Content management

Digital Crime. Quando la mancata restituzione dei contenuti integra reato

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Il fatto che ormai di regola si ha l’esigenza, per motivi professionali, di stare in rete, determina un legame imprescindibile tra il titolare del contenuto ed il soggetto che fornisce la piattaforma per renderlo visibile e gestirlo.

La rubrica Digital Crime, a cura di Paolo Galdieri, Avvocato e Docente di Informatica giuridica, alla LUISS di Roma, si occupa del cybercrime dal punto di vista normativo e legale. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Il fatto che ormai di regola si ha l’esigenza, per motivi professionali, di stare in rete, determina, sovente, un legame imprescindibile tra il titolare del contenuto ed il soggetto che fornisce la piattaforma per renderlo visibile e gestirlo. Tale rapporto si rivela “pericoloso” quando per motivi differenti il cliente non intende più avvalersi della piattaforma inizialmente prescelta. La suddetta pericolosità è riscontrabile in modo evidente in tutti quei casi, in vero frequenti, in cui, a seguito della risoluzione del rapporto, il fornitore si rifiuta di restituire i contenuti accampando ragioni di varia natura.

A prescindere dalle questioni civilistiche, ci si interroga se la mancata restituzione dei contenuti, a meno che non sia prevista nel contratto, integri estremi di reato.

Presupposto per ragionare in ordine alla eventuale sussistenza di condotte penalmente rilevanti è che i contenuti richiesti dal cliente siano dovuti.

Sicuramente spettano al cliente i contenuti da lui forniti, che devono essere restituiti nella stessa forma in cui furono a suo tempo consegnati ed in modo che possano essere immediatamente utilizzati senza aggravio di spese e di lavoro. Dubbi potrebbero, invece, sorgere in relazione ai contenuti che sono frutto dell’attività del fornitore, situazione questa suscettibile di interpretazioni divergenti alla luce di quanto previsto dalla legge e dal contratto.

In tal ambito, se da un lato si può sostenere la titolarità, da parte del cliente, dell’intero contenuto, anche di quello frutto dell’attività del fornitore, perché retribuito appunto a tal fine, dall’altro, da parte del fornitore potrebbe obiettarsi che i meccanismi interni relativi al funzionamento del data base e la predisposizione dei dati sono frutto di opera la cui titolarità spetta al fornitore stesso.

Il rifiuto da parte del fornitore potrebbe, al ricorrere di determinati presupposti, integrare in via alternativa gli estremi dei seguenti reati: estorsione (art.629 c.p.); esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art.392 c.p.), appropriazione indebita (art.646 c.p.).

Per poter sostenere che la condotta tenuta dal fornitore integri gli estremi del delitto di estorsione devono ricorrere i seguenti elementi: i contenuti richiesti dal cliente siano dovuti; il rifiuto di consegna da parte del fornitore sia finalizzato ad ottenere somme non dovute, costituendo quindi una sorta di minaccia. Sarebbe ipotizzabile, quindi, l’estorsione laddove nella querela si riuscisse prospettare una situazione in cui il fornitore subordina la consegna di quanto dovuto al ricevimento di somme non dovute. Vi è da precisare, tuttavia, che la norma richiede il dolo, che potrebbe essere considerato insussistente laddove si ritenesse che il rifiuto sia in buona fede e figlio semplicemente di un’errata interpretazione delle norme o del contratto.

Per la sussistenza dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, invece, è necessario che: i contenuti richiesti dal cliente siano dovuti; il rifiuto di consegnarli sia una ritorsione per i canoni non pagati. Tale fattispecie risulterebbe, infatti, integrata laddove il fornitore, invece di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il pagamento dei canoni non versati si sia “fatto giustizia” da solo, trattenendo qualcosa che non è suo. In questo caso occorre dimostrare con documenti e/o testimoni che il rifiuto alla consegna dei contenuti è una ritorsione per i canoni non versati. La norma punisce condotte ben individuate (alterazione, modifica, cancellazione, in tutto o in parte del programma ovvero impedimento o turbamento del funzionamento di un sistema informatico o telematico) per cui la difficoltà è far rientrare in tali comportamenti l’omessa restituzione dei beni richiesti.

Il delitto di appropriazione indebita, infine, risulterebbe integrato allorquando: i contenuti richiesti sono esclusivamente quelli forniti dal cliente; il rifiuto di consegnarli sia finalizzato a perseguire un profitto ingiusto; il fornitore da possessore si atteggi a proprietario di qualcosa che sa non essere di sua proprietà. In tal caso, oltre alla difficoltà di dimostrare il dolo, vi è l’ulteriore problema di provare che i contenuti non consegnati rientrino nella protezione della norma. Il problema si pone poiché la disposizione in parola si riferisce a beni mobili, categoria nella quale secondo giurisprudenza prevalente non rientrano i dati informatici, considerati beni immateriali (Cass. Sez. III, sent. n.20647/2010).   Si potrebbe, tuttavia, tentare di far rientrare nella protezione della norma anche i dati informatici strictu sensu, traendo spunto da una recente decisione che, pur riferita ad altro reato, presenta notevole similitudine con il caso di specie. La Cassazione ha, infatti, confermato la condanna per peculato all’amministratore unico di una società che si appropriava delle banche dati create nel corso di un rapporto concessorio con un Comune. Nello specifico è stato affermato che la banca dati, pur essendo un bene immateriale, rientra nella categoria dei beni mobili ed è quindi suscettibile di appropriazione indebita tutte le volte in cui ha un diretto ed intrinseco valore economicamente apprezzabile. (Cass., Sez. VI, sent. 33031/2018).