riflessioni

Digitale, sostenibilità e bellezza per riformare il capitalismo

di Luca Tomassini, Presidente e AD Gruppo Vetrya, professore aggiunto Luiss Business School |

L’attuale modello non è più in grado di risolvere i nostri maggiori problemi e spinge molti a mettere in discussione le basi della crescita economica.

Riformare il capitalismo seguendo tre direzioni: digitale, sostenibilità e bellezza. Ne parla Luca Tomassini, Presidente e Ad del Gruppo Vetrya, nel suo ultimo libro “Il Grande Salto”, in uscita il 12 novembre.

Il capitalismo è il peggior sistema economico, esclusi tutti gli altri.

Questa parafrasi del famoso aforisma di Churchill, originariamente dedicato alla democrazia, potrebbe essere la premessa di una riflessione tanto ampia quanto ormai necessaria sul futuro dell’economia mondiale, messa a dura prova dalla pandemia da nuovo coronavirus, ma già in precedenza indotta a tornare sui suoi passi. L’occasione forse più significativa per intraprendere un’analisi critica sul capitalismo è stata l’esplosione della questione ambientale, che ha richiamato l’attenzione collettiva sull’importanza dell’utilizzo cosciente, equo e sostenibile delle ricchezze naturali a nostra disposizione, e ha sollevato nuovi interrogativi sulle modalità di sfruttamento delle risorse finora perseguito.

La nascita di un movimento giovanile come i “Fridays for Future”, e il ruolo della sua giovane leader Greta Thunberg, hanno avuto il merito di scuotere la consapevolezza pubblica non solo rispetto alla minaccia del cambiamento climatico, ma anche verso il tema del cosiddetto “overshoot”: vale a dire, il debito ecologico che contraiamo con il nostro pianeta, consumando più di quanto esso sia in grado di produrre nell’intero anno.

Il giorno dell’Earth Overshoot, che fissa il superamento del limite naturale di utilizzo delle risorse, negli anni passati si è progressivamente spostato all’indietro fino a raggiungere nel 2019, secondo i calcoli del National Footprint Accounts, la fine del mese di luglio. Solo quest’anno, complice la persistente diffusione del coronavirus e il conseguente lockdown, si è spostato leggermente in avanti, tornando a superare la metà di agosto. Qui non si tratta di contestare o confermare i dati: accurati o meno che siano i calcoli, rappresentano un elemento molto significativo per avere un’idea di quanto un cambiamento anche minimo e temporaneo dello stile di vita possa avere impatti sulla natura. Non è un caso che l’irruzione del Covid-19 abbia suggestionato molti al punto di indurli a giudicare questo straordinario evento come una sorta di “risposta” della Terra al depauperamento cui viene sottoposta dal sistema economico e sociale ormai diffuso.

È l’unica interpretazione possibile? Va ricordato che, come ho sostenuto di recente nel libro Il grande salto”, il capitalismo ha dimostrato nel tempo una tenuta democratica che altre forme non hanno avuto. Il bambino della straordinaria prosperità assicurata dalla libertà economica non va quindi a mio parere gettato insieme all’acqua sporca delle diseguaglianze, dello spreco e della scriteriatezza ambientale. Occorre riformare, non rivoluzionare: e in questo senso vedo tre direzioni da perseguire. La prima è indirizzata verso il digitale; la seconda, verso la sostenibilità; la terza, verso la bellezza.

Per prima cosa, tra i meriti del capitalismo – non bisogna dimenticarlo – c’è la creazione delle condizioni per lo sviluppo della più straordinaria trasformazione cui noi esseri umani abbiamo mai preso parte, quella della Rete. Senza la libertà di immaginare, di costruire e di investire nel digitale, la stragrande maggioranza delle possibilità oggi offerte all’umanità – che vanno dalla comunicazione alla medicina, dalla logistica all’intrattenimento, dai trasporti alla politica, dal lavoro all’istruzione – non sarebbero state neppure pensabili. Il fatto che la rivoluzione di Internet, come tutte le rivoluzioni, abbia poi attraversato una fase in bilico sfociando infine in un ripiegamento e in un potenziale miscuglio di monopoli, non deve farci dimenticare quanto numerose e consistenti siano state le sue esternalità positive: non si tratta di osannare acriticamente il mercato, neppure quello digitale, ma di essere coscienti della sua innegabile importanza nel momento in cui si avverte la necessità di ridefinirne le regole. All’inizio del mese di ottobre, uno storico studio dell’antitrust USA ha fatto balenare l’ipotesi di un drastico intervento per impedire l’ulteriore consolidamento dei monopoli di fatto rappresentati dai big player del Web: Amazon, Alphabet con Google, Apple e Facebook.

Lo studio, frutto di un lavoro durato sedici mesi, muove un atto d’accusa chiaro e netto frutto di documenti e testimonianze: così come, su un piano diverso ma non meno eclatante, testimonianze eccellenti sono quelle che animano il documentario “The social dilemma”, proposto da Netflix ai suoi abbonati e subito diventato un blockbuster della piattaforma di streaming. Nel documentario, che propone dichiarazioni e interviste ad ex del settore accanto a una suggestiva ricostruzione, si esaminano i pericoli insiti in un’economia del dato, come la nostra, governata da pochi, potentissimi soggetti che possono condizionare o addirittura manipolare gli utenti. Ma l’eventuale pianificazione dello “spezzettamento” dei colossi over-the-top made in USA, che di fatto controllano singolarmente il mercato del digital advertising, della navigazione web, dell’e-commerce non può nascondere né distruggere tutto il valore che grazie alla loro fondazione e alla diffusione dei loro prodotti e servizi è stato creato.

E se è senza dubbio degno di nota l’allarme sollevato da studiosi come Shoshana Zuboff circa il “capitalismo della sorveglianza”, che contrappone controllori (possessori e gestori dei dati) e controllati (gli utenti del web, che dai primi sarebbero manipolati, sfruttati, utilizzati esclusivamente come banche dati), non per questo la reazione può essere tout court l’isolamento digitale, con l’abbandono delle piattaforme incriminate e l’autoreclusione in un assurdo lockdown culturale e mentale, in una rinuncia alla vita, al nostro tempo, al nostro futuro.

C’è una ragione ancora più pregnante per non guardare indietro, bensì avanti, puntando non ad abbattere il capitalismo tecnologico, ma a pretendere da esso che faccia il suo dovere, fino in fondo. E questa ragione sta nel legame ormai sempre più evidente tra il digitale e la sostenibilità. Le conquiste maturate grazie all’avanzata esponenziale delle potenzialità tecnologiche ci hanno messo in grado di velocizzare, semplificare, ottimizzare, in una parola introdurre nei processi e nei sistemi l’intelligenza necessaria a pianificare e esercitare al meglio l’utilizzo di qualsiasi risorsa, a partire da quelle naturali. Lontano quindi dal contrapporsi alla natura come immaginato dagli scenari tecnofobi di appena qualche anno fa, la tecnologia è anzi sua alleata, capace di supportare il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità come altrimenti sarebbe impensabile. Il connubio purtroppo non è ancora stato colto da tutti: lo dimostrano le proteste contro la quinta generazione di reti di telecomunicazioni mobili, accusate dai detrattori di essere nocive per l’ecosistema. Un classico caso nel quale il valore della formazione, dell’informazione e della cultura possono fare la differenza, per esempio mostrando come il 5G renda più efficienti la trasmissione dei dati tra oggetti connessi, che diventano quindi in grado di aiutarci a gestire il controllo e l’intervento su situazioni ambientalmente critiche (come l’aumento del tasso di inquinamento, l’impatto delle precipitazioni, l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse…).

Le stesse storture del sistema capitalistico, denunciate a più riprese, possono trovare nel digitale un’efficace ausilio per trovare la soluzione: basti pensare alla trasformazione delle città, che da nuclei generatori di disagio sociale, di ineguaglianza e di inquinamento con la pandemia si sono improvvisamente trovate costrette a ripensarsi, scoprendo che una progettazione diversa dei centri urbani e della vita che si svolge al loro interno è possibile. Un ripensamento difficile, senz’altro, ma impossibile senza le risorse digitali che hanno abilitato al lavoro da remoto milioni di professionisti: per quanto ancora imperfetto, lo smartworking ha consentito a molte attività produttive di non bloccarsi.

È poco probabile che l’esperienza del lavoro agile resti un’eccezione: è invece verosimile che si vogliano mantenere, una volta sperimentati, i vantaggi di una modalità operativa che consente di conciliare meglio vita e lavoro, decongestionando il traffico, riscoprendo i quartieri periferici, calmierando il mercato immobiliare. Questo significa anche una profonda trasformazione degli equilibri tra grandi e piccoli centri, che rende pressante l’esigenza di rivalutazione dei borghi, improvvisamente assurti al ruolo di mete privilegiate. Sindaci e amministratori dei piccoli centri, borghi e cittadine di provincia devono essere consapevoli che fibra e 5G sono la base per la creazione di “smart working village” che consentono di offrire un contributo ai residenti temporanei. Tutto ciò potrebbe trasformarsi in una spinta significativa non solo all’economia locale, ma a quella di tutto il Paese. La sostenibilità qui si traduce in un migliore utilizzo delle risorse naturali ma anche delle energie vitali: riscoprire le distanze ridotte, ricominciare a vivere a misura d’uomo, rallentare il ritmo e insieme diventare più efficaci e produttivi diventa possibile grazie alla disponibilità delle infrastrutture, in primis tecnologiche, come la connettività ultraveloce fissa o mobile.

La rinascita dei borghi ci offre l’occasione per arrivare alla terza direzione, quella della bellezza. Noi italiani abbiamo un vantaggio culturale non irrilevante rispetto alla sensibilità verso il bello e alla capacità di produrre bellezza. Noi, che siamo eredi della tradizione classica e di quella rinascimentale, sappiamo che, esattamente come per gli uomini, per gli ambienti e più in generale per il nostro ecosistema la bellezza è il sintomo visibile della buona salute, dell’equilibrio, dell’armonia raggiunta tra tutte le componenti. Un vero e proprio “effetto collaterale” della sostenibilità, quindi, che è generata da, e genera, comportamenti virtuosi. Il compito di custodire e riprodurre questa bellezza tocca ora alle imprese: supportata dal digitale, la sostenibilità deve diventare l’imperativo di chiunque faccia impresa. Un grande insegnamento in questo senso è venuto da uno dei nostri più illustri concittadini, un imprenditore come Adriano Olivetti, che ha dedicato la sua intera vita alla costruzione di un sistema sano, in cui il benessere delle persone, il profitto aziendale e il valore del territorio dialogassero attivamente. Nel progetto olivettiano, che per me ha sempre rappresentato un punto di riferimento come uomo e come imprenditore, le persone sono al centro: sono loro l’asset più prezioso, sul quale realizzare l’investimento che garantirà ritorni più sicuri. Realizzare un ambiente lavorativo più accogliente possibile, offrire ai lavoratori i migliori servizi, seguire ogni talento singolarmente per coniugare le doti personali e le aspettative con la cultura e i valori dell’impresa, valorizzare insomma il capitale umano.

Torniamo quindi al punto di partenza, il capitalismo: lo scopo non può essere scardinarlo dalle fondamenta, ma trasformarlo. Il cardine del suo funzionamento, la ricchezza, deve restare tale, e così pure l’obiettivo del suo accrescimento; ma è la direzione a cambiare.  I tempi del ciclo economico che aveva come risultato la creazione di plusvalore e la generazione di profitto, e come “scarti” di produzione gli impatti sugli individui, sulla società, sull’ambiente e sull’intero sistema, sono finiti: su questo hanno pienamente ragione i critici del capitalismo, che mettono però in discussione il presupposto stesso del sistema, la crescita, come se l’unico destino accettabile per essa fosse trasformarsi in decrescita. Fermare la produzione industriale non è l’unico modo di perseguire scopi pure nobili come la riduzione delle emissioni: le stesse tecnologie digitali intelligenti ci consentono già oggi di gestire il problema dei cambiamenti climatici, mettendoci in grado di calcolare in maniera millimetrica i fabbisogni energetici di ogni singolo macchinario, di monitorare la carica delle batterie e collegare il dispositivo alla rete elettrica soltanto se e quando necessario. Il risultato è che la produzione industriale non viene abbandonata, ma completamente rivoluzionata: perseguire la distruzione degli impianti industriali non può e non deve diventare il feticcio di un’ideologia dura a morire, che si traveste ora di verde per rincorrere il solito, vecchio sogno della dittatura del proletariato. Al contrario, è necessario insistere sulla crescita, ma facendo in modo che invece di mantenere una direzione lineare, a senso unico, assuma un andamento circolare, tornando alle radici dalle quali proviene, al contesto che l’ha generata, diffondendosi e restituendo se stessa. La produzione industriale così come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, dedita alla realizzazione di gigantesche quantità di oggetti in serie, crollerà drasticamente: la triade produzione-consumo-smaltimento dei prodotti va riconvertita in un circolo che integri le tre r – il riciclo, il riuso e il riutilizzo – ma anche in questo senso io vedo uno spazio enorme aperto per l’innovazione, già ampiamente all’opera proprio per ottimizzare la fluidità di questo circolo e renderlo sempre più virtuoso.

Dobbiamo trasformare il rischio in opportunità, la minaccia in energia positiva di cambiamento, e per fare questo abbiamo e continueremo ad avere bisogno del capitalismo, della tecnologia e dell’impresa. Questo vale nel bene e nel male: se il sistema capitalistico e imprenditoriale pensa di potersene lavare le mani, continuando a perseguire scopi puramente di parte, o peggio ancora interessi che si fermano all’immediato futuro, in maniera irresponsabile verso il contesto e verso chi verrà dopo di noi, ha sbagliato i calcoli. Non sarebbe moralmente corretto gettare la spugna ora, immaginando di colonizzare altri mondi (forti magari delle incoraggianti novità sul versante dell’esplorazione spaziale, anche da parte dei privati) per sfuggire al disastro ambientale che abbiamo innescato, mentre sappiamo benissimo cosa dovremmo fare per riparare: ma non sarebbe neppure intelligente, visto che abbiamo tutti i mezzi per affrontarlo e risolverlo adeguatamente. La tecnologia ci permette di impostare e controllare i parametri ottimali per il raggiungimento di un equilibrio comune: siamo in grado di analizzare, per esempio, gli sviluppi geofisici di un terreno agricolo, catalogarne la composizione, prevedere un eventuale inaridimento, e intervenire prima che il processo di desertificazione si sviluppi. Possiamo monitorare la presenza di agenti inquinanti nell’aria e, attraverso un sistema intelligente in grado di percorrere strade a noi “ignote”, e quindi capace di istituire nuovi collegamenti, possiamo comprendere le cause particolari dell’inquinamento (a livello anche sub-molecolare) in misura maggiore di quanto non facciamo ora, elaborando così strategie mirate di risoluzione del problema. Ma disporre di tecnologie simili, e continuare a innovare per poter mettere in campo sempre le più avanzate e intelligenti, non è pensabile senza investimenti, senza scommessa sul futuro, senza il rischio che costituisce il mestiere stesso dell’imprenditore.

Detto questo, è compito principale delle imprese – che sorgono dai mezzi, dalle qualità e dai soldi del capitalista non meno che dall’energia, dall’impegno, dalle ricchezze del territorio – mostrare come sia possibile e necessario continuare a crescere, e allo stesso tempo come sia doveroso farlo in maniera consapevole, rispettosa e lungimirante. Da questo punto di vista, al capitalismo occorre una riforma che ridefinisca gli scopi dell’impresa armonizzandoli con gli impatti sociali, ambientali e generalmente parlando umani.

Se dovessi condensare in una formula la mia proposta, direi che l’azienda deve aprirsi al benessere, nel senso più ampio del termine: la favorevole disposizione di salute, forza e serenità, che deriva dalla convergenza di diversi fattori, dalla vivibilità dell’ambiente alla fertilità delle relazioni, dalla salute individuale alla fruttuosità degli scambi con il prossimo. Perseguire il benessere è quindi una questione di ecologia, ma anche di estetica e di etica: una sana iniezione di responsabilità che giova al capitalismo, perché giova agli uomini.

Il 2020 è stato un anno cruciale in questo senso: a gennaio, il forum di Davos, intitolato quest’anno “Stakeholders for a cohesive and sustainable world”, ha rimesso in discussione la creazione di valore per gli azionisti come unico fine dell’azienda, sottolineando la necessità della transizione verso uno “stakeholder capitalism”; lo scorso 11 settembre 2020 è stato pubblicato il rapporto “Capitalismo responsabile: un’opportunità per l’Europa”, frutto del lavoro dell’lnstitut Montaigne e del Comité Médicis, nel quale si suggerisce all’Europa di diventare il continente del capitalismo responsabile, non solo per la prosperità delle imprese, ma per quella di tutti i paesi che ne fanno parte.

Il 3 ottobre scorso, infine, ha visto la luce la nuova enciclica di Papa Francesco, “Fratelli tutti”, che veicola un importante messaggio: nessuno si salva da solo. Un messaggio emblematico alla luce della tragica esperienza pandemica, ma valido più in generale come indicazione per la società in tutte le sue componenti: istituzioni, cittadini, lavoratori e imprenditori.

Secondo il Pontefice, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale in ogni società che voglia realmente dirsi progredita: non si tratta solo di un mezzo per sopravvivere, “guadagnandosi il pane”, ma di un veicolo di crescita personale, di costruzione di relazioni sane, di espressione personale, di condivisione di doni, e infine di corresponsabilità nel miglioramento del mondo: lavorare significa insomma “vivere come popolo”.

Dovrebbero averlo sempre in mente i datori di lavoro, a partire dalla definizione della missione dell’azienda, che deve essere chiara, il più possibile a lungo termine, con obiettivi condivisibili anche dai dipendenti, che sono parte integrante del governo dell’impresa e sempre più micro-imprenditori di sé stessi all’interno dell’impresa più grande, il progetto comune che ci unisce tutti.