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Digital Education. Il report Google Data Collection incastra Big G, ‘Ci spia sempre’

di Rachele Zinzocchi, Digital Strategy R&D - laboratorio Digital Education |

Si chiama «Google Data Collection» ed è un dossier di 55 pagine che mette al centro la catalogazione a 360° dei dati che Google raccoglie sui consumatori e le loro abitudini più personali.

Digital Education è una rubrica settimanale promossa da Key4biz dedicata all’educazione civica digitale a cura di @Rachelezinzocchi Formatrice e public speaker, autrice del libro Telegram perché. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Google? Ci è ricascato. Che ha fatto stavolta Big G? Beh, qualcosa per cui ormai bisognerebbe iniziare a chiedersi quanto sia destinato a restare «Big»: specie dopo le vicende degli ultimi dieci giorni, che se non sorprendono gli addetti ai lavori, e forse ormai più nemmeno le «persone comuni», hanno evidenziato in forma così schiacciante le innumerevoli violazioni della privacy – il suo tracking sui nostri dati, informazioni, interessi e geolocalizzazioni, perfino quando glielo vietiamo – da non poter non impressionare più di sempre stampa e opinione pubblica.

Se solo tre giorni fa, infatti, abbiamo dato conto con dossier completo del report di Associated Press, proprio su geolocalizzazione e privacy, con tutto ciò che Google non ti dice – che ha dimostrato con tanto di mappa come alcune App di Google memorizzino automaticamente e registrino i dati di posizione anche se l’utente nega esplicitamente il consenso – ecco ieri un’altra notizia: che possiamo anche in questo caso definire «bomba», in quanto dimostrata da un nuovo, illustre e accurato studio accademico, pubblicato da Digital Content Next.

Il titolo già dice tutto. Si chiama «Google Data Collection» ed è un dossier di 55 pagine scritto dal professor Douglas C. Schmidt, titolare della cattedra di Computer Science presso la Vanderbilt University. Al centro, la catalogazione della quantità di dati che Google raccoglie sui consumatori e le loro abitudini più personali, circa i suoi prodotti e le loro connessioni.

Si tratta della prima ricerca simile: finora «non esisteva alcuno studio che analizzasse l’ampiezza e la profondità dei dati raccolti da Google».

Non male il quadretto uscitone fuori. In sintesi? Non solo il gigante della ricerca ti traccia a 360° anche quando tu vorresti impedirglielo: lo fa pure col telefono spento, quando stai navigando in incognito e in una serie di altre attività, grazie cui tu pensi di star difendendo la tua privacy e, invece, il grande fratello ti spia. Raccogliendo «più dati sui consumatori di quanti pensino gli utenti (molto di più)», come titola AdAge: che, peraltro, dopo poco correttamente aggiorna il suo pezzo specificando – probabilmente  su richiesta di Google – che «Google sarebbe in grado potenzialmente di collegare i dati raccolti in modalità incognito all’utente se questi accede a un servizio Google prima di uscire dalla sessione di navigazione privata. Uscendo però da una sessione in incognito, prima di accedere a un servizio Google, tutti i dati associati a quella sessione verrebbero cancellati».

Poco cambia comunque. Parrebbe tra l’altro, infatti, che vi sia una modalità di collegamento retroattivo dei dati anonimi con le credenziali personali dell’utente memorizzate nel proprio account. E comunque, onestamente, quando navighiamo su Internet e usiamo Google, chi è che non è quasi sempre loggato al servizio?

Andiamo però al report. I punti chiave? Otto:

  1. Google bulimico dei tuoi dati. «Google ha un’infinita varietà di modi per raccogliere i dati degli utenti». Durante una normale giornata, ciò accade prevalentemente – così almeno si pensava – quando l’utente è «attivo». «Sorprendente» invece è la quantità d’informazioni personali che Google, tramite Chrome, YouTube, Android, Maps e tutte le sue App, è in grado di monitorare e registrare anche quando l’utente è «passivo». Si tratta, niente meno, che si tratta dei «due terzi dei nostri dati», afferma Schmidt. «Alla fine della giornata Google ha identificato gli interessi dell’utente con accuratezza scientifica».
  2. Android nel mirino. «Android è tra le chiavi principali per la raccolta di dati di Google con oltre i suoi 2 miliardi di utenti attivi nel mondo». Proprio per questo, però, è anche tra i principali responsabili del tracking all’insaputa dell’utente. Se la cosa non ti sconvolgesse, vogliamo andare a vedere di quali dati stiamo parlando? «Nome, numero di telefono cellulare, data di nascita, CAP, numero della carta di credito, e ancora tutte le attività svolte sul proprio smartphone: App usate, siti visitati, configurazione dei device, spostamenti e così via».
  3. Chrome fattore chiave. Non basta? C’è Chrome, il browser di Google che, anche lui con i suoi 2 miliardi di utenti nel mondo, è decisivo per la raccolta dati. Accade ad esempio «quando l’utente compila form on-line, visita pagine web, si geolocalizza».
  4. 340 geolocalizzazioni al giorno, 14 l’ora. Apple & iOS vs Google 1-0. «Sia chiaro», specifica Schmidt, «sia Android che Chrome inviano questi dati a Google anche e persino in assenza di ogni interazione dell’utente. I nostri esperimenti hanno dimostrato che un telefono Android dormiente, con Chrome attivo in background, ha comunicato informazioni sulla localizzazione della persona a Google 340 volte nell’arco di 24 ore, con una media di 14 dati all’ora. In effetti, le informazioni sulla posizione costituivano il 35% di tutti i campioni di dati inviati a Google. In confronto un esperimento simile ha mostrato che su un device Apple iOS con Safari, dove non fossero usati né Android né Chrome, Google non ha potuto raccogliere nessun dato apprezzabile sulla posizione o altro in assenza d’interazioni dell’utente».
  5. La linea alla pubblicità. Non parliamo poi di quando il telefono è usato attivamente. «Se l’utente inizia a interagire con uno smartphone Android, le comunicazioni passive ai domini del server di Google aumentano significativamente. Ciò accade a causa dell’attività di raccolta dati legata alla promozione fatta da Google dei prodotti pubblicizzati dalle aziende partner: costituiscono il 46% delle richieste, «11,6 MB di dati al giorno, 0,35 GB al mese. Una tale mole di dati fa pensare lascia dedurre che anche in assenza d’interazioni con le App di Google, questo sia comunque in grado di operare la raccolta e trasmetterla alle aziende partner per scopi pubblicitari».
  6. Apple & iOS vs Google 0-0. Anche iOS però mostra le criticità di Google quando s’inizia ad usarlo. «Seppure si decida di bypassare l’uso di ogni prodotto Google e visitare solo pagine non-Google, le volte in cui i propri dati sono comunicati a Google rimangono sorprendentemente alte». Sempre, comunque, meno degli smartphone Android: rispetto a questi si tratta circa della metà. Anche in tal caso la motivazione è da ricondursi ai reindirizzamenti effettuati dai servizi di advertising».
  7. «Gratis» e «Social»? Non esistono più. Prezzo e prodotto sei sempre tu. Si tratta alla fine della vittoria del «Paid» su privacy, fiducia, trasparenza, responsabilità. Che cosa accade, infatti, esattamente? E che cosa se ne può concludere? «Google può associare dati anonimi raccolti tramite mezzi passivi con le informazioni personali dell’utente. Gli identificatori pubblicitari – verosimilmente utente anonimo – che raccoglierebbero dati di attività su App e visite di pagine web di terzi, possono essere associati alla reale identità Google dell’utente passando le informazioni d’identificazione del dispositivo ai server di Google da un device Android». Allo stesso modo, «l’ID del cookie DoubleClick, che tiene traccia dell’attività di un utente sulle pagine web di terzi, è un altro identificatore utente anonimo, che Google può associare all’account di un utente. Funziona quando un utente accede a un’applicazione Google nello stesso browser in cui si accede a una pagina Web di terze parti in precedenza».
  8. Facebook vs Google 2-0. L’aspetto quasi paradossale è che, in questo scenario, il social di Zuckerberg, notoriamente al centro d’infinite bufere, polemiche e accuse proprio per violazioni della privacy e tracciamenti non autorizzati, è quello che ne esce meglio. Acuta, in effetti, l’osservazione di Schmidt: «Mentre il pubblico si è concentrato sullo scandalo incorso di Facebook e Cambridge Analytica , Google ha in gran parte evitato l’esame pubblico delle sue pratiche di raccolta dei dati, pur avendo la capacità di raccogliere molte più informazioni personali sui consumatori attraverso una varietà di punti di contatto».

«Sul New York Times Sunday Magazine, in copertina, ho scritto di come Google e Facebook abbiano combattuto per proteggere la loro capacità di tracciarti – la base dei loro miliardi», ha twittato Nick Confessore, celebre firma del New York Times, seguitissimo commentatore politico e, soprattutto, autore dell’articolo che annunciava i risultati degli studi di Schmidt e del suo team. «Un nuovo studio pubblicato oggi da Digital Content Next presenta un ritratto sorprendente della rete di sorveglianza di Google», ha continuato, contribuendo a far divenire ulteriormente virale la notizia.

La risposta di Google non si è fatta attendere e non è andata troppo per il sottile. «La società non collega le informazioni dell’account dell’utente con quelle da lui svolte quando è al di fuori della piattaforma», ha spiegato una portavoce in un’e-mail ufficiale. «Non associamo la navigazione in incognito agli account cui è possibile accedere dopo aver chiuso la modalità in incognito. Non sappiamo quando Chrome è in navigazione in incognito o modi simili in qualsiasi altro browser. Semplicemente impostiamo e leggiamo i cookie come consentito dal browser». E ha incalzato: «Questo rapporto è stato commissionato da un gruppo di lobbisti professionisti DC e redatto da un testimone per Oracle nel loro contenzioso sul copyright in corso con Google», con riferimento al fatto che una volta Schmidt aveva testimoniato contro Google a difesa di Oracle. «Non sorprende quindi che lo studio contenga tante informazioni fuorvianti».

La rete ormai pullula di articoli e How-To su come evitare di essere tracciati da Google. Non lo ripetiamo qui, avendone già trattato qualche giorno fa in abbondanza. Vale la pena, piuttosto, concludere con una domanda: forse una battuta – ma neppure troppo. Viene, infatti, da chiedersi: che sia per questo che proprio in queste ore si sia saputa la novità dell’assistente vocale di Google che ti racconta solo buone notizie? O che si sia annunciato l’arrivo di Shortwave, una nuova App per i podcast? Insomma, un po’ di leggerezza – forse per recuperare in termini d’immagine. O, forse, per distrarre un po’ l’opinione pubblica. Certo è che non possiamo dire: «Ai posteri l’ardua sentenza». La sentenza stavolta spetta a noi.