che se il centro-sinistra annuncia ovviamente l’intenzione di proseguire sulla via tracciata dal più longevo Ministro della Cultura d’Italia, il centro-destra lamenta ancora una presunta “egemonia” (gramscianamente intesa, appunto) della “sinistra” negli apparati delle “macchine culturali” italiane (dalla Rai a Cinecittà passando per la Biennale di Venezia e la Treccani…).

Il “contro-programma” sulla cultura presentato ieri l’altro da Fratelli d’Italia (ovvero dal suo Responsabile Cultura, il deputato Federico Mollicone) è certamente ricco di spunti, ma in varie (generiche) tesi ricorda paradossalmente il programma del Partito Democratico (a parte le tesi “identitarie” che Tomaso Montanari ha bollato come fasciste, come ricordavamo ieri su queste colonne). Non è, insomma, esattamente un contro-programma.

Scrive efficacemente Alessandro Martini su “Il Giornale dell’Arte” del 19 settembre, a proposito del programma dell’alleanza (FdI+Lega+Fi+altri partner) “Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra”: “Dalla coalizione che, secondo i sondaggi, si appresta a guidare il Paese ci si sarebbe forse aspettati un cambio di passo radicale rispetto a quanto realizzato dal criticatissimo (da loro) ministro Franceschini. E invece nessuna marcia indietro dichiarata, nessuna esplicita discontinuità, nessuna proposta davvero innovativa”.

Anche nel lungo programma presentato da Federico Mollicone (per FdI) nessuna sostanziale marcia indietro, nessuna concreta discontinuità, nessuna particolare innovazione, rispetto alla “linea” di Dario Franceschini e del Partito Democratico.

In sostanza, si nutre l’impressione che, tra qualche settimana, anche se saranno Federico Mollicone o Lucia Borgonzoni a guidare il Ministero della Cultura, non ci si deve attendere rivoluzioni o sconvolgimenti rispetto all’attuale assetto delle politiche culturali nazionali.

Ci saranno piccoli aggiustamenti gestionali, una qualche correzione di rotta, avvicendamenti ai vertici di alcune macchine culturali dello Stato…

Nessun sconvolgimento, nessun cambio di paradigma.

Una riprova la si può avere dal governo, diarchico ma sintonico, che s’è visto in questi ultimi anni al Collegio Romano, nelle persone del Ministro “dem” Dario Franceschini (in carica dal 2014, fatta salva la “parentesi” del grillino Alberto Bonisoli dal giugno 2018 a settembre 2019) e della Sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni (che è al Collegio Romano dal marzo del 2018, prima col Governo Conte fino al settembre 2019, e poi col Governo Draghi dal marzo 2021). Hanno governato insieme, Franceschini e Borgonzoni e non si ha notizia di particolari dialettiche o di duri scontri nelle aree di rispettiva competenza. Il primo ha continuato per la sua via, la seconda ha investito energia e passione su temi come il sostegno alle industrie culturali e creative, l’educazione audiovisiva nelle scuole, la moda… Ha esercitato le sue deleghe in sostanziale sintonia con le politiche del “suo” Ministro. Come volevasi dimostrare.

Prevale – ancora una volta – inerzia e vischiosità

Nessuno sembra voler affrontare di petto i tanti e profondi problemi del sistema culturale italiano, che peraltro non sono mai stati studiati con cura, prevalendo ancora oggi un “governo della cultura” nasometrico, in perdurante assenza di una adeguata “cassetta degli attrezzi”.

Le precedenti “puntate” del dossier curato da IsICult per “Key4biz”, sul tema “cultura” nei programmi elettorali:

20 settembre 2022

19 settembre 2022

16 settembre 2022

1° settembre 2022

12 agosto 2022